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Noi siamo vendetta
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Noi siamo vendetta

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Thriller - racconti (66 pagine) - «Diego è un abile artefice di storie perché è anche un acuto osservatore che entra in ambienti e vite quotidiane disseppellendo amori, orrori, complicità e drammi.» (Andrea Carlo Cappi)


Tre racconti, tre squarci nella follia dell’umano e del quotidiano. Tre porte spalancate sul male nero che alberga in ognuno di noi. E che resta latente fino al momento dell’esplosione, quando ogni cosa cambia per sempre.

Tre personaggi tristi, ambigui e sconvolti, costretti a recitare sul palcoscenico delle proprie delusioni.

Prima di precipitare nell’abisso.


Diego Di Dio, procidano, è nato nel 1985. Scrittore, editor, agente letterario e docente di scrittura e di editoria, nel 2015 ha fondato l’agenzia letteraria Saper Scrivere. Amante del giallo e del thriller, è anche direttore della collana Spettri, per la casa editrice Alter Ego. Ha pubblicato, con il Giallo Mondadori, i racconti I dodici apostoliIl canto dei gabbiani (menzione d’onore al Gran Giallo Città di Cattolica) e L’uomo dei cani (inclusi nella raccolta Noi siamo vendetta). Ha vinto, per due volte, il premio Writers Magazine Italia, con i racconti C’è ancora tempo e Il trampolino. Ha vinto, inoltre, il Nero Premio con il racconto noir Il coltellaio e il premio Mario Casacci (Orme Gialle) con il racconto La signora. Ha pubblicato, con la Delos Digital, i racconti thriller Scala realeLa bambina della pioggia e Il supereroe. Ha vinto, inoltre, il premio Scuola di Fumetto per la miglior sceneggiatura, con Io sono il tempoFore morra (Fanucci, 2017) è stato il suo primo romanzo, e ha riscosso un notevole successo di pubblico e critica. I suoi corsi di scrittura e di editoria sono seguiti da mezzo migliaio di studenti in tutta Italia.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateDec 15, 2020
ISBN9788825414165
Noi siamo vendetta

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    Noi siamo vendetta - Diego Di Dio

    9788825403749

    Introduzione

    Noi siamo vendetta è una piccola raccolta che nasce dall’esigenza di riproporre i racconti con i quali ho cominciato a bazzicare la narrativa di genere.

    La società attuale, velocissima e spietata nei ritmi, ha quasi dimenticato il valore formativo della cosiddetta gavetta. Lo ripeto spesso ai miei studenti di scrittura creativa: abbiate pazienza; prendetevi tutto il tempo; nessuno vi corre dietro. D’altronde, si sa, il mondo contemporaneo – forse anche per via della rapidità imposta dai social, ma questo è un discorso che qui non affronteremo – sembra muoversi verso la direzione del tutto e subito, del risultato a ogni costo e in breve tempo.

    La scrittura, però, è lenta. Lo è fisiologicamente, strutturalmente. Da questo non si scappa.

    Benché io stia ancora affrontando la gavetta di cui sopra, le tre storie che vi accingete a leggere rappresentano i primi passi che ho mosso nella narrativa nazionale. Lo si può capire bene: per un ragazzo appassionato di gialli e thriller, esordire a ventisette anni sulla collana italiana più famosa e blasonata è qualcosa che lascia il segno. Si comincia a fare sul serio, in un certo senso, e se ne acquisisce consapevolezza.

    Dato che i Gialli Mondadori, di solito, restano nelle edicole solo un mese, questi racconti erano spariti dalla circolazione da qualche anno. Pertanto, ho pensato di riproporli in questa breve raccolta. Oltre alla presente introduzione, ad arricchire il testo ci sarà una piccola postfazione per ogni racconto; sperando di fare cosa gradita, ho pensato di mettervi a parte di qualche retroscena.

    Augurandovi buona lettura, vi ringrazio.

    I lettori – spesso qualcuno lo dimentica – sono il motore imprescindibile di tutto il mercato editoriale. Senza di voi, non esisteremmo noi scrittori, non esisterebbero le case editrici, non esisterebbe la letteratura.

    Quindi, come sempre, grazie.

    Il canto dei gabbiani

    Al vero gabbiano Jonathan,

    che vive nel profondo di tutti noi

    Richard Bach

    Il mare.

    Mentre risucchia l’onda, sembra un bambino che tira su la coperta. Poi la lascia andare, e l’acqua prorompe in un moto continuo, inarrestabile, fino al frangente che si corica sulla battigia. L’aria è fresca, il vento deposita sulla spiaggia odore di alghe e di sale.

    Sembra che il mondo si sia fermato. Che abbia smesso di correre, finalmente.

    Il ristorante si chiama La Sirena.

    Avrei voluto dargli un nome più originale, ma fu Elena a insistere. Diceva che La Sirena avrebbe attirato i turisti: un nome classico per un’isola classica.

    Lo rilevammo otto anni fa. Per acquistarlo e ristrutturarlo spendemmo quasi tutti i nostri risparmi, ma recuperammo l’intero investimento in meno di cinque anni.

