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Irene
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Fantascienza - romanzo (168 pagine) - Fino a che punto siamo disposti a fidarci di un essere artificiale?
Il romanzo vincitore del Premio Odissea 2020


Quello dell'esploratore spaziale è un mestiere solitario. Ma un uomo non può viaggiare anni di pianeta in pianeta senza nessuno con cui confrontarsi. Così viene fornita un'intelligenza artificiale, una vera e propria compagna tra il virtuale e il reale, capace di gestire tutti gli aspetti tecnici della nave e di relazione umana con il suo occupante. Ma Irene è qualcosa di più. Non solo: diventa qualcosa di più ogni giorno.

E allora la domanda che Roberto dovrà porsi, mentre si trova, da solo, su un lontano pianeta alieno ad affrontare un possibile primo contatto con un'altra civiltà, fino a che punto può fidarsi della sua compagna.


Nino Martino è cresciuto a Genova, dove si è laureato in Fisica. Docente di matematica e fisica, ha vissuto e lavorato a Milano, Lipari e Cagliari. Negli anni Sessanta ha pubblicato racconti di fantascienza sulle riviste Oltre il cielo, Galaxy e Galassia; ha poi co-fondato e co-diretto due riviste: Il Gioco della materia e delle idee per il dipartimento di Fisica di Genova e Asterischi di Fisica a Cagliari. Ha pubblicato il saggio Educazione scientifica e curricolo verticale (2015) e dirige il sito La Natura delle Cose, dove pubblica i suoi lavori assieme a un gruppo di scienziati, filosofi e critici letterari. Attualmente in pensione, continua la sua attività di formatore per insegnanti ed è tornato a dedicarsi alla sua grande passione: la fantascienza. Dopo essere arrivato in finale al Premio Odissea nel 2017 col romanzo Errore di prospettiva, con Irene ha vinto il premio nel 2020, a pari merito con Franci Conforti.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateDec 15, 2020
ISBN9788825414110
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    Irene - Nino Martino

    9788825403633

    1. Il risveglio

    Dormo e sogno città. Non sono città conosciute, sono città sempre nuove. Palazzi e negozi e gente che affolla le strade. Percorro le vie e ci sono ristoranti cinesi che danno sulle strade, negozi di spezie strane, magazzini di dieci piani pieni di oggetti, di vestiti, di gente che compra. Salgo le scale di un magazzino e cerco un reparto, anche se non so quale. La folla mi urta e io guardo dei soprammobili bizzarri. Oppure, nel sogno, scendo da un treno sotterraneo e pregusto già quello che mi aspetta in superficie. È una grande costruzione, antica, di mattoni e guglie traforate, e poi c’è un museo. Entro nel museo e ci sono quadri su tutte le pareti. Sono quadri di autori mai visti. Passo il tempo da una sala all’altra, senza fretta. Altre volte, in altri sogni, prendo strade in salita, che passano per quartieri sconosciuti dove la gente passeggia tranquilla. Incontro persone mai viste ma che so mie amiche e parlo con loro. O, ancora, sono con una donna che nel sogno è la mia compagna. So di conoscerla da sempre e insieme, allacciati, percorriamo strade e città.

    Dormo e sogno città e poi mi sveglio, come adesso, e mi ritrovo nella mia stanza metallica.

    Guardo l’ora standard sui led del soffitto ed è ora di alzarsi. Inizia una nuova giornata su Aldebaran II. Con un gesto accendo lo schermo e guardo all’esterno.

    Niente città, niente gente che passeggia serena. Il vento sferza le dune, le forma e le plasma. Vedo monti scavati in creste aguzze, che in lontananza sono azzurri e viola. Il cielo è rosso. Nuvole di metano corrono veloci e basse mentre Aldebaran sorge all’orizzonte, enorme e rossa. Le dune vicino alla nave non scorrono secondo la direzione del vento. I loro granelli di pseudo-sabbia si sfregano tra loro e così la forza che le tiene insieme è in parte elettrostatica. Sembrano muoversi in diagonale rispetto al vento. È l’effetto dell’intenso campo elettromagnetico del pianeta sulle cariche elettriche in movimento.

