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La Prof. Marta. Il ruolo educativo nell'era digitale
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Ebook142 pages2 hours

La Prof. Marta. Il ruolo educativo nell'era digitale

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Il saggio vuol essere una riflessione sul ruolo educativo nell’era digitale. Il disagio sociale negli ultimi decenni risulta in forte incremento e la scuola fa fatica ad arginarne il fenomeno, con la conseguenza del suo possibile consolidamento-evoluzione in disadattamento e successivamente in devianza. La famiglia deve riappropriarsi del ruolo genitoriale: quello di mamma o papà, senza le mirate consapevolezze, non è sufficiente per creare le basi dell’apprendimento e per la costruzione dell’essere-persona del proprio figlio. Solo l’azione preventiva e intenzionale del lasciarsi guidare dalla scuola e dalla figura del docente, non solo competente e riflessivo ma pedagogista, potrà offrire la visione di una società più responsabile che, a sua volta, possa fare da modello educativo per le future generazioni, diversamente sarà la deriva della stessa umanizzazione dell’uomo. Nel presente saggio non possono non essere presenti gli stessi scolari, i quali attraverso la loro storia consentono di evidenziare quanto siano importanti le competenze di ordine psicopedagogico nella scuola e nel ruolo genitoriale. Solo l’azione consapevole, sinergica e complice scuola-famiglia-Stato guiderà ogni singolo passo di crescita nella formazione e nella realizzazione del loro progetto-persona, al fine di renderli gradualmente artefici del loro stesso percorso di crescita con autonomia e senso di responsabilità per uno sviluppo umano sempre più sostenibile.

 
LanguageItaliano
Release dateDec 3, 2020
ISBN9788868229672
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    La Prof. Marta. Il ruolo educativo nell'era digitale - Lucietta Visciglia

    Waitley

    Un tuffo nel passato per riflettere sul ruolo genitoriale nella odierna società

    In una sera di luglio alquanto capriccioso dal suo davanzale Marta era intenta a rimirar le stelle e ad assaporare quel silenzio che caratterizza il suo dialogo con l’universo e la natura, capace di calmare anche le acque più tempestose. Il suo sguardo si era posato su quella molto vicina alla luna e si interrogava su quale potesse essere la prospettiva e la loro visione della terra. Entrambe erano in contatto visivo, protagoniste dell’immenso universo: non erano sole. La magica riflessione era interrotta dal venticello degli oleandri e dal fragore delle onde di un mare deciso a farsi sentire. Marta, comunque, non smetteva di dialogare e di raccontare i suoi pensieri a quella luna che mai l’ha abbandonata, sempre disponibile ad ascoltarla, a comprendere le sue sofferenze e a sorriderle, anche se da lontano.

    – Marta, Marta, stasera sei talmente assorta, da non sentire neanche la mia voce. Non facciamo la passeggiata stasera?

    Era Paola, collega e amica da diversi anni. Aveva interesse a continuare la conversazione iniziata la sera precedente. Marta lo capì subito e non si fece attendere.

    – Sì, sì, arrivo! – le rispose.

    Solitamente focalizzavano l’interesse su problematiche sociali, prevalentemente riguardanti la nuova generazione genitori-figli. Paola era ricca di un vissuto scolastico, in quanto docente di scuola primaria. Gli input di riflessione erano reciproci, anche se provenienti da visioni del mondo e della vita molto differenti: l’una imperniata di religiosità dominante e l’altra di una visione di stampo positivista-illuminista: due opposti. Da una parte il mantenere viva la tradizione popolare e religiosa, dall’ altra il fare tabula rasa per poter approcciarsi alla conoscenza della verità con l’uso della ragione e il filtro dei saperi. Marta, da laica e rispettosa dell’altrui Credo, stimava molto la persona di Paola. La sua disponibilità al dialogo rendeva possibile il mettere al vaglio dell’analisi e della critica le diverse posizioni. Per Marta, dopo le esperienze vissute in collegio nelle tappe della sua fanciullezza e preadolescenza, alcune sollecitazioni di stampo religioso hanno ancora il potere di evocare spezzoni di vita capaci di creare malessere psicologico anche al solo ricordo. Questo Paola lo sapeva, ma conosceva poco i particolari ed era molto interessata all’argomento.

    – In quale istituto sei stata? – le chiese.

    – Quello di Marina di Rose.

