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Piccola antologia della peste
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Piccola antologia della peste

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Di fronte a un’emergenza inimmaginabile come quella del Covid-19, questo libro ha provato a chiamare all’appello le forze della letteratura italiana contemporanea, con nessun altro scopo se non quello di testimoniare il terribile evento mondiale – ancora in atto, e destinato a condizionare a lungo la vita di tutti – attraverso la parola dei nostri scrittori. Una pluralità di voci, trentaquattro poeti narratori saggisti giornalisti, autori famosi o esordienti, oltre trecentocinquanta pagine dove la prosa di diario si alterna alle narrazioni distopiche, il racconto al fumetto, la riflessione saggistica ai versi in lingua o in dialetto. Concepito e orchestrato da Francesco Permunian, Piccola antologia della peste è un libro imponente, vario e attualissimo, al cui insieme tutti gli autori contribuiscono con una risonanza poetica speciale.
Il volume è impreziosito da uno stupefacente “bestiario” di Roberto Abbiati, che ha realizzato la copertina e trentaquattro disegni, uno per ogni testo compreso nell’antologia.
LanguageItaliano
Release dateNov 25, 2020
ISBN9791259600301
Piccola antologia della peste

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    Piccola antologia della peste - Autori vari

    Autori

    Francesco Permunian

    Il battito d’ali di una farfalla

    «Mentre Dio andava lentamente abbandonando il posto da cui aveva diretto l’universo e il suo ordine di valori, separato il bene e il male e dato un senso a ogni cosa, Don Chisciotte uscì di casa e non fu più in grado di riconoscere il mondo, che, in assenza del giudice supremo, gli apparve all’improvviso d’una spaventosa ambiguità; l’unica Verità divina si scompose in centinaia di verità relative che gli uomini si divisero tra loro. Nacque così il mondo dei Tempi moderni, e con esso il romanzo, sua immagine e modello» – queste le parole di Milan Kundera, tratte da un suo breve saggio ( La denigrata eredità di Cervantes ) confluito poi in L’arte del romanzo .

    Ed è appunto a tali parole – e alla conseguente immagine di un vecchio mondo finito in frantumi sotto i colpi di un virus letale – che s’ispira il progetto di questa antologia costituita dalle varie voci di una realtà improvvisamente implosa e ‘scomposta’ in mille schegge impazzite. Nella speranza di poter ricomporre, attraverso il collante della scrittura, gli infiniti frammenti di un unico affresco nazionale; o perlomeno di riuscire a tracciare i tratti salienti di quella cartografia dell’angoscia e della speranza in cui si rispecchia il volto dell’Italia di oggi.

    I volti, per dirla con Fabio Pusterla, di quegli individui che si levano dal disastro contemporaneo e guardano verso l’alto «nell’ascolto dell’eco di un canto forse impossibile a cui non possiamo rinunciare». Ma anche i volti, aggiungo io, di coloro che guardano più prosaicamente verso il basso, nell’ascolto di un’arte nata come eco di quella risata di Dio che è il romanzo moderno.

    Prosa e poesia s’intrecciano infatti in questa sorta di originale prosimetro privo di qualsiasi pretesa antologica, simile piuttosto ad un’opera aperta che sta tra l’indagine socioculturale e un inesausto work in progress. Insomma, un ritratto in divenire dell’Italia alle prese col coronavirus affidato alla penna di una trentina di narratori e poeti appartenenti a differenti generazioni, alcuni al loro esordio, altri nella piena maturità artistica. Taluni più noti al pubblico dei lettori, altri invece più laterali o di nicchia, con la presenza non secondaria di una pattuglia di giovani autori che operano e scrivono soprattutto sul web.

    E, ciò che più conta, tutti provenienti dagli angoli più diversi del Belpaese, a conferma di una comune Patria letteraria fatta di tante piccole patrie locali, secondo la felice e feconda intuizione di Carlo Dionisotti. Una nazione, in sostanza, intessuta di svariate e molteplici parlate regionali, e perfino comunali: per dire, dal dialetto di una lontana contrada di Marsala – la contrada Cutusìu del poeta Nino De Vita – fino a quella ‘lingua di confine’, impastata di incroci ed esclusioni, che appartiene alla Lugano in cui vive e opera un altro poeta, Fabio Pusterla.