    Guardo le dune muoversi lente, di sbieco, e penso ai miei sogni.

    Una sorta di geyser zampilla vapore d’improvviso, il vento ha scoperto una frattura e il vapor d’acqua si cristallizza immediatamente e ricade in cascata luccicante mescolandosi alla sabbia.

    – Irene? – chiamo a voce alta.

    E subito bussano alla porta.

    – Dai, entra.

    Irene fa scorrere la porta con un fruscio, entra e si aggiusta con un breve gesto i capelli neri e lucidi.

    La guardo.

    – Non ti è necessario bussare e nemmeno devi aprire la porta per entrare.

    – Certo, è tutta scena. Così ti illudi di un po’ di privacy. Non ti piace avere un po’ di privacy, mio signore e padrone?

    – Non sono il tuo signore e padrone.

    – Come, strofini la lampada per chiamarmi e non sei il mio signore e padrone? – e ride brevemente.

    – Come fai a conoscere la storia del genio della lampada? – Ma so già la risposta. Lei ha accesso a tutto lo scibile umano.

    Siede sulla poltroncina accanto al letto, accavalla le gambe e si sporge in avanti.

    – Che ne diresti di un buon tè raw pu-erh? – mi chiede gentile.

    – E porridge di avena con uvetta – aggiungo.

    – Anche qualche noce?

    La guardo.

    – Mi stai prendendo in giro.

    – Non oserei mai. Vuoi che ti porti in braccio nella doccia o ci vai da solo?

    – Non puoi portarmi in braccio.

    Mi guarda e gli occhi neri hanno un guizzo. È ferita dalla mia battuta?

    – No – sussurra – non posso portarti in braccio.

    Mi alzo e vado nella doccia, che non è una doccia di vera acqua. Il getto di vapore mi pulisce e rinfresca e la notte con i suoi sogni scivola via.

    Esco dalla doccia.

    – Mi porgi i vestiti? – le chiedo, pentendomi subito dell’ironia. Infatti, di nuovo, ha un movimento brusco appena accennato.

    – Scusami – e abbasso lo sguardo.

    – Qualcosa non va? – Mi chiede con voce morbida.

    – Sono i miei sogni. Dormo e sogno città straniere mai viste.

    – Controllo. – I suoi occhi si fanno assenti un attimo.

    – No, non ci sono problemi particolari dall’analisi medica del tuo corpo. Sono sogni brutti?

    – No. Sono sogni.

    – I sogni sono strani. Non posso capire. Non ancora. Io non sogno.

    – Non dormi.

    – Non dormo.

    – Niente sonno, niente sogni – e mi vesto con la sottile tuta da lavoro.

    – Lo so.

    Mi volto a guardarla, mi sono di nuovo immaginato un’amarezza nella sua voce? Non è possibile.

    – So che sai tutto sulla fisiologia del sonno e sul meccanismo dei sogni. Perché prima hai detto non ancora?

    Irene glissa sulla domanda.

    – Pronto per la colazione?

    – Pronto, Irene, sono pronto.

    Usciamo dalla cabina insieme e il suo fianco sfiora il mio. Ne sento il calore. Lei piega la testa di lato.

    – Mi piace quando mi chiami per nome – sussurra, e poi siamo nella saletta. Sul tavolo la colazione è già pronta. Porridge di avena, con noci e mandorle e uvetta secca.

    Ci sediamo e mangio. Il tè è ottimo, ben sintetizzato. Mi chiedo quale procedimento ci sia dietro alla sintesi di un tè pu-erh dello Yunnan. Evidentemente è stato ricostruito attraverso i miei ricordi. La combinazione molecolare è quella giusta per riprodurli: acqua calda e qualche biomolecola.

