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L'uomo nero
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L'uomo nero

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About this ebook

Un misterioso e inafferrabile serial killer colpisce all'interno delle stazioni della metropolitana di Roma, seminando terrore e panico fra la popolazione. Il primo delitto avviene la Vigilia di Natale, l'ultimo la Vigilia di Pasqua, nel mezzo tre mesi di assoluta follia in cui l'intera città sembra precipitare.
Fra organi d'informazione che gareggiano per arrivare per primi alla notizia, alimentando la psicosi collettiva, e privati cittadini che decidono di farsi giustizia da soli, Roma ancora una volta si trova a vivere l'eterno conflitto fra Bene e Male, fra lo splendore di una città millenaria e il miasma pestilenziale della barbarie umana, fra la sua grandezza e le sue secolari miserie.
LanguageItaliano
Release dateNov 29, 2020
ISBN9788899933906
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    L'uomo nero - Luigi Sorrenti

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    L'uomo nero

    Luigi Sorrenti

    © La Memoria del Mondo Libreria Editrice

    Via Garibaldi, 51 - Magenta (MI)

    www.memoriadelmondo.it

    edizioni@memoriadelmondo.it

    ISBN 9788899933906

    Tutti i diritti sono riservati.

    Copertina: progetto grafico di Alessandro Pasquinucci

    L’uomo nero

    Luigi Sorrenti

    Ovunque tu sia, ciao D.

    Soltanto in quel luogo consacrato dai millenni,

    tutto ciò che c'è stato e ci sarà può convivere con tutto:

    l’alto e il basso, il vecchio e il nuovo, la religione e l’empietà,

    il fasto e la miseria, persino Dio e il Diavolo sembravano aver

    trovato un equilibrio stabile e duraturo in quella città,

    dove tutto è già accaduto, e mica una sola volta! Mille volte.

    Sebastiano Vassalli

    Finché esisterà il Colosseo, esisterà anche Roma;

    quando cadrà il Colosseo, cadrà anche Roma;

    quando cadrà Roma, cadrà anche il mondo.

    Antica Profezia del Venerabile Beda

      (VII-VIII secolo)

    Forse uno dei guai dell’Italia è proprio questo,

    di avere per capitale una città sproporzionata per nome e per storia,

    alla modestia di un Popolo che quando grida

    forza Roma allude solo ad una squadra di calcio.

    Indro Montanelli

    Hai paura del buio?

    No?

    Eppure dovresti.

    Il buio nasconde. Il buio distorce. Il buio amplifica.

    Il buio è l’ignoto.

    Il buio si nasconde nell’uomo.

    1. QUINTILIANI

    Era la mattina di Natale quando la paura s’insinuò subdolamente sotto il cielo dell’Urbe e cominciò a serpeggiare fra i vicoli e le piazze. Spalancò portoni, violò l’intimità delle case, la sacralità delle chiese, la grandiosità dei monumenti. Investì quella che un tempo era stata la Caput Mundi e non uno degli oltre due milioni di abitanti sfuggì al senso di panico, quasi di malsana oppressione, che a lungo gravò sull’intera città come un’antica maledizione.

    Fu un’alba silente e gelida a salutare l’inizio dell’incubo. Mentre il sole sorgeva a oriente e striava di rosso le facciate scrostate dei palazzoni di periferia, un addetto alle pulizie rinveniva il cadavere di una donna nel bagno della stazione metro di Quintiliani, in zona Tiburtina. La stazione in quel momento era deserta, l’inserviente informò subito la vigilanza e di lì fu avvertita la polizia. Partirono le indagini, ma sin da subito si rivelarono per nulla semplici.

    La vittima si chiamava Katia Rudic, quarantadue anni, ucraina, infermiera in una casa di cura privata. Era stata strangolata con una corda di canapa bagnata. Dopo la morte le era stato reciso di netto il mignolo della mano sinistra. Il dito non fu mai ritrovato sul luogo del delitto.

    Il decesso risaliva alla sera prima e quello che inizialmente stupì fu l’assoluta mancanza di testimoni.

