Due corpi una sola mente
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About this ebook
Giacomo si trasferisce a Roma per sottrarsi a un tormento che gli causa un perenne conflitto con se stesso e con chi lo ama. In una Capitale di caos e vitalità, incontri casuali e profonda solitudine, affronta un percorso difficile verso la sua rinascita, accompagnato da tre personaggi che gli fanno da cornice.
Luca, l’amico dello sballo, rappresenta la sua parte più distruttiva. Arturo, invece, da personaggio dai tratti ambigui che vive all’ombra di Giacomo, diventerà a poco a poco una figura cruciale per lo snodo dell’intera trama. E infine Gaya, l’unica donna del gruppo. Solare e briosa, rappresenta la parte integra di Giacomo, ma malgrado lo ami profondamente sarà costretta ad allontanarsi per il bene di entrambi.
Il romanzo inizia proprio con la partenza di Gaya, e in un gioco di flashback narra l’arduo cammino di Giacomo per riordinare il puzzle della sua esistenza e creare un nuovo ragionevole futuro.
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Due corpi una sola mente - Cosimo Mirigliano
Questo romanzo è un’opera di fantasia. Qualunque riferimento a oggetti, persone e luoghi è puramente casuale.
© 2020 Cosimo Mirigliano, PubMe
Tutti i diritti riservati
Ringraziamenti
Prima di cominciare a scrivere questo testo, mi sono trovato dinanzi la stessa pagina che hai tu in questo istante. L’unica dissomiglianza sta nel fatto che la mia era del tutto bianca. Mi sono detto… Ma adesso cosa posso scrivere?
Le parole poi sono venute fuori come sparate da un cannone, incoraggiate anche dalla mia intemperante immaginazione. Il solo prodigio che serbo ancora con eccessiva cura. Senza spossarti troppo, approfitto ulteriormente del tuo prezioso tempo per fare qualche dovuto e oltremodo affettivamente sentito omaggio.
Inizio con il prendere nel contenitore dei ringraziamenti la mia consistente famiglia: i miei arguti e amabili genitori, le mie due audaci sorelle e i miei cinque, non comuni, fratelli. Non dimenticando i miei cordiali cognati e i miei nipoti, sette di numero che per me sono come dei monili. In questa compagine, però, avverto l’impellente desiderio di mettere in evidenza un autorevole grazie
a mia sorella Caterina, la quale mi ha supportato e sopportato per le migliaia di telefonate che ha ricevuto nel lungo periodo di scrittura, confinando le mie insicurezze a un semplice e conciso: «Ma stai tranquillo, stai andando bene.» Di riflesso, invece, voglio incorporare anche mio fratello minore Damiano, ultimo per gerarchia ma primo per preferenza, dedicandogli parte della riuscita del libro. Grazie a lui ho dato il massimo, di più non avrei potuto. Ha scelto, premeditandolo, di leggere il romanzo, per la prima volta solo nei giorni in cui io e l’editore stavamo curando le ultime modifiche, precedentemente alla stampa ufficiale. Tant’è che alla domanda: «Perché lo hai letto solo ora?» mi risponde: «Aspettavo la stesura definitiva.»
Avrei tante altre persone più o meno affettivamente vicine, a cui porgere un sentito ringraziamento, quali gli amici che sparsi per il mondo hanno sollecitato il mio entusiasmo a non abbandonare questo mio sogno. Anche in tale circostanza, però, sento di dover far notare una differenza, quindi riservare un atto di ossequio al mio più caro amico, nonché padre della mia piccola figlioccia; Giovanni.
E infine… Pensavi che mi fossi scordato, vero? Invece no, ringrazio proprio te che hai avuto la voglia di soffermarti su questa pagina e di entrare insieme a me in quel luogo dove sono nascosti i segreti di tutti noi.
Buona lettura
Cosimo Mirigliano
A Marco e Noemi
Parte prima
L’andata
Mi volto desideroso in direzione del battente
nella speranza di avvertire quell’effluvio
che illusorio mi cinge lo sforzo.
In compenso però
un barlume di sole si addossa lungo
un fosco casolare.
È afoso, ma vitalizza.
È tiepido, ma raffredda.
Sì, raffredda quella malinconia
che in questo preciso istante
fluisce rasente la mia commozione.
Rammenti?
