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Gli ingranaggi dei ricordi
Gli ingranaggi dei ricordi
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Gli ingranaggi dei ricordi

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Cagliari, 1943. Dopo l’ultimo bombardamento, Generosa lascia a malincuore la città devastata e si rifugia in un paese dell’interno con i figli e due donne di servizio. È in pena per il marito, rimasto nel capoluogo in qualità di medico all’ospedale militare, per il figlio che deve nascere e per quelli che ha già, ma soprattutto è in pena per sua sorella Gisella e suo fratello Silvio, che vivono a Roma e pare siano
coinvolti nella lotta partigiana. Olbia, 1943. Felice ha 18 anni e, con le due sorelle Bella e Demy, accompagna il padre a imbarcarsi sul traghetto che lo condurrà sul Continente. Ora tocca a lui prendersi cura delle ragazze, in un lungo vagabondaggio che percorrerà
l’isola da nord a sud, da un paese all’altro, tra mille disavventure e incontri bizzarri. Roma, 1944. Un attentato in via Rasella provoca la morte di 33 soldati tedeschi e due civili italiani. Il giorno dopo, per rappresaglia, i germanici uccidono 335 italiani alle Fosse Ardeatine. Con Gli ingranaggi dei ricordi la Salabelle racconta tre storie di uomini e donne in guerra, ispirate a fatti realmente accaduti, in particolar modo le vicende dell’eroico Silvio e dell’eccidio delle Ardeatine, anche attraverso gli occhi dei loro discendenti, narrando le traversie di famiglie
devastate dagli eventi bellici, immerse in un periodo travagliato e drammatico della storia italiana.
LanguageItaliano
Release dateNov 25, 2020
ISBN9788868513139
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    Gli ingranaggi dei ricordi - Marisa Salabelle

    Salabelle

    Gli ingranaggi

    dei ricordi

    arkadia editore

    Cagliari, 1943. Dopo l’ultimo bombardamento, Generosa lascia a malincuore la città devastata e si rifugia in un paese dell’interno con i figli e due donne di servizio. È in pena per il marito, rimasto nel capoluogo in qualità di medico all’ospedale militare, per il figlio che deve nascere e per quelli che ha già, ma soprattutto è in pena per sua sorella Gisella e suo fratello Silvio, che vivono a Roma e pare siano coinvolti nella lotta partigiana. Olbia, 1943. Felice ha 18 anni e, con le due sorelle Bella e Demy, accompagna il padre a imbarcarsi sul traghetto che lo condurrà sul Continente. Ora tocca a lui prendersi cura delle ragazze, in un lungo vagabondaggio che percorrerà l’isola da nord a sud, da un paese all’altro, tra mille disavventure e incontri bizzarri. Roma, 1944. Un attentato in via Rasella provoca la morte di 33 soldati tedeschi e due civili italiani. Il giorno dopo, per rappresaglia, i germanici uccidono 335 italiani alle Fosse Ardeatine. Con Gli ingranaggi dei ricordi la Salabelle racconta tre storie di uomini e donne in guerra, ispirate a fatti realmente accaduti, in particolar modo le vicende dell’eroico Silvio e dell’eccidio delle Ardeatine, anche attraverso gli occhi dei loro discendenti, narrando le traversie di famiglie devastate dagli eventi bellici, immerse in un periodo travagliato e drammatico della storia italiana.

    Marisa Salabelle è nata a Cagliari e vive a Pistoia dal 1965. Si è laureata in Storia presso l’Università di Firenze e ha frequentato il triennio di Studi teologici presso il Seminario vescovile di Firenze. Dal 1978 al 2016 ha insegnato nella scuola italiana. Nel 2015 ha pubblicato il suo romanzo d’esordio, L’estate che ammazzarono Efisia Caddozzu (Piemme), opera finalista all’edizione 2016 del Premio La Provincia in Giallo. Ha pubblicato articoli e racconti sulle riviste online Vibrisse, Nazione Indiana, Scrittori in causa, Poliscritture, Passi Paesi Parole, Toscanalibri. Nel giugno 2019 ha pubblicato il suo secondo romanzo, L’ultimo dei Santi (Tarka), finalista al Premio La Provincia in Giallo, edizione 2020.

