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Oltre il mandorleto
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Oltre il mandorleto

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About this ebook

Gli anni Settanta bussano alla porta e nell'aula della scuola media di periferia "E. Lussu" si incontrano, in un precario equilibrio, i drammi personali di un gruppo di ragazzi. Un equilibrio che presto si rompe, quando in un aspro scontro, avvenuto in quella classe, emerge la figura carismatica e minacciosa di Mirko, un'anima sbandata che presto abbandonerà la scuola e si dedicherà allo spaccio di stupefacenti. L'ingresso del "male" nella vita dei giovani protagonisti porterà ognuno di loro a farci i conti, a cercare di contrastarlo o a cedervi completamente. In uno stillicidio quotidiano, l'autore racconta con magistrale capacità la deriva di anime e corpi, lasciati spesso al proprio destino, in una periferia cittadina che pare non lasciare scampo e dove l'unica legge è quella della sopravvivenza.
LanguageItaliano
Release dateDec 4, 2020
ISBN9788868513160
Oltre il mandorleto

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    Oltre il mandorleto - Vincenzo Soddu

    Soddu

    Oltre

    il Mandorleto

    arkadia editore

    Gli anni Settanta bussano alla porta e nell’aula della scuola media di periferia E. Lussu si incontrano, in un precario equilibrio, i drammi personali di un gruppo di ragazzi. Un equilibrio che presto si rompe, quando in un aspro scontro, avvenuto in quella classe, emerge la figura carismatica e minacciosa di Mirko, un’anima sbandata che presto abbandonerà la scuola e si dedicherà allo spaccio di stupefacenti. L’ingresso del male nella vita dei giovani protagonisti porterà ognuno di loro a farci i conti, a cercare di contrastarlo o a cedervi completamente. In uno stillicidio quotidiano, l’autore racconta con magistrale capacità la deriva di anime e corpi, lasciati spesso al proprio destino, in una periferia cittadina che pare non lasciare scampo e dove l’unica legge è quella della sopravvivenza.

    Vincenzo Soddu è nato a Cagliari nel 1962. Laureato in Lettere, nel 1987 ha iniziato a lavorare nel mondo della scuola. Contemporaneamente si è dedicato a ciò che ama di più: scrivere, spaziando dai brevi saggi storici ai racconti della memoria. Dal 2012 si occupa del blog Libriedintorniblog, che aggiorna febbrilmente. Nel 2013 ha esordito nella narrativa con La neve a Gaza. Una storia palestinese (Caracò), romanzo incentrato sui difficili temi della guerra e dell’integrazione, che lo ha portato a lavorare a stretto contatto con le associazioni di volontariato. Nel 2015 ha pubblicato Un’isola da bere. Percorsi letterari nella Sardegna del vino, dei liquori, del caffé (Cuec), sesto numero della rivista Mieleamaro, un’avventura letteraria accompagnata dal profumo del vino. Nel 2017 è uscito Siria. Lezioni e parole (Miraggi Edizioni), scritto insieme ai suoi alunni. Nel 2018 ha pubblicato Invisibili (Arkadia Editore), romanzo sui valori più profondi che ispirano il mestiere dell’insegnante. Attualmente vive e lavora nella sua città.

    Foto di copertina: Trevin Rudy / Unsplash

    © 2020 arkadia editore

    Collana Eclypse 112

    Prima edizione digitale dicembre 2020

    isbn 978 88 68513 160

    arkadia editore

    09125 Cagliari – Viale Bonaria 98

    tel. 0706848663 – fax 0705436280

    www.arkadiaeditore.it

    info@arkadiaeditore.it

    Quindi, quindi tu pensi di saper distinguere

    il paradiso dall’inferno,

    i cieli blu dal dolore,

    saper distinguere un campo verde

    da una fredda rotaia d’acciaio?

    Un sorriso da un velo?

    Tu pensi di saperlo distinguere?

    Ti hanno portato a barattare, a tal punto,

    i tuoi eroi per fantasmi?

    Ceneri calde per alberi?

    Aria calda per una brezza fresca?

    Un freddo conforto per cambiamento?

    Hai scambiato, così,

    un ruolo da comparsa, in guerra,

    per un ruolo da protagonista, in gabbia?

    Come vorrei, come vorrei che tu fossi qui.

    Siamo solo due anime perse che nuotano

    in una boccia di pesci.

    Anno dopo anno,

    correndo sopra lo stesso vecchio suolo,

    e, come abbiamo trovato le stesse vecchie paure,

    ora vorrei che tu fossi qui.

    Wish You Were Here

    roger waters, david gilmour

    Prologo

    Mi chiamo Sandro Fois.