    In realtà Quintiliani non era mai stata una stazione troppo frequentata. Completamente priva di attività commerciali, mal collegata e piuttosto isolata, veniva spesso evitata dai passeggeri che preferivano scendere a Tiburtina FS, la fermata precedente, oppure a Monti Tiburtini, quella successiva.

    La sera prima, la Vigilia di Natale, non aveva fatto eccezione. Il traffico era andato via via scemando nel corso del pomeriggio, fino a diventare pressoché nullo nelle ore immediatamente precedenti alla chiusura dei cancelli.

    La polizia interrogò gli impiegati e gli addetti alla sicurezza che avevano prestato servizio in stazione al momento del delitto, ma nessuno di loro seppe fornire la minima indicazione. Le telecamere interne di sicurezza non furono di maggior aiuto. Nei filmati fu individuata la Rudic che alle 19.37 attraversava in perfetta solitudine i tornelli per poi scomparire poco più avanti in direzione dell’uscita, lì dove l’occhio della telecamera non arrivava. La scientifica infine non rilevò alcun tipo di impronte, né tracce utili all’identificazione dell’assassino.

    La procura aprì un’indagine contro ignoti, mentre la vita della sventurata vittima veniva passata al setaccio. Non emerse nulla di sensazionale. Nessun nemico, nessuna torbida storia alle spalle, nessun parente in Italia, frequentazioni molto ridotte, un ex compagno che in quei giorni era in vacanza in Val d’Aosta, nessun amante o nuova relazione. Una vita normale, forse troppo.

    Colleghi e conoscenti della vittima non fornirono alcuna indicazione utile e il cellulare della Rudic si rivelò completamente privo di interesse.

    Il commissario Gervasi, a capo del XVII Prenestino , rilasciò una breve e svogliata intervista nella quale ipotizzò che la donna si fosse fermata nel bagno pubblico prima di lasciare la stazione e lì avesse trovato il suo carnefice ad attenderla. Si fece quindi strada l’inquietante ipotesi che la povera Katia fosse rimasta vittima dell’incontro casuale con uno psicopatico.

    La stazione di Quintiliani riaprì nella prima settimana di gennaio e ben presto la vita riprese a scorrere lenta e monotona in quello spicchio di terra alla periferia est di Roma.

    Nei dintorni, per le strade, nelle piazze e nei negozi, quello strano delitto andava ad alimentare sempre nuove discussioni e stravaganti ipotesi, ma col passare dei giorni l’effetto mediatico dell’omicidio parve spegnersi lentamente.

    Subentrò nella gente la convinzione che il caso avrebbe seguito la stessa sorte di quello di via Poma o della scomparsa di Emanuela Orlandi: senza un perché, senza un volto da dare all’assassino e senza alcun seguito.

    Ma stavolta la voce del popolo non fu affatto la voce di Dio.

    2. GARBATELLA

    La dottoressa Maria Desantis uscì da casa molto presto la mattina del 22 gennaio.

    Fuori era ancora buio e i lampioni, avvolti da un’intensa foschia, illuminavano appena la stradina che la ragazza doveva percorrere prima di arrivare in via Ignazio Persico e di lì dirigersi verso la vicina fermata della metropolitana. La temperatura non superava i tre gradi, il freddo era intenso e la nebbia avvolgeva e offuscava ogni cosa.

    Mentre i primi autobus iniziavano a circolare semivuoti per la città ancora immersa nel torpore di un sonno che a breve sarebbe stato bruscamente interrotto, la Desantis infilò a passo sostenuto l’ingresso principale della fermata di Garbatella. I suoi tacchi appuntiti rimbombavano sull’asfalto umido e scivoloso nel silenzio assoluto della stazione deserta.

    Maria si fermò dinanzi a un distributore automatico, comprò due biglietti, ne obliterò uno, passò attraverso i tornelli e si diresse verso le scale mobili che l’avrebbero condotta al binario. Sollevando il bavero del cappotto scuro svoltò l’angolo della banchina e inciampò nel corpo di un uomo steso a terra, infagottato sotto un mucchio indefinito di abiti e coperte maleodoranti. Dalla montagna di stoffa spuntava solo il palmo aperto di una mano.

    «Mi scusi » balbettò la giovane donna, allontanandosi velocemente da quello che aveva preso per un barbone addormentato. L’uomo non si mosse di un millimetro, né dalla sua bocca uscì alcun suono.