Ti conobbi quando ero ancora un pargoletto.
Lì, scrutai la tua sconfinata grazia,
che ancora oggi mi ammollisce il cuore,
illudendomi che in un’altra vita
sarai sempre tu la compagna del mio nascere.
Cosimo Mirigliano
16 maggio 2002
1.
Dopo una notte di birra e sigarette, Giacomo si sveglia da solo nel letto che per sette anni ha diviso con Gaya. Oggi sarebbe stato il loro anniversario, e pensare che c’è chi dice che non vale la regola del settimo anno. Dall’ultima litigata sono trascorsi dodici giorni. E appena dodici ore da quando ha deciso di mettere fine a una situazione che da troppo tempo oramai non funzionava più.
Malgrado Gaya non ci sia, però, la stanza, o il bunker, come la chiama lui, è impregnata del suo odore. Si gira verso l’interno del letto e il cuscino rosa, morbido come le sue tette, è ancora lì.
Ho deciso io di finirla, e allora perché non capisco cosa sia successo davvero?
Squilla il cellulare. Lo afferra a tastoni e risponde. Sono gli amici dello sballo. Sì, sì, okay. Dopo cena appuntamento dall’egocentrica del gruppo. Sicuro che, all inclusive, ci rimedia anche una notte di sesso con la padrona di casa.
Chiusa la conversazione lancia tutto per aria — cuscini, lenzuola, piumone — e si dirige verso il bagno per farsi una doccia e togliersi di dosso l’ultima traccia di una notte senza senso con shampoo e bagnoschiuma in mano, entra in piedi nella vasca e rimane lì, nudo e fermo, a guardarsi intorno. Ovunque ci sono cose di Gaya: le sue boccette, i suoi profumi, ciuffi di capelli incastrati nello scarico, un pacco di assorbenti aperto e lasciato in bella vista. Ma soprattutto la cosa che gli ha sempre dato sui nervi: la piastra attaccata alla presa che penzola da una parte nel lavandino.
Un modo subdolo di farmi fuori, ci scommetto.
Con uno slancio esce dalla vasca, afferra tutto quello che c’è e lo scaraventa in un sacchetto della spesa.
A questo punto, vuoi per lo sfogo, vuoi per la sigaretta appena fumata, sente l’esigenza di sedersi sulla tazza e lasciarsi andare. Di corsa finisce di defecare, di pulirsi, di lavarsi e rientra in camera dimenticandosi del caos che lo attende.
Oggi, primo maggio 2013, ore dieci del mattino, alla radio nazionale lo speaker passa in rassegna i cantanti che si esibiranno al concertone in piazza San Giovanni. Come di consueto, prima gli artisti meno artisti
, poi tutti gli altri, fino a concludere la serata con il grande ospite internazionale. Si adopera a fare dello zapping radiofonico sintonizzato su una frequenza che trasmette solo musica rock.
Alle tre e dieci del pomeriggio i pacchi di Gaya sono sistemati, il concerto è iniziato da qualche minuto e il pranzo è stato assaporato con lo stesso godimento con cui si gusta una preda rubata dalla trappola di un felino. Prende lo scooter e pensa che gli piacerebbe fare un giro al mare, prima di andare verso Trastevere. Casco in testa, documenti nel giubbotto e chiavi in mano, si appresta ad accomodarsi sulla sella nera e morbida del suo vecchio ciclomotore. Oggi la città è un parapiglia incredibile, metropolitana e mezzi pubblici di superficie vanno a rilento e la canicola amplifica i disagi. Ma a Giacomo non importa, vuole arrivare lì il prima possibile e, mentre sfreccia tra le vie del centro, gli scorrono dinanzi immagini lampo del suo passato e la ragione che l’ha condotto a lasciare Gaya.
Ma dai, in fondo ci amiamo, tutto passerà. È ancora possibile chiamarla e sistemare tutto.
O forse no. Stavolta non funziona così, vuole andare fino in fondo alla sua scelta. Senza quasi accorgersene si trova già in via del Mare. Come ogni anno da quando vive a Roma, il Primo Maggio lui deve andare a Ostia. Oggi viene aperta ufficialmente la stagione turistica: lidi, spiagge private e pubbliche, discoteche e un milione di abusivi riprendono a lavorare a pieno ritmo in un mondo dove non ci riesce nemmeno chi ha conseguito tre lauree, dottorato alla Regina o specializzazione alle Nazioni Unite. Loro, gli innominati, sono pronti, per ogni monetina non data, a lasciare l’autografo sulla fiancata della tua auto. Giacomo, invece, si beffa di tutti e al mare ci va sulle due ruote.