    Scendendo perciò da quel confine italo-elvetico, ecco che si giunge di lì a un po’ su quel lago d’Orta in cui risuona il timbro della voce narrante di Laura Pariani per arrivare infine, dopo un bel salto a volo d’uccello, sulle coste dell’Adriatico con la Venezia di Pasquale Di Palmo, la campagna trevigiana di Luciano Cecchinel e di Nicola De Cilia, nonché il Friuli più schivo e remoto di Anna Vallerugo. Compiendo con ciò un itinerario che passa inevitabilmente attraverso il suo centro nevralgico, ossia la Milano di Cristina Battocletti, Pierluigi Panza, Italo Testa, Franco Buffoni, Romano Augusto Fiocchi, Alessandro Zaccuri. Ma anche di Francesco Savio, direi, quotidianamente diviso tra il bancone di una libreria milanese e un quartiere di Brescia, in buona compagnia tra l’altro con Giuseppe Piotti e la sua terribile peste di Salò.

    Il tutto (tutto siffatto Nord letterario) storicamente e simbioticamente immerso in quel ribollente crogiuolo linguistico che è la Pianura Padana, humus da cui germogliano inquieti i fantasmi e i vampiri di Roberto Barbolini, arguto e brillante interprete di quella vena terragna e visionaria fiorita lungo il corso del Po e nelle zone adiacenti.

    Zone fatte di terra e di acqua dove si muovono, altrettanto inquieti e intrepidi, autori quali Giuliano Gallini (Ferrara), Alice Pisu (Parma), Andrea Cisi (Cremona), Francesca Bonafini (Bologna), per non parlare di Renato Poletti che rumina e rimugina le sue ombre nell’estremo lembo del Polesine di Rovigo.

    Proseguendo quindi lungo la dorsale appenninica ci si imbatte in Adrián N. Bravi, uno scrittore italo-argentino che da anni vive tra Recanati e Macerata e la cui prosa, guarda caso, dona l’impressione di essere misteriosamente sospesa tra le sottili invenzioni della sua lingua madre – lo spagnolo – e lo spettacolo melodrammatico della commedia all’italiana. In quanto, per dirla con le sue stesse parole, «possiamo scrivere, pensare e sognare in altre lingue, ma non potremmo mai fare a meno della maternità che la nostra lingua madre rivendica su di noi, perché la maternità di una lingua non ci insegna solo a parlare, ma ci dona uno sguardo e un modo di essere. Parliamo la nostra lingua madre in tante altre lingue».

    E oltrepassate le Marche di Adrián Bravi, siamo già alle porte di Roma. Sulla soglia di quell’Urbe eterna che, assieme a Milano, conta il maggior numero di adesioni e contributi a questa Piccola antologia: da Dacia Maraini a Paolo Mauri, da Valerio Magrelli a Elio Pecora e altri valenti poeti e narratori quali Andrea Di Consoli, Gabriele Ottaviani, Leonardo G. Luccone, Fabio Donalisio, Gianni Garrera, Andrea Cafarella. E infine, a conclusione del nostro viaggio immaginario sulle ali di un virus, dopo Roma non resta che tuffarci nel multiforme mondo partenopeo. In certi suoi gironi infernali, qui rappresentati dalla lingua cristallina di Silvio Perrella oppure da quella – in puro barocco napoletano – dell’esordiente Mimma Rapicano.

    Postilla

    Nella premessa a Nuova teoria del caos («In matematica e in fisica, il cosiddetto ‘effetto farfalla’, causato dal semplice battito delle sue ali, esprime l’idea che minime variazioni nelle condizioni iniziali producano massime variazioni nel comportamento a lungo termine di un sistema») Valerio Magrelli suggerisce l’esistenza di una parentela non solo tra la poesia e la fisica matematica – vedi il suo Millenium poetry – ma altresì tra la chimica e la poesia, convinto com’è che quest’ultima sia innanzitutto una sorta di forma-pensiero, pensiero fatto forma, forma fatta pensiero, chimica non soltanto di parole, bensì di sillabe, lettere, spazi.

    Piccola antologia della peste

    Roberto Barbolini

    Andrà tutto bene

    Adesso capisco perché alla lupa manca l’occhio destro e la carne di cervo è sparita dal congelatore. Ma quando si arriva a capire è sempre troppo tardi: qualcuno ci ha già sottratto il rimedio. Siamo nell’anno del cavallo d’acqua del terzo ciclo, e secondo il calendario del tempo atomico coordinato universale oggi è il Giorno Chiaro del Primo Mese d’Estate. Guardo Marfusa sprofondata nel silenzio, la faccia bianca come latte cagliato. Ha finito di misurare la febbre e senza una parola mi porge il termometro elettronico. Lo afferro con cautela, stringendolo delicatamente fra il pollice e l’indice guantati. Per il quarto giorno di fila segna 38,888. «Non ti devi preoccupare» mento. «Queste febbriciattole quotidiane mia nonna le curava con tre gocce di sangue d’asino dalla vena dell’orecchio». Lei fa un magro sorriso e annuisce come se fosse convinta, ma so bene che non è così.