    La Desantis continuò a guardare perplessa quell’ammasso informe che aveva appena calpestato.

    Non c’era ancora sufficiente luce per poter distinguere i particolari, eppure una strana inquietudine si stava impossessando di lei. Vedeva qualcosa di sbagliato in quella figura accartocciata. Istintivamente la dottoressa indietreggiò, gli occhi fissi, quasi ipnotizzati, sul corpo inerte al suolo.

    Un fischio acuto la fece sobbalzare. Alle sue spalle stava arrivando il treno che l’avrebbe portata a destinazione. I fari del convoglio squarciarono le tenebre illuminando a giorno l’intera banchina, l’ammasso di coperte sudice e la mano aperta sul pavimento.

    Un grido lungo e stridulo uscì dalla bocca della ragazza, ma fu coperto dallo sferragliare del treno in stazione. La mano era priva di un dito: l’anulare sinistro era stato reciso di netto e attorno si era formata una piccola pozza di sangue ormai rappreso.

    Meno di un’ora dopo la stazione era stata chiusa al traffico ferroviario e brulicava di poliziotti indaffarati. Come formiche impazzite, si muovevano da una parte all’altra, cercavano tracce, rilevavano impronte, prendevano misure, ponevano domande.

    Le prime sommarie indagini portarono a un paio di conclusioni che gelarono il sangue di parecchi funzionari della polizia di stato: l’uomo era stato strangolato con una corda di canapa bagnata e dopo la morte gli erano state mozzate due dita, l’anulare della mano sinistra e il medio della mano destra.

    Il paragone con l’omicidio di Katia Rudic fu immediato e per la prima volta in questa macabra storia, quella fredda mattina di metà gennaio si affacciò minaccioso sui tetti sbeccati di Roma lo spettro di un serial killer.

    La polizia riuscì a non far trapelare l’agghiacciante notizia agli organi d’informazione e ciò diede ancora qualche giorno di quiete alla città. In seguito risultò infatti determinante il ruolo svolto dai cosiddetti mezzi di comunicazione nel contribuire a creare quel clima di spasmodica tensione e psicosi collettiva che, nel giro di poche settimane, si sarebbe sparso per tutta Roma e sarebbe culminato con l’uccisione da parte della folla inferocita di un innocente, completamente estraneo ai fatti.

    L’uomo trovato morto da Maria Desantis non era affatto un barbone. Si trattava di Emanuele Riboni, cinquantadue anni, avvocato civilista di discreta fama nel settore immobiliare. Divorziato, due figli che erano rimasti con la mamma, Riboni viveva solo in un grazioso attico dalle parti di piazza Biffi.

    La ricostruzione del delitto non presentò grosse difficoltà. Le testimonianze di amici e parenti, il biglietto della partita trovato nella tasca, la passione per il basket portarono le forze dell’ordine a stabilire che Riboni, la sera precedente, fosse andato al palazzetto dello sport per vedere il match di Eurolega in cui era impegnata la Virtus Roma.

    Al termine dell’incontro aveva preso la metro alla fermata PalaEur per scendere a Garbatella e quindi dirigersi verso casa. Non era mai uscito dalla stazione, dove invece aveva trovato la morte. Il biglietto rinvenuto nella sua tasca era stato obliterato alle 22.42, quindi era ragionevole presupporre che Riboni fosse stato ucciso poco prima delle undici di sera.

    Sul luogo del delitto non furono rinvenute tracce, né le riprese delle telecamere a circuito chiuso fornirono alcuna indicazione a causa della fitta nebbia che rendeva la visibilità molto ridotta.

    Secondo la scientifica, Riboni era stato aggredito alle spalle mentre camminava lungo la banchina. L’assassino gli aveva stretto la corda attorno al collo fino a ucciderlo per asfissia. Solo dopo la morte il carnefice gli aveva mozzato le due dita, quindi aveva recuperato alcune coperte, probabilmente appartenute a un barbone dei dintorni, e con queste ne aveva nascosto il corpo.