    Foto di copertina: civili in fuga dalla Guerra (1945)

    © 2020 arkadia editore

    Collana Eclypse 110

    Prima edizione digitale novembre 2020

    isbn 978 88 68513 139

    arkadia editore

    09125 Cagliari – Viale Bonaria 98

    tel. 0706848663 – fax 0705436280

    www.arkadiaeditore.it

    info@arkadiaeditore.it

    Ai miei genitori.

    A mia zia Adriana

    Nell’andare, se ne va e piange,

    portando la semente da gettare,

    ma nel tornare, viene con giubilo,

    portando i suoi covoni.

    salmo 125, versetto 6

    Nota dell’Autore

    Questa è una storia di intrecci famigliari, di flash-back, di incursioni tra passato e presente, dove delineo le vicende di due gruppi parentali: i Serra-Zedda e i Dubois. Ho voluto dividere il racconto in capitoli e mescolare un po’ le carte. I capitoli pari descrivono i fatti incentrati intorno ai parenti di Generosa, ossia gli Zedda e i Serra. In questi stessi capitoli troverete le incursioni del pronipote di Generosa, Kevin. I capitoli dispari, invece, narrano le traversie dei Dubois, avendo come figura principale Demy, mentre il presente è delineato dalle vicende di Carla, sua nipote.

    1

    Cagliari, 2015

    Ciao, bella di zia! Già ne è passato di tempo dall’ultima volta che ci siamo viste! E quando sei arrivata? Sei venuta con la nave? Con l’aereo? E hai mangiato, di’, bella di zia? Mi dispiace solo che non ti posso invitare a casa mia, ma lo vedi, mi hanno portato qui e non mi lasciano andare via. Io vorrei tornare a casa, ma non vogliono. I dottori. Nel modo più assoluto! Dicono che ho avuto un infarto… Io non mi ricordo nulla. Solo questo gran dolore al petto… Che dolore, bella di zia! Ho sentito come un pugno nel petto, e non riuscivo a respirare. Ta dannu mannu, che spavento! Sono scivolata in terra, poi devo essere svenuta, perché non ricordo più nulla. Ho perso conoscenza, hanno detto. E quando mi sono svegliata ero qui. Sono state le mie vicine a soccorrermi! Che se non era per loro, non lo so se ero ancora viva, adesso. Ma tu quando sei arrivata? Sei venuta in nave o con l’aereo? Che poi, quando hai un momento, mi dovresti fare un favore, perché non ho la mia dentiera, e non riesco a mangiare. Se per favore vai a casa mia, prendi la dentiera, la trovi nella sua custodia, dentro il cassetto del comodino, e me la porti.

    E babbo tuo come sta? Felice, mio fratello, come sta? Ma che dici? È morto? Ma veramente? E quando è morto? E io non lo sapevo? Ah, non dirmelo, che dolore! Come mi dispiace per il mio povero fratello! Tu dici che lo dovevo sapere, eh? Cosa vuoi che ti dica, me ne sarò dimenticata! Mi dimentico sempre di tutto, la mia testa è vuota, vuota come una zucca.

    Ma tu quando sei arrivata? E hai già mangiato oppure no? Perché io non posso mangiare, non ho la dentiera, anzi, se vai a casa mia, mi fai il favore, me la prendi? È nel cassetto del comodino, nella sua scatolina.

    2

    Generosa. Cagliari, 1943

    Generosa percorse il lungo corridoio con una certa fatica, massaggiandosi la schiena con tutt’e due le mani. La gravidanza, arrivata al sesto mese, cominciava a pesarle e le rallentava l’andatura. L’andito era stretto e buio, le stanze in compenso erano grandi e luminose. Salotto, sala da pranzo, cucina e studio si affacciavano su via Roma; le camere, i bagni e la cucina davano sul cortile. Generosa entrò in cucina, dove Eufemia, la donna tuttofare, aveva già iniziato a preparare il pranzo, aiutata da Giannina, una delle zeraccheddas. L’altra, Antonia, stava riordinando le camere.

    «Le patate sono finite», disse Eufemia, «e bisogna comprare anche carote e zucchine.»

    «Mandiamo Giannina al mercato, così magari prende qualche arancia, se ce ne sono, per fare la spremuta ai bambini.»

    «Può venire anche Antonia, signora Generosa?»

    «E che, bisogno della scorta hai?»