    Quando è arrivata, col suo bel manto grigio tendente al marrone, la lupa era stremata dalla fame, ma l’occhio destro ce l’aveva eccome. Purtroppo, oltre all’occhio e alla carne di cervo, da qualche giorno è sparito anche il gatto senza coda. Tasto il sacchetto con i suoi escrementi duri e calcinati che conservo sempre legato al collo, appoggiato sulle ossa dello sterno: un metodo sicuro per prevenire il contagio.

    «Se vuoi del paté, prendi un’oca e pestale bene il fegato; se vuoi un filosofo, prendi un uomo e martellagli i muscoli del cardias» diceva sempre Polignatz. «Ma per tenere lontana la Morte Nera, dammi retta, non c’è rimedio migliore dello sterco d’un gatto senza coda». Sagge parole di un uomo saggio, forse l’ultimo archiatra che conservasse memoria della scienza medica fiorita nell’epoca dorata prima dell’epidemia. Un’età di cui ormai si parla come d’una favola, tanto che nelle menti più inclini alla superstizione si è fatta strada la convinzione che quell’epoca non sia mai esistita.

    Nella ciotola con i croccantini c’è bava di lumaca. Chissà com’è riuscita a entrare in casa con tutti i serramenti sbarrati. A meno che Marfusa…Non voglio neppure pensarci. I nostri scienziati hanno stabilito con certezza che le chiocciole non trasmettono il contagio. Ma le lumache senza guscio? Tra gli animali si vanno producendo strane mutazioni. Polignatz ha sempre dato la colpa al ciclo del carbonio. Aveva scoperto che da quando prospera la Morte Nera, come durante il crollo della dinastia Ming, la ricrescita delle foreste non è stata sufficiente a superare le emissioni del materiale in decomposizione al livello del suolo. Molti continuano a incolpare i cinesi; qualcuno ricorda che i mongoli tiravano con una catapulta i cadaveri infetti oltre le mura della città assediata per diffondere la pestilenza tra i nemici. Ma seminare lumache a tradimento è un metodo d’infestazione un po’ troppo lento; meglio allora i tarbagani, le piccole marmotte mongole che diffondono la peste bubbonica, a meno che non si abbia a disposizione una grande quantità di cenere ricavata dallo sterco di maiale da spalmare con acqua, che guarisce le pustole meglio di quella ottenuta dal corno di cervo.

    «Ti preparo qualcosa da mangiare».

    E Marfusa mi spaccia uno dei suoi sorrisini di circostanza.

    Là fuori, oltre lo schermo di plexiglass, l’aria è di una finta limpidezza che dà l’angoscia. Da quando infuria la pestilenza vaste aree di pascoli sono state abbandonate, le foreste si sono riappropriate dei terreni coltivati, lupi e cinghiali scorrazzano liberamente in quello che una volta era il nostro giardino. Ma le carogne lasciate all’aperto a imputridire avvelenano l’atmosfera. Ho imparato a uccidere per procurarci la carne, dopo un po’ non fa nessun effetto. È più duro scuoiare l’animale, soprattutto se di grosse dimensioni come il cervo sparito dal congelatore. Ma con i conigli, che qui attorno abbondano – anche se appartengono a una razza nana che si ammala e muore facilmente, facendoci temere che siano contaminati – non è troppo difficile. Basta praticare un taglio ad anello attorno a ciascuna zampa, appena sopra la caviglia, senza incidere troppo in profondità. Poi si allunga il taglio dalle zampe al posteriore e si comincia a togliere un po’ di pelle, aprendosi un varco attraverso l’osso della coda. A questo punto si comincia a tirare con le mani, dal dorso verso la testa, e il coniglio scivola fuori agevolmente come una banana dalla sua buccia.

    Anche Polignatz l’hanno scuoiato vivo, avendo egli dimostrato urbi et orbi che il contagio si era espanso ab ovo usque ad mala (come amava ripetere in quella lingua morta che parlava solo lui) lungo la via cinese della seta, anziché tra le flebo e le pappine di semolino degli Ospizi di Stato per Maia­li Troppo Anziani. La trasformazione di umani pregressi in suini in attesa d’esecuzione, bisogna ammetterlo, è stata una delle poche iniziative riuscite nel campo della decimazione programmata, volta a ristabilire il necessario equilibrio demografico fra le generazioni. Era perciò plausibile aspettarsi qualche forma di vendetta da parte dei maiali in questione.