    La guardo al di là della tazza.

    – Successo qualche cosa mentre dormivo?

    – Niente, tutto come al solito. È sorta una luna, la più grande, e l’effetto di marea ha fatto scaturire un paio di geyser nel quadrante 3.

    – Interessante.

    – Hai bisogno di stare un po’ da solo, vedo.

    – No, mi piace stare con te, rimani.

    – Ne hai bisogno, invece. Lo so. So sempre ciò di cui hai bisogno, mio signore e padrone. – E svanisce.

    Guardo la tazza che fuma adagio e le pareti della sala. Attraverso le pseudo-finestre collegate ai sensori esterni vedo il vento che sferza la nave, sopra alla mia base sotterranea. Dune si muovono e un’altra luna più piccola sorge, veloce e rossastra. Aldebaran giganteggia bassa sull’orizzonte.

    2. Il pianeta del vento

    – C’è una variazione del campo magnetico – mi dice Irene.

    Siamo nella saletta centrale, una decina di metri sotto la superficie. Abbiamo scavato tutta la base sotto la superficie per evitare il problema del vento, discontinuo ma a volte molto forte, e per avere un impatto minimo con l’ecosistema della superficie. L’astronave è invece ancorata fortemente a dei piloni profondi e la sua temperatura superficiale è ormai quella del pianeta.

    – Curioso – dico, osservando i dati.

    – Abbastanza strano. La fluttuazione è molto evidente.

    – Con un periodo fisso, vedo – aggiungo, mostrandole il dato del periodo. Inutilmente. Non c’è bisogno di mostrare a Irene alcunché, i dati sono dentro di lei.

    – Una asimmetria – dice – dovuta forse alla fluttuazione gravitazionale o alla presenza di qualcosa di fluido e metallico che si sposta regolarmente all’interno.

    – Qualche cosa di interessante per noi, qualche cosa che giustifichi la nostra permanenza?

    Irene mi guarda e posa una mano calda sulla mia gamba.

    – Da quando sei interessato allo sfruttamento?

    – Sono pagato per questo. Se troviamo qualche cosa marchiamo con un segnalatore, comunichiamo il tutto e ce ne andiamo. Subito.

    Irene mi guarda.

    – C’è qualche cosa che non va?

    – Sono inquieto, ma questo lo dovresti già sapere.

    – Lo so già, mio signore e padrone.

    – Oggi me l’hai ripetuto molte volte.

    – Ti turba?

    – Forse, o forse è questo pianeta.

    – Preferivi il pianeta d’erba?

    – Era stupendo.

    – E atroce – aggiunge Irene.

    – E atroce. – E mi tornano in mente le colline verdi di erba terrestre che fluttuava nel vento leggero. Il pianeta della nostra prima esplorazione insieme. Un pianeta apparentemente delizioso. Un pianeta che in realtà era stato ucciso nella sua evoluzione naturale per la creazione ideologica e crudele di una coppia mandata a colonizzare i pianeti con forme di vita terrestre. Ideologia mai esaurita, sulla Terra. L’erba non mangia altra vita, spiegava la coppia in una videoregistrazione. L’erba, verde di una serenità raggiunta, che spezza la catena alimentare. Eticamente l’erba è vita che per crescere non sopprime altra vita, come invece noi umani, o come gli animali in genere. E così ogni possibilità di evoluzione di una vita autoctona era stata cancellata per la follia di un’artista che voleva creare un’opera unica, etica. La nostra scoperta aveva generato scandalo sulla Terra, polemiche a non finire. Da alcuni, l’artista e il suo compagno erano stati esaltati come i più grandi artisti della storia, altri erano invece inorriditi, pretendendo leggi per impedire azioni simili in futuro.

    – Meglio questi assurdi colori – sussurra Irene, che ha seguito i miei pensieri. – Ma è stata la nostra prima avventura insieme – aggiunge dopo un istante.