    – Sì, lo conosco, ci sono stata parecchi anni fa per fare visita a una mia parente, esternamente l’edificio è bello e imponente.

    – Sì! Sovrasta i tetti di buona parte del paese. Apparteneva ad una famiglia gentilizia importante. Venne lasciato in donazione alla curia vescovile del territorio, che lo ha gestito come orfanotrofio, mensa dei poveri, asilo per l’infanzia e casa di riposo – rispose Marta.

    Negli anni ’60 ospitava anche bambine orfane di lavoratori dietro accordi con l’ente preposto E.N.A.O.L.I. (Ente Nazionale per l’Assistenza agli Orfani dei Lavoratori Italiani), che veniva finanziato proprio dai contributi assicurativi versati. Nel caso di Marta era il padre il riferimento economico che portava i soldi a casa, la garanzia per l’assistenza materiale dei figli. La sua morte prematura, e conseguentemente la mancanza di un reddito sicuro per la famiglia, prospetterà l’istituzionalizzazione dei figli minorenni.

    Dopo aver espletato le pratiche di natura legale, la madre effettuò la relativa richiesta. L’E.N.A.O.L.I senza alcuna esitazione stabilì il trasferimento in collegio degli ultimi 3 figli, compresa Marta.

    – Quanti anni sei stata in istituto?

    – Almeno 7 anni nel mio stesso paese e poi un altro fuori provincia – rispose Marta.

    Erano gli anni della ripresa economica dell’Italia dopo il secondo dopoguerra, e diversi erano gli enti incaricati a gestire l’assistenza alle famiglie ed ai minori. L’E.N.A.O.L.I fu istituito con la legge n. 987 del 27 giugno del 1941, ma poi ricostituito con il Decreto n. 327 del 23 marzo 1948, naturalmente vigilato dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale della Repubblica italiana. L’assistenza veniva garantita fino alla maggiore età, allora 21 anni. Nel 1972 alcune riforme istituzionali ne stabilirono una diversa modalità di assistenza mediante il decentramento del potere decisionale agli uffici periferici. Nel 1977 vengono eliminati diversi enti, fra cui anche l’E.N.A.O.L.I, le cui funzioni, con la legge 641 del 20 ottobre del 1978, passano ai Comuni. La sua politica assistenziale consisteva nella istituzionalizzazione del minore, dietro il pagamento di una rata mensile. Nel caso di Marta l’Ente versava la cifra di 50.000 £ alla curia vescovile, che gestiva il collegio della Divina Provvidenza di Marina di Rose.

    – Oggi a quanto potrebbe corrispondere una simile somma di danaro come potere d’acquisto? – chiese Paola.

    – Più o meno a 500 euro – rispose Marta.

    – Calcolando lo stipendio di un operaio di allora, che si aggirava intorno alle 130.000 lire, 50.000 lire erano davvero tanti! Caspita! E, da quello che posso intuire dall’espressione del viso e dal tono della tua voce, desumo che tu non abbia fatto una felice esperienza, perché?

    – Sai, a distanza di anni e in virtù dei miei studi di carattere psicopedagogico, oggi dico che la mia permanenza in istituto è stata quanto di più sbagliato potesse esserci nella mia crescita! Una bimba di 6 anni non la si può trattare come un numero indifferenziato, mai un sorriso o una carezza, e magari nei momenti di maggiore bisogno, non credi? Ti faccio un esempio: per uno schiaffo ricevuto nell’orecchio, passavo le notti a piangere per il dolore e nessuno si avvicinava al mio lettino per darmi un po’ di sollievo, magari con una borsa di acqua calda! E, ancora più grave, nessuna delle suore prendeva l’iniziativa di portarmi dal medico o, comunque, di informare tempestivamente mia madre – rispose Marta.