Accaldato e con la testa quasi infuocata per via del casco, arriva sulla strada dei cancelli
, ma decide di proseguire in cerca di un luogo più isolato dove trovare un po’ di tranquillità. Parcheggia a ridosso della recinzione e si infila in un sentiero tracciato dai passi sulla sabbia. Poco più in là c’è un chiosco semideserto e lui ha voglia di birra e patatine.
Si avvicina al bancone e siede su uno sgabello, chiedendosi se ci sia qualcuno. Da una tenda sbuca una ragazza mora, alta come la Tour Eiffel, magra come un compasso e con due tette che fanno il giro del mondo in ottanta secondi. Insomma, una figa da paura. Come al solito, lui non può trattenersi dal fare il piacione e la tipa abbocca al suo seducente sorriso come un’anguilla all’amo di un pescatore. Battute su battute, si aprono reciprocamente il tanto che basta. Lei spiega che nonostante la crisi, ha voluto buttarsi in questo piccolo progetto con il fratello prendendo in gestione il chiosco. Lui allora le racconta che, crisi a parte, ha voluto chiudere una storia importante perché non si sentiva più completamente preso dalla sua ragazza.
L’ora avanza e la canicola inizia a scemare, ma l’alcool in corpo no. Appena inizia ad arrivare gente, Giacomo preferisce andarsene e lasciare la preda agli altri. Rivolge un saluto alla ragazza e si incammina al di là di una piccola duna. Recupera quello straccio di telo da mare che ha riposto nello zaino prima di uscire da casa e si sdraia sulla sabbia con una sigaretta tra le dita e una birra da sorseggiare lentamente, mentre il pomeriggio precipita verso il tramonto precoce della primavera. In lontananza, un signore porta a spasso il cane, una ragazza cinese si propone per un massaggio alla schiena e una coppia entra in acqua malgrado il caldo non sia ancora così intenso da poter fare il bagno. Saranno dell’Est, pensa, ma d’un tratto una frase in romanesco si leva in aria suonando come una sirena. A Giacomo è sempre piaciuto quell’accento, lo trova robusto e testosteronico
.
Ricorda ancora quando, a diciotto anni, arrivato fresco dal paesello, aveva sentito il suo primo ma li mort… Che poi, diciamolo, sul momento gli era sembrata quasi un’altra lingua. Ma solo all’inizio. Erano bastati pochi mesi perché anche lui, come la schiera dei fuori sede che affollava l’università, assorbisse quel modo di parlare. Solo che, a differenza degli altri, Giacomo aveva sempre mantenuto una certa ritrosia. A parlare romanesco venendo da fuori, gli pareva di scimmiottare i capitolini veri, di essere un pappagallo che si fa bello a imitare la lingua dell’uomo. Lui invece rispettava troppo quella città, la sua storia e le sue parole che morivano a metà.
«Ma non dovevi venì alle sei?»
Così l’aveva accolto la sua prima padrona di casa.
Cinque del pomeriggio, ultimo piano d’un palazzo di via Lorenzo il Magnifico. Niente ascensore. Alla porta s’era presentata una donna sui cinquant’anni passati portati davvero male, seguita da uno scodinzolante barboncino color miele piuttosto in là con gli anni. Per qualche strana ragione gli ricordava la figura di Mamy nel film con Celentano Il Bisbetico Domato, ma a differenza della governante lei era bianca come un cadavere e aveva, oltre alla foresta amazzonica sulle braccia, anche dei fusti di pino sulle gambe. Sfoggiando un garbo squisitamente mascolino e un alito che avrebbe ammazzato anche una pantegana del Tevere, lo aveva fatto accomodare in salotto. Mentre parlava delle modalità di pagamento, del contratto che non avrebbe mai stipulato, dell’impossibilità di avere un qualsiasi arredo all’infuori di quello che già c’era, Giacomo aveva fissato incredulo i bigodini stretti sulla testa, il rossetto rosso spalmato a caso sulle labbra, i calzini da uomo lasciati sporchi in terra e le poltrone unte che regnavano come troni. Stava per alzarsi e sparire senza neanche salutarla quando qualcosa lo aveva trattenuto: una terrazza gigantesca che dava largo spazio alla vista. Da un lato tutta la zona della Tiburtina fino alle pendici di Tivoli, dall’altro il centro di Roma con Villa Borghese e la sua mongolfiera turistica. Aveva preso in affitto l’appartamento, stretto la mano alla strega e sulla porta, al momento di congedarsi, era stato ricompensato da un improvviso entusiasmo erotico del barboncino color miele che gli si era avvinghiato alla caviglia lasciandogli addosso ogni possibile schifezza attaccata al suo pelo.