    Infine era andato via indisturbato. Forse era uscito dalla stazione, o più probabilmente aveva ripreso un treno per scendere in qualche fermata successiva. Unica certezza, era rimasto invisibile agli occhi delle telecamere e di un mondo che ben presto avrebbe imparato a conoscerlo e temerlo.

    2. 1.

    Quella stessa sera ebbe luogo in un ufficio della questura di Roma, in via San Vitale, pieno centro cittadino, un vertice di polizia su quei due delitti, così drammaticamente simili, avvenuti in meno di un mese in due stazioni differenti della metropolitana.

    Il commissario Gervasi che aveva condotto le indagini sull’omicidio della Rudic e il commissario Cervi del XV San Paolo che si stava occupando del caso Riboni, confrontarono gli scarsi risultati ottenuti fino a quel momento davanti al questore, al criminologo di fama internazionale Sebastiano Giusti e a un paio di alti dirigenti della polizia di stato.

    Fu un vertice ricco di parole, ma completamente privo di decisioni.

    Il caso del presunto serial killer rimase nelle mani del XVII Prenestino , ma Gervasi parve tutt’altro che entusiasta all’idea. Cervi offrì la sua collaborazione e mise a disposizione i suoi uomini.

    Dal canto suo il dottor Giusti riempì la stanza di termini artificiosi e accademici per spiegare ai presenti la personalità dei serial killer e le difficoltà che si riscontravano in indagini di questo tipo, ma tenne più volte a precisare che nel caso specifico non si poteva ancora parlare di omicida seriale, dato che i due delitti potevano essere completamente indipendenti l’uno dall’altro.

    Era mezzanotte passata quando Gervasi lasciò l’ufficio della questura, piuttosto contrariato dall’enorme perdita di tempo che alla fine si era rivelato quell’incontro. Tutto ciò che aveva rimediato era una grossa e infida gatta da pelare di cui avrebbe volentieri fatto a meno.

    Mentre superava l’ampio portone d’ingresso della questura, avviandosi verso la sua macchina, una cordiale voce familiare alle spalle lo bloccò.

    «Ti vedo preoccupato, amico mio.»

    Il commissario si voltò lentamente borbottando qualcosa d’incomprensibile. Sapeva bene a chi appartenesse quella voce e sperava di non dover mettersi a fare conversazione in quel momento.

    «Non saranno questi delitti ad angustiarti così tanto?» insistette il collega Cervi col suo eterno sorriso giovale stampato sul volto. Cosa avesse da ridere poi, era un mistero.

    I due uomini avevano all’incirca la stessa età, entrambi poco oltre la cinquantina, si conoscevano da anni e, pur potendosi considerare amici, erano diversi come il giorno e la notte.

    Gervasi era taciturno, eternamente pensieroso, di altezza media, magro, con il volto scarno, il naso aquilino e gli occhi scuri e indagatori. Cervi era invece un chiassoso e simpatico bestione di un metro e novanta per centoventi chili, collo taurino, carnagione lattea, capelli biondi tagliati a spazzola e occhi azzurri, quasi opachi.

    «Più che preoccupato, sono stanco… molto stanco» rispose il primo abbozzando una specie di sorriso, pallida imitazione di quello molto più convinto e naturale del suo collega.

    Il commissario Cervi annuì comprensivo mentre tentava di infilare il braccio nella manica di un lungo cappotto scuro.

    «Domani ti invio il rapporto sull’omicidio Riboni» bofonchiò in imbarazzo. «I miei uomini stanno interrogando parenti e amici della vittima, mentre la Desantis è toccata a voi.»

    «La Desantis?»

    «La ragazza che stamattina ha scoperto il cadavere. È stata accompagnata al XVII Prenestino nel pomeriggio.»

    Gervasi sembrò accogliere l ’informazione con scarso interesse. Salutò il collega con un impercettibile cenno del capo e lasciò in fretta la questura. Ciondolò per qualche istante nel parcheggio fumando nervosamente una sigaretta, prima di salire sulla automobile e accoccolarsi al posto di guida. Sospirò profondamente. Per un attimo ebbe la tentazione di dirigersi verso il suo commissariato, ma poi si passò una mano sulle palpebre stanche. Erano mesi che non riusciva a dormire decentemente, da quando la sua vita aveva ricevuto quello scossone che non osava neanche nominare. Un profondo e rumoroso sbadiglio salì di rettamente dalle profondità dei suoi polmoni e gli deformò i lineamenti del volto. Decise che la lettura dell’interrogatorio poteva anche aspettare. Puntò decisamente verso casa, un comodo letto e un soffice cuscino.