    «No, è per non andare da sola… Antonia poi non esce mai, cinque minuti soli, signora Generosa!»

    Generosa sospirò. Quelle due ragazzine la facevano diventare matta, erano delle pelandrone belle e buone, menomale che Eufemia le teneva sotto controllo.

    «Vai a vedere se ha finito con le camere.»

    «E se non ha finito le do una mano io. Grazie, signora Generosa!»

    «E non rimanete a ciondolare per strada, mi raccomando.» La ragazzina si dileguò e Generosa si rivolse a Eufemia: «Cosa c’è per pranzo?»

    «Malloreddus con salsa di pomodoro per primo.»

    «Carne ce n’è?»

    «Il coniglio che ha portato zia Teresina stamattina presto. Lo faccio al forno.»

    Generosa sospirò di nuovo. Il bambino le aveva rifilato un calcio micidiale. Doveva essere un maschio, visto com’era vivace: un continuo agitarsi di braccia e di gambe. Lei non aveva ricordo di una simile vivacità negli altri suoi figli. O forse si trattava semplicemente del fatto che cominciava a essere troppo vecchia per certe cose. Trentotto anni, quattro figli, e di nuovo incinta. Il suo corpo, inutile dire, non era più quello di un tempo. Almeno dieci chili di troppo, una brutta varice alla gamba sinistra, piedi e mani gonfi, macchie sul viso: questo era il risultato dell’ardore di Ruggero e della sua accondiscendenza. Avrebbe dovuto rifiutarsi di farsi mettere incinta un’altra volta, pretendere da lui più rispetto, più prudenza. C’erano tanti modi, santo Iddio! Niente, oramai era cosa fatta, non c’era che da sperare che tutto andasse bene.

    Non erano certo bei tempi per mettere al mondo un bambino. I bombardamenti si succedevano senza sosta, Cagliari era semidistrutta, per non parlare del fatto che mancavano generi alimentari, vestiario, scarpe: mancava tutto da mesi. La Sardegna era completamente isolata, le navi non facevano più servizio regolare, i rifornimenti arrivavano raramente. Per fortuna c’erano i pazienti di Ruggero, che riuscivano sempre a procurargli uova per i bambini, un coniglio, una gallina. Si andava avanti giorno per giorno, con quello che c’era, confidando nella Provvidenza. Finora se l’erano cavata e anche il palazzo era stato risparmiato. Ma non si poteva mai sapere cosa sarebbe avvenuto il giorno dopo e Generosa era preoccupata per i piccoli. Augusto aveva dieci anni, Giorgio otto, Nando cinque. Maria Ausilia, la grande, l’unica femmina, aveva sedici anni. Tra Maria Ausilia e Augusto non era certo rimasta con le mani in mano, aveva avuto due gravidanze, entrambe finite con un aborto al terzo mese. Poi, dopo Nando, la tregua. Più di quattro anni senza rimanere incinta, nonostante l’entusiasmo con cui Ruggero continuava a darci dentro. Non ci resto più, aveva pensato con sollievo. Sono troppo vecchia, oramai.

    E invece, a sorpresa, mentre il ciclo apparentemente continuava a farle visita una volta al mese, qualcosa aveva cominciato a gonfiarsi dentro di lei. Pensò subito a un tumore, tanto era lontana dal sospetto di una nuova gravidanza, ma suo marito, tastandole il ventre e infilandole un dito nella natura, le garantì che non c’era nessun tumore, semplicemente un nuovo bambino. Lì per lì si sentì sollevata: chi non vorrebbe un figlio al posto del cancro? Non appena si fu scrollata di dosso la paura di morire, ecco che l’idea di un altro figlio la riempì di una stanchezza invincibile. Un altro, pensò; altri mesi con un peso crescente sullo stomaco e piedini puntati contro le costole, un altro parto, altri mesi ad allattare con un seno enorme e dolorante, altre culle da tentennare, altre carrozzine da spingere, altri strilli da placare, e menomale che i pannolini e le fasce non li lavava lei, c’era signora Franca che veniva due volte la settimana a prendere i panni da pulire e li restituiva lindi e stirati la volta dopo.

