Leggere anomalie
By Andrea Mitri
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Leggere anomalie - Andrea Mitri
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LEGGERE ANOMALIE
Mi metto di lato e guardo. Noto le discrepanze, le differenze. Poi è un lampo. E tutto si chiarisce.
RAPINATORE A PIEDI
La promessa originaria la feci la mattina che mia madre se ne andò via di casa con il gommista della Goodyear, da cui aveva fatto l’inversione delle gomme due settimane prima. Avevo undici anni e solennemente giurai a me stesso che non mi sarei mai e poi mai comperato una macchina.
Mio padre invece acquistò per la prima volta una bottiglia di vodka, si ubriacò ed uscì nel freddo della notte a tagliare gli pneumatici di tutte le automobili parcheggiate nella strada; non valutando che così facendo, avrebbe intanto fatto un favore al suo rivale in amore. Finì in carcere, per quattro giorni, e quando ne uscì la prima cosa che fu costretto a fare fu quella di andare direttamente alla banca a stipulare il mutuo per i risarcimenti: mutuo che di fatto, lo avrebbe legato al suo lavoro di insegnante precario per i successivi quindici anni, distruggendone sul nascere il sogno di diventare uno degli sceneggiatori di Tornatore.
Sette anni dopo, quella promessa la rinnovai, ampliandola.
Il giorno in cui mio padre ritrovò l’amore tra le braccia di una poliziotta del terzo distretto, io giurai a me stesso che sarei diventato un delinquente (anche se fondamentalmente non ero interessato al genere) e già che c’ero, aggiornai la promessa iniziale aggiungendo la regola non usare mai la macchina per fuggire dal luogo del delitto
.
È così che è nato il mito dell’inafferrabile rapinatore a piedi, il ragazzo agile con il passamontagna che entra nei minimarket del padovano puntando la pistola afferra l’incasso e fa perdere le sue tracce nei vicoli circostanti nel giro di pochi minuti; facendo ammattire la polizia di mezzo Veneto.
Sono inafferrabile, perché ho sempre studiato i miei assalti nei minimi dettagli
Segno con dei gessi Maimeri, di colore ogni volta diverso, le vie di fuga prossime all’edificio in cui ha sede il mini market, privilegiando i percorsi poco battuti dalla gente in giro per compere, le scalinate in discesa e i vicoli a scarsa illuminazione. E faccio pochi colpi, a distanza di tempo lunga e variabile, assolutamente non necessari al sostentamento della mia banale e tranquilla vita di liceale dell’ultimo anno del Carlo Goldoni; la quale supporto invece economicamente dando ripetizioni di inglese e spagnolo agli studenti dei primi anni.
A chi crede che l’adrenalina vada a mille in quei momenti, voglio dire che nel mio caso non succede. Tutto avviene molto tranquillamente, forse perché conservo sempre quella lucidità e quella freddezza che mi hanno regalato il soprannome di Gelo
nella cerchia delle mie compagne di classe, ragazze a cui mai ho dato, anche per un attimo, parvenza di interesse amoroso.
Non ho mai permesso che qualcosa andasse storto, che l’imprevisto si frapponesse anche solo per un attimo tra me e la realizzazione di una rapina. Ho sempre valutato con attenzione anche la miriade di telecamere di sicurezza che stanno rendendo insecretabile la nostra vita di tutti i giorni. E variato i travestimenti durante i sopralluoghi, di modo che nessun zelante ispettore potesse notare una presenza assidua di qualcuno nelle vicinanze del minimarket, qualche giorno prima del colpo. Ho impostato la mia vita sul controllo, sul rifiuto dell’imprevedibile e sul mantenimento delle promesse.
Ma da qualche parte, nascosto nelle pieghe della nostra adattabilità alla vita, esiste un piccolo spazio, quasi un taglio, in cui la vita stessa riesce, nei momenti più impensati, ad iniettare il veleno della sua forza superiore.
Perché di veleno mi sembra che si tratti.