    Col senno di poi fu una scelta molto saggia, dalle notevoli e imprevedibili ripercussioni.

    Al commissariato di via Roberto Lepetit 99/C, il XVII Prenestino , l’ispettore capo Mauro Biondini stava infatti guardando con occhi attenti e interessati l’attraente ragazza che era seduta di fronte a lui.

    «È quasi mezzanotte, dottoressa… la faccio riaccompagnare a casa.»

    Maria Desantis assentì con un lieve cenno della testa e Biondini riprese: «La ringrazio davvero molto per la sua disponibilità.»

    «Spero di essere stata utile.»

    L’ispettore diede una rapida occhiata agli appunti che aveva preso e sbuffò. Sapeva benissimo che da quelle dichiarazioni non avrebbero mai cavato nulla.

    «Molto utile. Sono certo che grazie alle informazioni che ci ha fornito… sì, insomma… ci saranno preziose.»

    La Desantis mise in mostra una fila di denti bianchi e regolari, incorniciati da uno splendido sorriso.

    «Non sa mentire molto bene» mormorò.

    Biondini sembrò per un attimo arrossire, evidentemente compiaciuto da quello che aveva preso per un complimento.

    «Beh, lei comunque ci ha detto precisamente quello che ha visto. Certamente non poteva inventarsi chissà cosa per farci contenti.»

    La dottoressa si passò una mano fra i lunghi capelli scuri, sistemò sul naso gli occhiali dalla sofisticata montatura viola, poi d’un tratto abbassò lo sguardo e azzardò timidamente:

    «Ho sentito dire… ehm… che potrebbe trattarsi di un serial killer…»

    L’ispettore si rabbuiò e per un istante guardò torvo la ragazza.

    «Chi gliene ha parlato?»

    «Nessuno... cioè, voci nel corridoio… parlavano di un delitto simile a Quintiliani, circa un mese fa.»

    Biondini scrutò attentamente i delicati lineamenti del volto della Desantis. Vide una ragazza di ventotto anni, estremamente carina, con una laurea in psicologia e forse una promettente carriera davanti, inevitabilmente attratta da certe situazioni. La sua espressione si sciolse in un mezzo sorriso.

    «L’ha sentito da quel poliziotto grande e grosso con i baffi da tricheco e una voce da tenore, vero?»

    Maria ripensò all’agente che aveva incrociato in corridoio, la cui voce era rimbombata da una parte all’altra del commissariato. Trattenne a stento una risata e annuì leggermente.

    «Si tratta dell’ispettore Battaglia» grugnì Biondini piuttosto sconsolato. «Un bravo poliziotto, se non fosse che ha il vizio di parlare troppo e la sua voce la sentono fin sulla Tuscolana.»

    La Desantis si lasciò andare a una risatina infantile.

    «Comunque quella del serial killer è una possibilità» riprese l’ispettore cauto. «Ma non abbiamo alcuna certezza. Si tratta comunque di un’informazione strettamente riservata, dottoressa, e faccio appello alla sua deontologia professionale affinché quanto lei ha così astutamente colto per i corridoi del commissariato non esca da questa stanza.»

    «Sì, sì, certo… mi scusi se le sono sembrata invadente. Io…»

    «Non si preoccupi. Adesso si sta facendo davvero tardi. Se permette, la accompagno io stesso alla sua abitazione».

    Maria acconsentì impacciata, piacevolmente colpita dal modo di fare di quel poliziotto in borghese e lusingata che si fosse offerto di riportarla a casa in prima persona.

    Fu così che il torvo ispettore Mauro Biondini e la giovane e graziosa dottoressa Maria Desantis attraversarono un grosso spicchio di Roma per andare dalla Prenestina a Garbatella.

    Fu un viaggio breve ma piacevole.

    Già sulla tangenziale est il clima in macchina si era fatto decisamente meno formale, fra cauti sorrisi e parole a mezza bocca.