    Il dormitorio conteneva almeno 10 lettini per le bimbe più piccole, a fianco c’era l’altro stanzone con le ragazze vicino alla maggiore età: 20 realtà, una più particolare dell’altra. Le condizioni lavorative delle sorelle e della madre di Marta, rimasta vedova in giovane età, non le consentivano di ricevere le adeguate attenzioni dal punto di vista educativo. Gestivano una sartoria. Il padre, con la visione del futuro dei figli, in maggioranza femmine, aveva comprato delle macchine da cucire per garantire loro un’attività lavorativa. Dopo la sua morte in un incidente stradale da lì a qualche anno la famiglia si trasformò in laboratorio e, su richiesta della madre, i minori finirono in collegio. Fu per questo che Marta non indossava i vestiti uniformi come le altre bimbe, lei era in istituto perché l’E.N.A.O.L.I. pagava per la sua famiglia, quindi, per differenziarla dalle altre, e forse per una questione di dignità sociale, le sorelle grandi avevano imposto la loro condizione: la loro sorellina più piccola non doveva indossare la divisa come le altre bimbe. Nel dormitorio, però, erano tutte uguali e accumunate da un unico denominatore: il gran desiderio di dare alla propria mamma il bacio della buonanotte, prima di rimboccarsi le coperte e poi addormentarsi. Marta non poteva realizzarlo. Nessuno le era vicino, neanche al mattino. Sul fare del giorno quella palla arancione, che piano piano si sollevava dalla linea dell’orizzonte sopra un mare per lei infinito, era l’unico calore e benessere che Marta riceveva. Le finestre dell’istituto si affacciavano sul mare e quella visione incantata era il premio di importanti deprivazioni. Quell’immagine spettacolare era il conforto di una giornata scandita dal Viva Gesù di Suor Maria Rosaria, accompagnato dal suo battito delle mani, a cui le orfanelle, stropicciandosi gli occhi, rispondevano: Per sempre i nostri cuori!

    – Alle cinque e mezza di mattina? – chiese Paola.

    – Sì.

    – E tanto tempo impiegavate per prepararvi per andare a scuola?

    – Dovevamo dire il rosario mentre ci si lavava, pettinava e ci si vestiva, ma successivamente era necessario seguire la messa: la cappella era dentro il collegio e veniva il parroco del paese a celebrarla.

    – Incredibile! – ribadì Paola.

    – Ma tu non sai che io, essendo digiuna, spesso in chiesa svenivo e le suore, per farmi riprendere, mi portavano fuori in cortile ad annaffiare le calle. Il contatto con la bellezza della natura mi faceva sentire bene – rispose Marta.

    – E poi?

    – Si andava tutti nel refettorio a fare colazione. Essa consisteva in una tazza di latte, in cui immergevamo il pezzettino di pane rimasto dalla cena della sera precedente. Ognuno di noi sapeva che l’indomani mattina sarebbe stato prezioso. Nessuno di noi si ribellava: questa era la regola. Alla fine una ragazza grande ed una più piccola sparecchiavano e si recavano in cucina per lavare i piatti e le stoviglie usate. Questa operazione si ripeteva a pranzo e a cena per una settimana, per poi passare il compito ad un’altra coppia, scambiandosi, così, le mansioni come cucinare, apparecchiare, pulire le stanze e altro. Il tutto ben organizzato. Questa era la quotidianità.

    – Dal tuo sguardo si legge altro, non vuoi proprio raccontarlo?

    – Vedi, allora nessuno metteva in discussione qualcosa, ora sono molto critica e, al solo pensarci, mi sento ferita per tante cose. Come possono delle donne, incapaci di sorridere, arrivare a programmare due tipologie di menù, uno per le orfanelle e un altro per loro?

    – Scusa, ma come fai ad affermarlo?

    – Loro non pranzavano con noi, avevano una sala da pranzo a parte, i piatti però, come già ti ho detto prima, a turno settimanale eravamo noi a lavarli.

    – Quindi? – ribadì Paola.

    – Dentro c’erano gli involucri circolari della salsiccia o soppressata, le patate al forno e altre cose che noi non trovavamo mai nei nostri piatti. Di nascosto, senza farci vedere, mangiavamo velocemente i loro rimasugli, il profumo era un invito troppo forte!

    – Sì, ma per voi cosa preparavano? Oggi chiaramente si legge sul tuo viso il risentimento forte, che ancora ti è rimasto!

    – Di ritorno da scuola sentivo la puzza dei frittuli, sapevo che quello sarebbe stato il mio pranzo: il grasso del maiale cotto, fritto in padella e lì tenuto a riscaldare sul braciere. L’odore era veramente disgustoso. A tavola i nostri sguardi d’intesa si incrociavano e noi ragazze abili e determinate, al minimo allontanarsi della suora guardiana, versavamo il tutto nel secchio. Esso conteneva il mangiare destinato ai maiali, 4 ogni anno per garantire loro salcicce e soppressate, mentre a noi orfanelle cotiche o altre parti di scarto. Già nell’ingresso si respirava il menù nauseante. Superata la soglia del portone, dopo aver baciato quell’enorme

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