    Il primo ricordo che ho di tutta questa storia risale alla sera del 25 giugno 1967.

    Si trasmetteva un programma televisivo che per la prima volta univa il mondo, o almeno così si diceva in giro.

    Non avevo ancora sei anni, e nemmeno la tv, come tutti.

    Ci eravamo appena trasferiti con mio padre, fresco vedovo, da una palazzina alla periferia della città, in quel nuovo quartiere dai palazzi alti come torri.

    In realtà, non capivo perché l’avessimo fatto. Questo nuovo quartiere non era tanto diverso dall’altro, a parte le torri.

    Anche nel vecchio c’erano un gruppo di case popolari, una grande piazza con al centro una chiesa, le scuole, un uliveto… un mandorleto.

    Mi portavo dietro pochi ricordi – dell’asilo, soprattutto –, tanti volti di suore, in particolare di due, suor Luigia e suor Enrichetta, la prima solare, la seconda robusta, svogliata, e poco altro.

    Di fronte a casa apriva un nuovo bar, ma la festa per l’inaugurazione era passata subito in secondo piano… Alla tv stava per cominciare la doppia telecronaca dall’Italia per la Mondovisione.

    Sul grande schermo del locale comparve una breve esibizione di due cavalieri, due fratelli, atleti olimpionici. «Molto bravi e famosi», mi garantì mio padre. Subito dopo apparvero le strade antiche di un paese dove un regista, altrettanto famoso, girava un film su una strana storia d’amore, dove i due amanti alla fine si suicidano. Attorno a me la gente sembrava in effetti annoiarsi.

    Feci in tempo a riconoscere altri cinque ragazzi, prima che i Beatles, durante il collegamento in diretta da Londra, intonassero per la prima volta All You Need Is Love, composta per l’occasione, seppi più tardi.

    Quattro di quei ragazzi sicuramente sarebbero stati i miei compagni di scuola di lì a poche settimane. Il quinto sembrava più grande. Era grasso, insofferente, e non vedeva l’ora di uscire.

    Sembrava fuori posto.

    Chissà se lo rivedrò, pensai, ma dentro di me qualcosa mi diceva che me ne sarei dovuto tenere a ogni costo alla larga.

    In realtà, il motivo per cui c’eravamo trasferiti in quel nuovo quartiere lo compresi subito dopo che iniziarono le scuole elementari.

    Mio padre, appena promosso maresciallo, era stato trasferito alla Questura di Cagliari e assegnato al controllo di quel labirinto di alveari abitativi che destavano, nei vertici della Polizia cittadina, non poche preoccupazioni. Quando mi accompagnò, il primo giorno di scuola, in divisa, gli altri genitori facevano a gara nel mostrare un rispetto che andava oltre il normale codice formale di una piccola comunità.

    Mio padre era l’autorità, per molti versi temuta, di quel quartiere, e io ero il figlio da trattare bene, far sentire sempre benvoluto, coccolato quasi.

    In breve, forse anche perché l’unico senza fratelli, venni invitato a casa di tutti i vicini e messo a proprio agio dalle mamme e dalle sorelle dei miei amici.

    Le case in cui trascorrevo la maggior parte del tempo erano quelle di Andrea e di Stefano, e forse fu da allora che presi l’abitudine di osservare tutto ciò che mi accadeva attorno con occhi che penetravano anche i sentimenti più profondi dei miei migliori amici.

    A casa di Stefano io e mio padre ci andavamo praticamente tutti i giorni, e non passò molto che anch’io capii come tra la madre di Stefano, separata da una vita, e mio padre, rimasto vedovo da poco, fosse nata una storia vera e propria.

    Quando mio padre ci mandava a comprare dolci e gelati al bar di fronte, era fin troppo chiaro sul fatto che non saremmo dovuti tornare prima di un’ora, dopo aver mangiato i nostri gelati lì fuori, giocato nel Mandorleto, e comprato i dolci nella pasticceria del cep, la più lontana, quella che, secondo lui, aveva le paste più buone della città.

    Anche quando io, Stefano e la sorella crescemmo, i nostri due genitori continuarono a vedersi, discretamente, come una coppia matura, ma che per ovvi motivi non doveva dare più di tanto nell’occhio.

    Noi ci adeguammo facilmente, anche perché mangiare dolci e gelati ogni sera era veramente un gran lusso, e anche se al ritorno trovavamo i nostri genitori stanchi e sudati, e con noi sempre di cattivo umore, quasi li avessimo interrotti sul più bello, ci stava bene e tornavamo a casa soddisfatti.