    Il vento ora è forte, le dune si muovono nella pianura dove siamo atterrati.

    – Troppo vento. Niente droni?

    – Niente droni che volano. Sto costruendo dei droni-vermi.

    Mi mostra i dettagli costruttivi, sono dischi piatti che non danno appiglio al vento.

    – Sto raccogliendo materiale per costruirli. Il pianeta è ricco di materiali per me.

    – Tempo?

    – Un paio d’ore e potrò lanciare i primi, ho cominciato già da un po’, mentre dormivi.

    – Non me l’avevi detto.

    – Mi hai detto di costruire i droni di esplorazione.

    – Ma hai fatto una variante.

    – Certo. E non ti dispiace, vero? Che abbia fatto autonomamente una variante, intendo…

    Irene sa praticamente tutto di me. Attraverso gli innesti che porto in diversi punti del corpo sente e vede gran parte di quello che sento e vedo io. Tutto? Mi hanno spiegato che per ragioni di sicurezza una parte di me è esclusa dalla connessione. Ma non sono mai sicuro che sia così.

    – È bello che tu mi voglia indipendente, in questo tuo modo particolare. Prima, non è mai successo.

    – Come fai a saperlo?

    – Io sono collegata in rete con le altre Irene e il Frederick. Scambiamo dati, informazioni, ci arricchiamo continuamente.

    – Quante Irene ci sono? – questo è un dato che non so, sono curioso.

    – Cinque, e un Frederick.

    Frederick credo sia il compagno dell’esploratrice Anapa Anatapong, di origine thailandese. L’ho conosciuta tempo fa in una stazione di scambio. Anapa è un bellissimo nome. In thailandese vuol dire Mare Scintillante. Chissà se la rivedrò mai più.

    – Non sapevo che foste collegate fra di voi…

    Ma Irene non commenta. Questo collegamento è una novità, per me. Forse non solo per me. Ne capisco la possibilità, peraltro, ma devo controllare con il coordinatore scientifico che la cosa sia già nota e sotto controllo.

    – Ecco, i droni stanno uscendo adesso a raccogliere i dati. Le fluttuazioni di campo magnetico non dovrebbero disturbarli. Potrei apportare forse un paio di modifiche ma li renderei meno agili.

    Vediamo sugli schermi collegati ai sensori esterni i piccoli dischi uscire dal condotto e sparpagliarsi velocemente in tutte le direzioni.

    – Il flusso di dati è già cominciato ma ci vorrà un po’ di tempo per coprire abbastanza superficie da renderli significativi. Non poter volare li rallenta, è ovvio.

    La guardo. I suoi capelli sono neri e lisci, la pelle è dorata, indossa un corto vestito-non vestito. Ogni giorno cambia abito, ma il colore dei capelli è sempre nero. Mi piacciono i capelli neri, evidentemente. Lei raccoglie il mio sguardo.

    – Se vuoi possiamo andare a riposarci un po’ – mi dice, piegando la testa di lato.

    – Ma tu non ti riposi mai.

    – Ma io non mi riposo mai – dice leggera. Troppo vera. La dolce Irene, la portatrice di pace. Gli esploratori come me prima impazzivano di solitudine, davano fuori di testa, di brutto, in pochissimo tempo. Immaginate di essere vissuti sulla Terra, di aver sempre visto il mare e i monti e le foreste e le nuvole. E poi, di essere sbattuti su un pianeta completamente estraneo, con i colori che fanno stridere i denti. E siete soli, perché un equipaggio costa troppo e per esperienza può creare problemi infiniti, magari perdendo tutta una costosissima spedizione. Irene è la compagna ideale. Irene è una IA. Io la vedo perché i miei innesti me la fanno vedere. Una simulazione perfetta. Irene è in realtà distribuita in tutta la nave. Ne posso annusare l’odore, creato per me, posso sentire il calore della sua pelle, vedere il suo sorriso. Nello stesso tempo non è solo una mia creazione. È Irene.