La coppia sulla spiaggia continua a giocare con spruzzi e sghignazzi regalati al vento tiepido. Giacomo li osserva mentre scola la sua birra e fuma una sigaretta dietro l’altra. La testa è pesante, ma la mente è leggera e fresca. Il vocio scomposto dei bagnanti sulla spiaggia e nei parcheggi si sta a mano a mano trasformando in pacato suono che lascia solo la scia dell’ultima sillaba di ogni parola. Una strana eco, quasi sottovuoto, gli si insinua nell’udito, e molto lentamente Giacomo si lascia andare a un rilassamento uterino.
Un’ora dopo, è il trillo di un cellulare troppo vicino a svegliarlo di colpo, strappandolo al suo torpore di sogni e alcool. Seduto sulla spiaggia oramai deserta assapora gli ultimi secondi di silenzio prima di riprendere in mano la sua vita e affrontare un’altra serata inutile.
Sulla strada verso la capitale ammira le sfumature di colori che si creano di notte, le larghe strade striate dal giallo sfocato dei lampioni, i semafori lampeggianti, le insegne luminose che indicano la direzione anche a chi non ricorda il nome delle vie, i dialetti e le voci che echeggiano lungo i marciapiedi.
La vita dovrebbe essere sempre così, pensa.
Un lungo scorrere di eventi.
Per andare verso Trastevere, Giacomo fa sempre la solita strada, ma in quest’occasione sceglie di dilungarsi. Preferisce fare una piccola sosta per un’ultima sigaretta, prima di affrontare gli amici del piacere. Parcheggia vicino a Ponte Milvio e fa due passi a piedi, ma vorrebbe che diventassero quattro, otto, sedici, trentadue… Insomma, passi infiniti che potrebbero evitargli il peso di quest’ennesima inutile serata. Si accende una sigaretta e appoggia i gomiti sul grosso cordolo in cemento, ammirando lo skyline romano fatto di luci e alberi. Intorno a lui, complice l’uscita al cinema di un film popolare, il ponte si è riempito di lucchetti di ogni grandezza e colore, con dediche folcloristiche nelle lingue più disparate. Quei lucchetti, adesso, gli ricordano la storia con Gaya.
Anche quella, come il ponte, si è riempita a poco a poco di serrature, di fantasmi e di tanti, troppi, dettami che non è mai riuscito veramente ad accettare.
«Giacomo, mi hai stancata! Non trovare scuse, tu non mi ami, punto e basta. Ami solo quella tua bella faccia da stronzo e nessun altro, ma prima o poi ti stancherai anche di ammirarti allo specchio, solo che io non sarò più qui a sopportare le tue bugie. Quando si ama, si ama completamente l’altro in tutto quello che rappresenta.»
La sigaretta di Giacomo sembra non volersi spegnere mai, o forse è lui che non vuole lasciare quel luogo.
Si può amare un essere umano alla follia e non riuscire a dimostrarglielo in nessun modo, facendogli solo del male pur senza volerlo? Questa domanda non smette di tormentarlo, insieme a un’altra: perché è stato così urgente separarsi da Gaya?
Non era più normale sentirsi con il cappio al collo. E invece adesso, libero com’è, si sente più che mai un animale selvaggio che sbatte contro le pareti di una gabbia senza fenditure.
«Scusi, potrebbe indicarci la strada per arrivare a piedi a San Pietro?»
Una coppia è ferma dietro le sue spalle e aspetta una risposta. Giacomo, appena si riprende dall’irruzione, un po’ di getto e un po’