A me succede alle 16.45 di oggi pomeriggio, in questo momento, mentre punto la pistola contro la cassiera bionda e le intimo di versare i soldi nella busta di carta della Calzoleria Gianassi che ho appena recuperato in un bidone della spazzatura qui vicino. Non la vedo e non la sento, la signora anziana con il cappotto beige che a fatica sta rimettendo gli spiccioli dentro il suo consunto portamonete verde. Non la vedo e non la sento, le sono passato davanti senza osservarla nel momento in cui sono entrato.
Non la vedo e non la sento, fino a quando non mi giro e i suoi occhi incrociano i miei.
Allora al noto e la sento.
- Te gà i stesi oci de tua mama, mona –
Me lo dice avvicinandosi piano al mio viso.
E mi tira un ceffone che a me sembra solo la prima carezza dopo tanto tempo.
AMICI DI PALCO
Il primo ad accorgersi che qualcosa non andava fu Gunther Braun, il regista tedesco, un omaccione di un metro e novanta per 110 chili, che a scapito della corporatura era dotato di una sensibilità e di un’attenzione alla figura dell’attore tale da essere diventato uno di quei maestri con cui lavorare almeno una volta nella vita.
Fu lui a chiamare pausa, verso la fine della quarta scena del secondo atto, quando Alfredo Rugani si inceppò per la terza volta, in un apparente vuoto di memoria che andava a cozzare con la sua proverbiale capacità di non sbagliare una battuta. Pensò che Alfredo fosse stanco e niente più; non poteva certo immaginare che l’attore italiano si era inceppato perché aveva acquisito, al terzo tentativo, la certezza che il suo amico immaginario era sparito.
Non che Alfredo Rugani non ne avesse mai paventato la possibilità. Spesso litigavano e si allontanavano l’uno dall’altro, anche per lungo periodo: ma sempre si ritrovavano con immutata amicizia.
A volte l’amico spariva durante le cene dopo il debutto o nel bel mezzo di un’intervista.
Non c’era stato ad esempio il 22 marzo del 1999, quando Alfredo aveva ritirato il premio come miglior attore dell’anno per la sua memorabile interpretazione di Mercuzio. E neppure la volta che in tv si era abbassato a fare da ospite in una trasmissione inguardabile del pomeriggio, piegandosi all’ insistenza quasi maniacale del proprio agente che voleva dargli una qualche visibilità anche fuori dal palcoscenico. Ma mai Mark, l’amico immaginario, era mancato ad una prova, ad uno spettacolo o anche ad un semplice reading. Non era mai successo. Per fortuna.
Perché senza la sua presenza, Alfredo Rugani era un attore mediocre, incline allo stereotipo; e peraltro posseduto da una sconcertante inclinazione al birignao che lo avrebbe tolto in meno di 12 minuti da qualsiasi palcoscenico importante.
Era Mark ad entrare in azione quando il personaggio necessitava delle emozioni più vere, lui che si accollava il pianto sconsolato, la rabbia incontenibile, l’invidia più subdola; ma anche il riso più irrefrenabile, l’allegria coinvolgente e la generosità estrema.
Non appena il testo o la situazione richiedevano una profondità più accentuata, era Mark che vi si infilava, incurante delle conseguenze derivabili per la propria persona. Anche le meravigliose scene di seduzione nel film Matera 1990, una storia italiana
appartenevano a lui, dal momento che mai e poi mai Alfredo sarebbe riuscito ad innamorarsi di Pamela Feuerback in quel modo così assoluto, al limite della follia, che la sceneggiatura richiedeva.
L’amico immaginario non era apparso in tenera età, come a molti succede.
Il primo incontro presupponente la loro futura amicizia accadde nel mezzo di un corso di perfezionamento all’ Actor’s Studio di New York, che l’allora venticinquenne Alfredo era riuscito a pagarsi offrendo corpo e volto alla pubblicità della Fiat Duna, mezzo di cui non erano poi andati fieri né lui né la Fiat.
Nel mezzo di un ricordo che avrebbe dovuto risultare doloroso per lui e per l’anziana attrice americana che teneva il corso, Mark gli si palesò di fianco,