    Se con Stefano condividevamo i momenti più eccitanti e proibiti, con Andrea, in particolare, era nato un legame più forte, che andava oltre l’abitudine di trascorrere tanto tempo assieme… Da subito era sorta un’intesa che ci permetteva di capire l’altro senza la necessità d’aggiungere parole superflue.

    Con lui e la sua famiglia ci si vedeva soprattutto la domenica.

    Ogni volta io, Andrea e il fratellino osservavamo sempre in una sorta di stato di rapimento estatico gli accurati preparativi del pranzo che il padre e la madre di Andrea condividevano profondamente.

    Elton John cantava Skyline Pigeon, e noi aspettavamo trepidanti il momento in cui arrivavano a tavola i maccheroni fumanti e le alici croccanti.

    A scuola gli anni trascorrevano sereni e la maestra, Ida Siddi, appariva a noi come una seconda mamma, più permissiva e meno distaccata delle nostre vere madri.

    Erano anni in cui si giocava, soprattutto, e anche la presenza di Mirko, ingombrante e a volte vagamente minacciosa, non sembrava ancora costituire un vero pericolo.

    1

    Il giorno in cui Mirko e Maurizio abbandonarono la nostra classe me lo ricordo bene.

    Eravamo in prima media.

    La scuola era iniziata il 1° ottobre del 1972 e, dieci giorni prima, i nostri genitori ci avevano lasciati, per la prima volta, a casa da soli, perché loro dovevano andare al cinema a vedere Il padrino.

    Morivamo d’invidia e aspettavamo il momento in cui anche noi, in qualche locale di seconda visione, avremmo assistito alle avventure di Michael Corleone e della sua banda, come ci piaceva pensarla.

    La nostra era una sezione formata da amici, che ogni volta si ritrovavano in piazza, o al Mandorleto, o nel campo di carciofi, attorno allo scheletro della sip, a giocare e a correre senza pensare a nulla, tantomeno alla scuola. Il primo giorno di scuola media, all’istituto E. Lussu ci eravamo arrivati tutti assieme come facevamo ogni pomeriggio per andare in piazza a giocare, solo che quella mattina ci eravamo radunati dietro il cancello dell’edificio, a pochi metri dall’oratorio, e certamente non per divertirci. Lì non potevamo più correre spensierati.

    Per noi quell’ingresso era sempre stato il limite di un mondo sconosciuto e allo stesso tempo pericoloso, quello degli adulti, e quel giorno degli adulti ci avrebbero per la prima volta giudicato.

    Alle otto, il preside era uscito in cortile per fare l’appello.

    Ci eravamo guardati in faccia, sentendo pronunciare i nostri nomi, e avevamo scoperto di essere tutti nella stessa classe.

    Io, Sergio, Andrea, Stefano, Maurizio, Mirko, Emma, Maria, Monica, e anche Chicco e Ciglione, che però all’appello non avevano risposto e non furono più chiamati. Erano stati entrambi bocciati già tre volte e di scuola non volevano più saperne.

    Quell’assenza fu il primo segnale di ciò che sarebbe successo pochi mesi dopo. Mirko, invece, aveva un anno meno di Chicco e Ciglione ed era lì soltanto perché era stato costretto a frequentare la scuola dal padre pescatore, che non voleva che la quarta generazione della sua famiglia si sporcasse ancora le mani con il pesce.

    Ad accoglierci in classe c’era il professor Piras, che poi era il padre di Maurizio, e abitava nello stesso mio palazzo.

    Sebbene ci salutassimo raramente, pure mi pareva di conoscerlo molto bene. Infatti, subito dopo pranzo, ogni giorno udivamo le sue urla provenire dal piano di sopra, indirizzate contro Ninni e Lele, i figli più grandi, due ragazzi simpatici ma assolutamente recidivi alla sua disciplina.

    Il fatto era che lui voleva continuare a fare il professore anche a casa, ma i ragazzi non ne volevano sapere.

    I due fratelli avevano visto alla tv, a casa della signora Nella, una contessa anziana e bislacca che abitava al primo piano, una registrazione dei festival che si erano tenuti sull’Isola di Wight e, da allora, erano cambiati.

    Erano convinti di odiare il potere, anche quello del padre, e così da quel giorno le urla di Arvinio Piras si erano moltiplicate, e spesso non riuscivano a sovrastare quelle di Ninni e Lele.

    Ogni giorno, si udiva lo stesso canovaccio, finché entrambi i figli non cominciarono a uscire sempre più spesso e poi a rimaner fuori tutta la notte e talvolta a non tornare per giorni.

    Nel quartiere si diceva che, nella casa abbandonata al Mandorleto, loro si lasciassero andare

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