    Al semaforo della Coin di San Giovanni, la conversazione divenne spedita e i due decisero di passare dal lei al tu.

    In via Magna Grecia, Biondini chiese alla Desantis se fosse fidanzata e alla risposta negativa della ragazza, ebbe quasi l’impulso di alzare il pugno al cielo. Si contenne da perfetto gentiluomo qual era.

    In via Cilicia fu la Desantis a porre cautamente la stessa domanda a Biondini. L’ispettore era ovviamente un single impenitente, ma non mancò di sottolineare che ancora non disperava di trovare la ragazza giusta.

    Sulla Colombo i due concordarono di rivedersi a breve, indipendentemente dalle indagini sull’omicidio.

    Nei pressi della circonvallazione Ostiense, la ragazza annotò sul suo cellulare il numero privato di Biondini. Gli fece uno squillo in modo che Mauro potesse memorizzare il suo. Al termine di questa operazione si scambiarono uno sguardo complice e soddisfatto.

    In via Persico i due si salutarono. La Desantis scese dalla macchina e si diresse verso il vicolo in cui abitava.

    L’ispettore la seguì con lo sguardo finché non la vide sparire dentro un portone.

    Rimase ancora per qualche istante fermo sul ciglio della strada a tamburellare con le dita sul volante. Poi, quasi svogliatamente, ingranò la marcia e ripartì.

    E il suo volto già non tradiva più alcuna emozione.

    2. 2.

    Il commissario Gervasi stava leggendo il breve rapporto redatto durante la testimonianza della dottoressa Desantis, quando qualcuno bussò alla porta del suo ufficio.

    «Avanti… oh, Mauro, buongiorno.»

    Biondini entrò nella stanza.

    «Buongiorno commissario, già al lavoro di prima mattina?»

    Gervasi borbottò qualcosa indicando le carte che aveva in mano.

    «La testimonianza della Desantis?» chiese l’ispettore togliendosi il pesante giubbotto in pelle che da sempre lo accompagnava durante l’inverno.

    Il commissario fece una smorfia, buttando i fogli sulla scrivania. Non era mai stato un tipo eccessivamente loquace, ma quella mattina appariva particolarmente di cattivo umore.

    Biondini sorrise condiscendente. «Non un granché, vero?»

    «Zero assoluto.»

    «Beh, non è certo colpa di Maria se…»

    «Maria? Siamo entrati in confidenza?»

    L’ispettore arrossì. «L’ho accompagnata a casa ieri sera.»

    Se il commissario rimase sorpreso da quella notizia, non lo diede a vedere. Si limitò a guardare bonariamente il collega e l’amico che aveva di fronte.

    Mauro Biondini aveva trentacinque anni, era alto, moro, ben piantato, spalle larghe e sguardo misterioso, ma soprattutto era il migliore fra i poliziotti al suo servizio. Un cervello non male, abbinato a grinta, tenacia e coraggio da vendere. Poteva essere destinato a incarichi ben più ambiziosi, ma una triste e ingiusta storia di qualche anno prima gli aveva chiuso qualsiasi porta e affossato la carriera.

    Gervasi l’aveva aiutato molto durante quei giorni difficili, non gli aveva fatto mancare appoggio e stima, finendo per essere ripagato con la stessa moneta. Biondini aveva infatti ripreso a svolgere il suo lavoro con eccellenti risultati e senza di lui il XVII Prenestino non avrebbe mai conseguito i numerosi successi degli ultimi tempi, né si sarebbe ricoperto della gloria che era arrivata dopo la brillante soluzione di alcuni intricati casi in cui era stato coinvolto.

    Il commissario l’aveva sempre saputo: se il caso fosse stato affidato a loro, Biondini sarebbe stata la persona adatta per occuparsene. E ora quel momento sembrava essere giunto.

    «Cosa pensi di questi due delitti, Mauro?» chiese fingendo disinvoltura.

    L’ispettore scosse la testa pensieroso.

    «Niente, commissario. Abbiamo ancora troppi pochi elementi per poterci fare un’idea precisa. Sono collegati? Può darsi di sì… il luogo, l’arma usata, le dita mozzate, sono una sorta di comune denominatore. Ma due casi possono ancora essere una coincidenza, no?»