    Non che Generosa non amasse i suoi figli. D’altra parte, quando si era sposata, non ignorava quello che sarebbe stato il suo destino, sfornare figli un anno dopo l’altro. Sua madre non ne aveva forse avuti undici? Due erano morti, uno in circostanze poco chiare, l’altra, una bambina, subito dopo il parto. Dopo la morte del babbo, la mamma si era trasferita a Roma con i figli più piccoli e Gisella, che non si era sposata, l’aveva seguita per darle una mano. Problemi economici non ne aveva, che babbo era notaio e guadagnava bene, aveva messo da parte dei bei soldi prima di morire ancora giovane. Gisella lavorava, insegnava Scienze al Liceo Umberto I; Mariano e Silvio invece studiavano. Gli altri cinque fratelli, tutti maschi, vivevano qua e là in Sardegna o in Continente, ciascuno con la sua famiglia, e Generosa li vedeva di rado. Ora, da quando era scoppiata la guerra, non aveva più rivisto sua madre e i due fratelli piccoli; Gisella qualche volta era venuta a Cagliari a trovarla, ma da quando la guerra si era inasprita, i collegamenti tra l’isola e il Continente erano diventati rari e irregolari. Cagliari subiva i terribili spezzonamenti che la stavano radendo al suolo e anche le visite di sua sorella si erano diradate. Generosa era preoccupata: Cagliari era più pericolosa di Roma, la Capitale era al sicuro, protetta dallo scudo del Vaticano, però il suo pensiero andava a Gisella e Silvio che non nascondevano le loro simpatie per il comunismo e l’avversione per il regime. Chissà che cosa combinavano quei due, sicuramente partecipavano a riunioni clandestine e stampavano volantini, sua madre non faceva che lamentarsi di loro e dei rischi che correvano con tutte quelle attività illegali.

    * * *

    Kevin. Bologna, 2015

    Ecco, lo sapevo che non dovevo dar retta a mia madre. Quella è una rompic… brava donna, eh. Ma quando si mette in testa una cosa. Ora che le è saltato in mente di suggerirmi l’argomento per la mia tesi di laurea in Storia?

    «Kevin», mi fa. «Ho un’idea fantastica per la tua tesi in Storia contemporanea. Hai presente zio Silvio, il fratello di mia nonna Generosa?»

    «Come no! Siamo andati all’asilo insieme.»

    «Spiritoso! Sul serio, ti ho mai parlato di lui?»

    «Mamma! Me ne parli un giorno sì e un giorno no.»

    «Oh, con te non si riesce a fare un discorso a modo. Ascolta: lo sai che zio Silvio era partigiano, no?»

    Come avrei potuto ignorarlo? Zio Silvio era la gloria di famiglia, un giovane sardo amico di Luigi Pintor, attivo nella Resistenza romana: si diceva che fosse tra gli autori dell’attentato di via Rasella, poi arrestato dai tedeschi e morto in circostanze misteriose. Questo era tutto ciò che si sapeva di lui.

    «Dopo che mi sono laureata», ha detto mia madre, «mio zio Bastiano mi fece una proposta: mi avrebbe stipendiata per un anno se avessi fatto delle ricerche per capire cosa ne era stato di zio Silvio, se veramente era uno del commando di via Rasella, se era un martire delle Fosse Ardeatine.»

    «Semplice: non lo è! I morti delle Fosse Ardeatine sono stati tutti riconosciuti, Silvio Serra non è uno di loro.»

    «Non è vero, tra le salme ce ne sono ancora nove non identificate.»

    «Sì, va bene, ma si sanno i nomi di tutti, anche se alcuni non sono stati abbinati ai corpi. Non c’è nessuna possibilità che Silvio sia tra di loro.»

    «Lo so, non è questo il punto. E comunque allora, quando zio Bastiano mi fece quella proposta, l’elenco dei nomi era incompleto e quindi… In ogni caso, la famiglia non aveva più saputo nulla di lui, e zio Bastiano voleva…»

    «E tu perché non hai accettato?»

    «Non lo so, l’idea era bella, ma non me la sono sentita. Avrei dovuto trasferirmi a Roma per un po’, fare ricerche negli archivi, intervistare delle persone… A quei tempi, ti parlo dei primi anni ’80, parecchi che l’avevano conosciuto erano ancora vivi. Era un bel progetto, ma io avevo altre cose in mente: ero fidanzata, io e tuo padre volevamo sposarci e così…»

    «Casti sogni di una fanciulla borghese…»

    «Senza quella fanciulla e i suoi casti sogni tu nemmeno esisteresti, renditi conto.»

