Una vita, due vite: Corso e percorso di voci
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Una vita, due vite - Cristina Contini
Junghiano
PARTE PRIMA
Il mio inizio
È l’una di notte, in ospedale. Il silenzio delle corsie, il buio del cielo che ci avvolge. Il mio corpo abbandonato dopo l’intervento da poco affrontato. È un attimo e inizio a sanguinare dalla bocca. Mia madre collassa e io non riesco a respirare, mi sento svenire. «È andata». È l’infermiera che mi sostiene, chiama aiuto. Mi intubano in pochi istanti, mi tengono in vita. O non lo so.
Mi ritrovo in alto, a osservare. Mi vedo al centro della sala pre-operatoria. Le luci, sì, quelle ora sono forti, ma non mi disturbano. Arriva il primario, di corsa, e nel giro di pochi minuti inizia ad aspirare il sangue che mi sta invadendo il corpo a una velocità difficile da comprendere, poi cerca di suturare il taglio all’altezza della gola che si era lacerato.
Mi sento leggera. Penso a dove sia andata l’infermiera ed eccomi nella guardiola. La sento parlare: «Ma proprio alla figlia di Contini doveva succedere? Se muore lei è un casino...». Penso a dove sia mia madre e mi ritrovo al suo fianco, sento ciò che pensa: «L’ho persa, l’ho persa». Allora penso a mio padre e lo vedo, sta entrando in pronto soccorso, lo seguo con lo sguardo. Il mio sguardo che può vedere. La mia anima che si muove. «Dov’è mia figlia? Dove l’hanno portata?». «Signor Contini, veniamo con lei, dobbiamo aiutare a spostarla, perché Cristina non può muoversi», lo rassicurano due omaccioni. Mi ritrovo di nuovo al fianco di mia madre che, non appena lo vede, piange: «L’abbiamo persa!». Ma i medici intervengono: «No, signora, guardi che è ancora viva».
Arrivano gli operatori, gli stessi due che avevano accompagnato mio padre all’ingresso dell’ospedale, aiutano i medici a mettermi seduta. Uno mi tiene da destra. Uno mi tiene da sinistra. Ed è allora che il medico si prepara ad applicarmi, all’altezza dell’esofago, una specie di placca per saldare quella lacerazione che non c’è modo di ridurre. Io mi guardo, vedo che stanno lavorando sul mio corpo. Non avverto dolore. È più di un’ora che mi sento bene. Una finestra di serenità.
Fino all’instante in cui il gelido della placca tocca le mie membra. Ed è li che torno
. È come l’esplosione di una bomba a mano, i lembi di pelle che si attaccano alle pareti. Un dolore dilaniante, impossibile anche solo da dire.
Passa qualche ora. L’operazione è terminata. Sono stabile, rientrata dallo stato di coma, ma ancora intubata. Vicino al mio letto vedo mia nonna, mancata da sei anni. Non posso che pensare: va bene, sto morendo. Oppure no, sono già morta. Ma è in quel momento che la sua voce mi risuona in testa: «No, cocca. Ti sbagli, non sei morta. E vedrai che non morirai».
La piccola Cristina
Sono nata a Carpi, in provincia di Modena, il 9 settembre 1966. La terza di tre fratelli. La prima, mia sorella maggiore, è sempre stata la creativa della famiglia. Il secondo, mio fratello, il più religioso, più bigotto e rigido. Io la diversa. I miei genitori e i miei nonni scherzavano dicendo che mi avevano trovata nella spazzatura. Mi chiamavano Calimero, anche se non c’era nulla che mi portasse a pensare che fossi una persona negativa.
Sono cresciuta in oratorio, ho fatto parte dell’Azione Cattolica. Una famiglia normale, non ricca, ma nemmeno poverissima, che non mi ha fatto mancare nulla. Erano gli anni Settanta e non avevo particolari pretese. Mettevo gli abiti dismessi dai miei fratelli. Studiavo, ho sempre amato i numeri. Mi sono diplomata in ragioneria, come analista contabile, una persona razionale e ambiziosa. Era il motore del mio fare. Subito dopo il diploma, a diciotto anni, ho iniziato a lavorare in uno studio notarile. L’analisi dei bilanci è diventata il mio lavoro. Ho sempre avuto un occhio clinico per le pecche nei budget.
A diciannove anni e mezzo, però, scoprii che avrei dovuto essere operata d’urgenza alle tonsille. Pochi mesi prima un dentista, durante un’operazione, mi aveva forato per errore il seno paranasale. La conseguenza era stata un’infezione che poco per volta aveva compromesso le tonsille. Era necessario asportarle. Si trattava di un’operazione normale, di routine. Se non fosse che – nessuno lo sapeva al momento del mio ingresso in ospedale – ero emofilica. Avevo un’emofilia di tipo C, causata dall’assenza del fattore XI della coagulazione. Basta un piccolo taglio, la ferita non si chiude, ma anzi, si espande. Le donne generalmente sono portatrici di questa patologia, pochissime sono quelle che la manifestano in modo sintomatico. Nessuno poteva aspettarsi che io ne fossi affetta. Se l’emofilico si trova ad affrontare un’operazione, dev’essere preparato con un coagulante, o in forma chimica o con trasfusioni di sangue e plasma che abbiano il fattore mancante. Nel mio caso non