    «Così ha detto Giusti ieri sera.»

    «A proposito com’è andato il vertice in questura?»

    «Come questo rapporto. Inutile ai fini delle indagini. Solo che… ci hanno affidato il caso.»

    L’ispettore sorrise e il suo sorriso aveva un sapore trionfale.

    «Lo sapevo! Sì, che lo sapevo!»

    «Sembri contento all’idea» brontolò Gervasi. «Perché invece a me sembra che ci abbiano appena infilato un grosso cetriolo su per il culo?»

    «Perché lei è un pessimista di natura, commissario. Ascolti me, se si tratta di un serial killer, lo beccheremo. Al giorno d’oggi è anacronistico pensare di commettere una serie di delitti simili, tanto più in luoghi rigidamente controllati come le stazioni della metropolitana, e sperare di farla franca.»

    Gervasi si passò una mano fra i capelli un tempo neri come la pece, ma che adesso presentavano vistose striature bianche.

    Effettivamente, che lui sapesse, era dai tempi di Jack lo Squartatore che un serial killer non fosse stato catturato e sbattuto in un carcere di massima sicurezza. Tuttavia il vero proble ma non era arrestarlo, ma quante altre vittime innocenti sarebbero state uccise prima che il lungo braccio della legge si fosse stretto attorno al collo di questo fantomatico assassino.

    Mauro sembrò intuire i pensieri che affollavano la mente del suo superiore.

    «Non si dia pensiero del domani» recitò con un lieve sorriso arguto.

    Gervasi alzò gli occhi piacevolmente sorpreso da quella pillola di saggezza latina. E non si lasciò sfuggire l’occasione per sfoggiare i suoi studi classici.

    «Mentre parliamo il tempo, invidioso, sarà già fuggito.»

    «Cogli l’attimo, confidando il meno possibile nel domani» chiosò l’ispettore. E scoppiò in una bella e limpida risata. «Qui ci vorrebbe il suo amico Link Thomas, commissario. Adora questi discorsi.»

    Bussarono alla porta e l’arte di vivere di Orazio fu subito dimenticata. Un agente entrò portando in mano un faldone di carte dall’aria dannatamente lugubre.

    «Dal XV San Paolo , commissario. Sono i verbali degli interrogatori che hanno condotto sul caso Riboni».

    Gervasi emise un grugnito sconsolato. «Grazie, Luca. Poggiali pure qui sopra» disse spostando un po’ di carte dalla scrivania.

    L’agente uscì dall’ufficio richiudendosi la porta alle spalle. Biondini guardava quei fascicoli con espressione bramosa. Era ansioso di mettersi al lavoro.

    «Va bene, diamoci da fare» l’accontentò Gervasi. «Accomodati, Mauro, e speriamo di ricavarne qualcosa d’interessante.»

    «Agli ordini!» ghignò l’ispettore con gli occhi che brillavano e il volto raggiante.

    Inutile a dirsi, nonostante le buone intenzioni, non ne ricavarono nulla.

    Come nel caso della Rudic, il mondo che ruotava attorno a Emanuele Riboni sembrava completamente estraneo alla vicenda. Non c’era nulla nella sua vita, fra i suoi parenti, amici o conoscenti che potesse essere ricondotto, seppur marginalmente, al delitto.

    E ancora per qualche giorno, niente di nuovo andò ad aggiungersi agli elementi già in possesso della polizia.

    Le indagini proseguirono stancamente fra nuovi interrogatori e nuovi sopralluoghi della scientifica.

    Poi tutto cambiò. In peggio, ovviamente.

    3. REPUBBLICA

    La terza vittima si chiamava Augusto De Cesari. Trentadue anni, scapolo, esponente della Roma ricca dei Parioli e di corso Trieste, quella delle feste private e dei salotti bene, della vita notturna e degli aperitivi preserali.

    Augusto morì nel tardo pomeriggio del 31 gennaio, di domenica. Esattamente nove giorni dopo l’avvocato Riboni.

    Secondo il medico legale era stato soffocato da una corda di canapa e successivamente gli erano state asportate tre dita, l’indice della mano sinistra, il pollice e il mignolo della mano destra.

    Il suo

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