    «Ma siamo seri», obiettava Polignatz nelle nostre conversazioni segrete «come avrebbero mai potuto, quei vecchi suini rincoglioniti dagli psicofarmaci, architettare una simile pandemia costretti a letto o su una sedia a rotelle?». E insisteva sulla sua teoria dei roditori asiatici, i tarbagani mongoli o più probabilmente le minuscole marmotte della Russia Sud - orientale chiamate susliks, quali fonti primarie del contagio.

    L’hanno beccato nudo su una spiaggia, povero Polignatz, mezzo assiderato e completamente inebetito. Quando gli agenti della PuliPolizia sono atterrati con l’elicottero a pochi metri da lui si è buttato giù a quattro zampe e si è messo a grugnire girando in tondo. Hanno dovuto catturarlo con le reti, neanche fosse un Maiale Troppo Anziano qualsiasi. L’hanno scuoiato lì su due piedi, come l’apostolo Bartolomeo, e la sua pelle l’hanno riempita di spugna di plastica color carne per farne un pupazzo dall’aria abbastanza presentabile per essere accolto presso l’Azienda Sanitaria più vicina, dove l’hanno infettato con il virus e trasferito all’Ospizio dei Maiali Terminali. Diffondere l’epidemia con un pupazzo di plastica rilegato in pelle umana, che ha la sagoma e la fisionomia di un noto criminale nemico del Regime, è una delle strategie predilette dalla PuliPolizia. Ma quando hanno provato a caricare sull’elicottero la carne dello scuoiato, per destinarla al compostaggio finale presso la Fonderia Statale Cielo -in -Terra, si sono trovati davanti a un groviglio alto un metro e ottanta di vermi rosa lunghi una quindicina di centimetri, che si è messo a correre attraverso la spiaggia finché ha raggiunto il mare e si è tuffato, scomparendo rapidamente tra le onde.

    Da allora del mio maestro e amico non si è più saputo niente, ma io non dispero: la brulicante massa centripeta che è l’aspetto animale della sua persona, dovunque ora si trovi, sta continuando la sua lotta contro i cospiratori virali e i propalatori ufficiali di menzogne, alla faccia dell’Orda d’Oro e dei roditori asiatici seminatori di peste. Così sgusciamo via dalla nostra vecchia pelle, noi serpenti alla stagione della muta. L’importante è restare vivi, non lasciarsi in alcun modo contagiare. Il virus viaggia per mare e per fiume, è nell’aria e nel pelo dei conigli, nel termometro sotto l’ascella di Marfusa e nei dotti lacrimali del mio occhio di mosca che la spia sospettoso mentre armeggia irrequieta coi fornelli. Oggi mi appare più bassa di statura, come se si fosse leggermente prosciugata. Con il diffondersi dell’epidemia, anche le ossa delle donne sono diventate più corte.

    «È pronto…».

    Perfino la sua voce è cambiata. Perduti i bagliori napoletani di tradimento che mi facevano tanto ingelosire, ha il tono roco d’una bestiola senza sesso. Mi sbatte davanti un piatto di carne nerastra che puzza di copertone bruciato e si versa il suo quotidiano bicchiere di Vov con dentro un pezzetto di fegato di gatto tritato fine fine. Per ucciderlo e poi metterlo sotto sale ha dovuto aspettare la prima notte di luna calante, come consiglia il Plinius tascabile che ci siamo portati dietro nella fuga, dove si legge che il fegato di gatto nel vino è il rimedio migliore contro gli attacchi di febbre quartana. Purtroppo il vino è finito da un pezzo, così lei si è arrangiata con questa specie di zabaione liquoroso procuratoci sottobanco dall’infermiere col becco da bozzagro, convinta che l’intruglio buono per la quartana possa funzionare anche per arrestare il virus, visto che le ha bloccato la temperatura sui 38,888 gradi: la Linea Maginot contro il piccolo mostro dalla forma simmetrica a cinque raggi che ha sconvolto le nostre vite.