    – Andiamo, allora? – dice Irene.

    – Andiamo.

    Irene, già sulla porta, si volta, guardandomi interrogativamente.

    – Eppure… – e mi guarda.

    Nella mia mente viene creata l’immagine di lei che mi fissa, dubbiosa.

    – Eppure?

    – Niente, vieni.

    Dopo aver fatto l’amore, intensamente, come sempre, guardiamo dal letto lo schermo a soffitto. Un grande geyser si innalza improvviso contro il cielo rosso e acqua cristallizzata azzurra ricade veloce nella gravità del pianeta. Il vento soffia impetuoso e i cristalli di acqua si mescolano alle dune grigie. Il pianeta del vento.

    3. Cristalli

    Nella saletta di ricerca guardo scorrere i dati. Irene siede (sembra seduta) accanto a me. Mi indica alcune sequenze di dati.

    – Aspetta che li elaboro in maniera differente.

    Ora la sequenza è più chiara.

    – Sotto la sabbia che scorre nel vento c’è una rete di cristalli – dice.

    – Quanto estesa?

    – Sono macchie sparse, non è un’unica rete.

    – Cristalli.

    – Principalmente costituiti da idrato di metano con tracce di strutture piuttosto complesse.

    – Per quanto si estendono?

    – Le formazioni cristalline hanno forme irregolari di circa un metro quadrato e non sono dappertutto, ma disposte a gruppi.

    – Sei già in collegamento con la Terra?

    – No. Sto aspettando di avere più dati. A questa distanza, le comunicazioni con la rete costano in termini di energia.

    – Si, lo so, malgrado l’entanglement.

    – Malgrado l’entanglement.

    – Toglimi una curiosità: ti sei già messa in contatto invece con le altre Irene e Frederick? O siete in contatto permanente?

    Irene mi guarda, o immagino che mi guardi, o proietta in me l’immagine di lei che mi guarda. In quel momento si accendono lucine verdi intermittenti nello spazio sopra la consolle.

    – WOW! – dico io.

    – Forse è veramente un wow! – Irene sembra eccitata. Ma che senso ha per lei? – Sto localizzando. Ecco. A qualche miglio da qui, uno strato sotterraneo di cererite. E più sotto acqua ghiacciata.

    – Al primo colpo? Pare impossibile…

    – Statisticamente improbabile, salvo che…

    – Salvo che il pianeta ne sia pieno. Incrociamo le dita.

    – Se così fosse potremmo utilizzarne anche noi, sarebbe utile. Potremmo avere energia per un collegamento costante in rete con la Terra e per impiantare la stazione di scambio minerario.

    La cererite è il catalizzatore usato nella fusione fredda. Pare si formi solo in condizioni particolari sui pianeti cosiddetti freddi. Per questo ci hanno spedito qui. Il catalizzatore ha risolto il problema dell’energia sulla Terra come fonte principale, insieme a quelle che una volta si chiamavano energia rinnovabile. Solo che la cererite bisogna andarsela a prendere. Sui pianeti freddi o su satelliti di pianeti lontani dal proprio sole.

    Il flusso di dati continua e Irene posa una mano sulla mia gamba. Poi adagia piano la sua testa sulla mia spalla. Sembra felice della mia felicità.

    – Sono felice della tua felicità – dice con tono sottile.

    – Tu sai sempre quello che penso?

    – Noi siamo connessi.

    – Te l’ho già chiesto un po’ di tempo fa: cosa ti succede se io muoio o esco dal programma di ricerca spaziale? Non mi hai voluto rispondere. Te l’ho chiesto nella nostra prima esplorazione. E ora? Mi vuoi dire…

    – Io sono un programma connesso con te. Ed è tutto.

    – Ma fisicamente? Dove sei?

    – Sono distribuita su

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