    La Sirena è un miracolo in legno lucido. Venendo dal mare, assomiglia a una palafitta che galleggia tra spiaggia e bagnasciuga. Nelle sere d’agosto, quando le candele tutt’intorno sono accese, le fiamme increspano coriandoli di ombre sulle palme, sulle pareti, sui tavoli e sui volti dei clienti. Poi si fondono col buio sempre più fitto che sale lungo la parete della montagna.

    La prima volta che ho incontrato il gabbiano, era un venerdì di maggio.

    Alle tre del pomeriggio un’afa inaspettata già appesantiva l’aria. Stavo pulendo il pesce e preparando i secondi per la cena. Quando mi sono affacciato alla finestra per una boccata d’aria, l’ho visto.

    Volteggiava con l’eleganza di chi è parte della natura. Le ali aperte a tagliare il vento, la testa sempre rivolta in avanti. Disegnava i simboli dell’infinito sopra il mare immoto. Ogni tanto cambiava direzione con una sterzata secca, improvvisa.

    È sceso a terra in una caduta soffice, imperiale. Si è fermato sulla sabbia, le ali in posizione di riposo, gli occhietti piccoli rivolti verso di me. Aveva una macchia nera sulla fronte.

    Mi ha fissato.

    Io sono andato in cucina, ho rovistato nell’umido e ho tirato fuori una testa di pesce. Sono tornato alla finestra e l’ho lanciata sulla battigia.

    Il gabbiano, che nel frattempo si era alzato in volo, è atterrato con una picchiata rapidissima, ha beccato la testa di pesce e in pochi secondi l’ha fatta sparire.

    Poi ha aperto le ali e ha spiccato il volo, scomparendo all’orizzonte.

    Mi appoggio alla finestra che dà sulla spiaggia.

    Inspiro a pieni polmoni, lasciando che l’aria frizzante mi svuoti di tutti i pensieri degli ultimi giorni. Sto per accendermi una sigaretta, quando avverto i passi.

    Mi fermo.

    Sono passi strascicati, scendono la lunga scalinata che porta al ristorante. Sono inconfondibili, perché aggrediscono i gradini con un andamento pesante, tipico di chi non fa parte di questo posto.

    Infilo la sigaretta tra le labbra e l’accendo.

    Avrò tutto il tempo di fumarmela, prima che il brigadiere Bonelli giunga fin qui.

    Conobbi Elena quindici anni fa, al ricevimento di un battesimo.

    La prima cosa che pensai fu che assomigliasse a mia madre da ragazza. Aveva lo sguardo vispo e curioso, che in un certo senso contrastava con il viso delicato. Pelle liscia e folti capelli neri che sfioravano le spalle.

    Non mi innamorai subito di lei.

    Ci conoscemmo poco a poco, senza fretta, secondo un rituale paziente che oggi quasi non esiste più.

    Le chiesi di sposarmi dopo cinque anni di fidanzamento.

    Elena è sempre stata una donna dalla bellezza immediata. Un viso e un corpo che si prestano al complimento volgare, all’apprezzamento sguaiato. Sin dai primi tempi, quando camminavamo per strada, sentivo gli sguardi degli uomini poggiarsi su di lei. Assecondavano il suo ancheggiare, le curve sinuose del seno, i capelli che scendevano a coprirle il viso. In qualche occasione provai una punta di fastidio, ma niente di più. Elena mi sarebbe stata fedele, sempre.

    Ne ero sicuro.

    L’ultima volta che vidi mia madre piangere fu il giorno prima della sua morte.

    Andavo in terza media. Stavo facendo i compiti nella mia stanza, quando avvertii un leggero singhiozzare. La raggiunsi in camera da letto, senza fare rumore. Era seduta sul letto, gli occhi persi dentro una fotografia, un pianto silenzioso a bagnarle le guance.

    – Mamma? – chiamai.

    Lei alzò il viso e tirò su col naso. Non tentò di nascondere le lacrime.

    – Ho sopportato sempre tutto – disse, non a me, ma al vuoto. – Tutto. Ma questo no. Il tradimento no.

    Si accucciò sul materasso tirando su le lenzuola. Io la raggiunsi, coprendola alla meno peggio. Era stanca, sfatta, le occhiaie bluastre quasi divoravano il volto.

    Strappai la foto dalle sue mani: mio padre. Stretto a lei, in un abbraccio che ormai sembrava un’offesa al presente. Erano passati sei mesi da quando ci aveva abbandonati, per scappare via con un’altra donna.

    Mia madre mi sfiorò il viso con una carezza, guardandomi per la prima volta.

    – Scusa. Tu non c’entri niente. Scusa, ho sbagliato tutto. – Singhiozzò, cercando il perdono dentro i miei occhi. – Tutto.

    Il giorno successivo, subito dopo la colazione, disse che sarebbe andata a fare un bagno caldo. Non c’era scuola, e io rimasi quasi due ore a guardare la tivù. Cominciai a preoccuparmi solo quando il telefono squillò, e nessuno rispose. Lei

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