    «Assomiglia a una stella marina» raccontava Polignatz, che l’aveva visto per la prima volta al microscopio, ingrandito milioni di volte. Seduti in circolo attorno alla tavola imbandita nel centralissimo superattico di Marfusa, festeggiavamo con certi vecchi amici il suo compleanno, incuranti del contagio di cui qualcuno incominciava, sottovoce, a parlare. Era quello il momento di arruolarsi nelle Ronde di Lotta e di Governo: fossi stato un cittadino modello, anch’io avrei dovuto offrirmi volontario alla pattuglia sconsiderata degli eroi, perlustrare senza scafandro protettivo la Dead Zone per scovare gli untori, invece di starmene lì nella bambagia, inerte ammasso di peli e di appetiti, davanti a un bel piatto di carne che non puzzava ancora di copertone bruciato. Ma lo spaccio clandestino del compost ricavato dallo smaltimento dei Maiali Troppo Anziani rendeva troppo bene, mi sembrava di non avere una preoccupazione al mondo.

    La sorpresa è venuta al momento del sorbetto. Uno sciame misterioso di droni giganti ha invaso il cielo notturno come bombi a primavera in una bella giornata di sole, dirigendosi verso il superattico a forma di orologio molle che Marfusa aveva fatto progettare da un’archistar in delirio. Una voce interstellare ci ha intimato di non muoverci, spingendoci immediatamente alla fuga. Da allora non abbiamo più smesso di scappare, ma è come se non ci fossimo mai mossi di lì.

    Un raggio a forma di stella marina a cinque punte ha illuminato il dorso scaglioso di Polignatz che se la dava a gambe, facendo balenare il sospetto d’una minuscola coda retrattile.

    «Achtung, Juden!».

    La grande caccia era incominciata. Guai a divulgare la cabala del mostro a cinque punte, ribattezzato dagli scienziati Stella Maris per far pensare al calore terapeutico di una colonia marina anziché a un virus mortale; guai a procurare l’allarme nel nostro universo molle e liquefatto come un orologio di Dalì, pensato apposta per non farci pensare. Guai a svelare il legame tra la stella marina che uccide e la stella giudaica a cinque punte che simboleggia i cinque elementi metafisici: acqua aria fuoco terra e spirito. Non ci voleva molto a capire che Polignatz era già un uomo morto. E noi con lui, se solo fossero riusciti a catturarci. La teoria del complotto ebraico sovvenzionato dai banchieri americani per affondare le compagnie genovesi di navi da crociera cominciava a sormontare quella che dava la colpa ai cinesi. Che a loro volta, guardando le cose da est a ovest, accusavano i virologi andalusi. I quali se la prendevano con i fisici post - einsteiniani, sostenendo che il virus proveniva dalla quarta dimensione postulata dalla teoria della relatività.

    Ad ogni modo, tutto questo è successo in un’altra epoca. E se davvero il tempo, come vuole la superstizione corrente, è la quarta dimensione dello spazio, ciò significa anche che è successo in un altro luogo. Un altrove dove forse non sono mai stato: a viaggiare troppo certe volte si rischia d’impazzire.

    Da un po’ Marfusa mi sta fissando come se non mi riconoscesse. È mai possibile? Cara mia, io e te siamo da sempre una cosa sola, il Bello e la Bestia in un’unica persona, Eng e Chang i fratelli siamesi, Aelia Laelia e il Resoldor! Eppure anch’io faccio fatica a riconoscerti, mentre scivoli lenta per la stanza sulle tue cinque molli braccia che s’allungano come la scia d’una stella cadente, la pelle non più lattea ma d’un bel colore rosso asteria, la bocca infossata al centro del corpo e le ossa ormai del tutto scomparse, come se non ne avessi più bisogno. Amore mio, che cosa stiamo diventando?

    « Nec Vir, nec Mulier, nec Androgyna…» recita Polignatz nella sua lingua incomprensibile. Sono secoli che non lo vedo, ma a quanto pare sono ancora in grado di sentire la sua voce. Vuol dire che la PuliPolizia galattica non è mai riuscita a catturarlo. Eppure dovevano capirlo: è impossibile schiacciare un corpo quadridimensionale in uno spazio tridimensionale senza che alcune parti schizzino via. Per questo il gatto finito nel Vov era senza coda. Per questo la lupa ha perso l’occhio destro e Polignatz ci ha rimesso la pelle. Ma quel kamasutra di vermi rosa alto un metro e ottanta, che è l’aspetto animale della sua persona in fuga, ancora lotta e vive e forse ha trovato il rimedio. La carne di cervo sparita è stata il primo indizio, molto presto arriveranno altri segni. Bisogna solo fare presto, prima che Marfusa si trasformi completamente in una radiante e geometrica stella marina. Ecco, bussano alla porta. Liscio la mia bella coda di piume bianche e zampettando vado ad aprire. Siamo nell’anno del cavallo d’acqua del terzo ciclo, oggi è il Giorno Chiaro del Primo Mese d’Estate e sono sicuro che andrà tutto bene.

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