    «E allora cosa vorresti? Che la facessi io la tua indagine?»

    «Be’, no, ora è troppo tardi per certe cose, è passato troppo tempo… Le persone che hanno conosciuto zio Silvio sono morte, oramai. Però adesso c’è Internet, e sono convinta che sia possibile trovare molte informazioni in rete.»

    «E perché non te le cerchi tu?»

    «No, io… Non ho tempo, non sono capace.»

    «Non sei capace? Figuriamoci!»

    «Senti, perché non ne parli con il tuo professore? Mencarelli, giusto? L’ho conosciuto a un corso di aggiornamento, mi è sembrato una persona aperta e disponibile… Digli pure che è una mia idea, se vuoi. Magari ti vien fuori una bella tesi e finalmente sapremo cosa è successo a zio Silvio.»

    «Capirai… Tutti quelli a cui poteva interessare sono morti, a partire da zio Bastiano… per non parlare di tua nonna Generosa!»

    E comunque mi sono lasciato convincere, e incredibilmente il professor Mencarelli, ordinario di Storia contemporanea all’Università di Bologna, è stato entusiasta dell’idea. «Silvio Serra», ha detto, «è un nome che ricorre spesso nelle memorie dei protagonisti della Resistenza romana, ma di sfuggita, appena accennato… e se non sbaglio c’era anche una sorella, Ginevra?»

    «Gisella, credo.»

    «Giusto: Gisella. Anche lei attivista… Potrebbe venirne fuori qualcosa di interessante. Sua madre ha avuto una buona idea, Kevin. A proposito, posso chiederle come mai sua madre, una sarda orgogliosa delle proprie radici, le ha dato un nome straniero? Si tratta forse di un omaggio a Kevin Costner?»

    «Non saprei… Quando ero piccolo pensavo che si fosse ispirata al protagonista di Mamma, ho perso l’aereo. Il film è uscito proprio nell’anno in cui sono nato… Ma a dire il vero credo che si tratti della versione inglese di Gavino, un nome tipicamente sardo!»

    «No, no, non credo, sa? C’è una certa assonanza, ma penso che si tratti di due nomi distinti. In ogni caso, caro ragazzo, bando alle frivolezze: si metta al lavoro, qui ci sono alcuni libri che dovrà leggere tanto per farsi un’idea sull’argomento, faccia delle ricerche in rete, veda di trovare notizie sui suoi prozii, si informi se c’è in giro ancora qualche testimone da intervistare, e quando avrà del materiale venga pure a farmelo vedere. E mi saluti tanto la sua mamma!»

    Così eccomi qui, con una bibliografia sterminata, testi sulla Seconda guerra mondiale, sulla Resistenza, sulla Resistenza a Roma, sui gap, di cui sembra che Silvio facesse parte; sull’attentato di via Rasella, sul massacro delle Fosse Ardeatine, sulla polemica nata a proposito dell’attentato e delle sue funeste conseguenze; biografie di Emilio Lussu e Luigi Pintor, memoriali di Chiara Ingrao, Carla Capponi, Nello Ajello. Per non parlare del materiale in rete, roba da matti. Mi toccherà leggermi centinaia, che dico, migliaia di pagine, riempire quaderni di appunti, compilare schede, e poi per cosa? Tanto su Silvio Serra ho capito che c’è poco, qualche parola qua e là, nemmeno una foto, per non parlare della sorella Gisella!

    * * *

    Generosa. Cagliari, 1943

    Antonia e Giannina si precipitarono giù per le scale spingendosi l’un l’altra e ridendo come due sceme. Finalmente una boccata d’aria. Signora Generosa non era la peggior padrona sotto cui potevano capitare, ma Eufemia, che era quella che aveva l’effettiva autorità su di loro, era una vera negriera, le trattava come schiave, facendole sgobbare dalla mattina alla sera. Certo, fosse stato per lei, non le avrebbe mandate in due al mercato, ma signora Generosa era più indulgente, o forse la condizione in cui si trovava la rendeva meno battagliera. Comunque fosse, ce l’avevano fatta, una mezzoretta tutta per sé erano riuscite a rimediarla, e non era poco, a quei chiari di Luna.

    La famiglia del dottor Zedda era impegnativa, la casa grande, tante camere da tenere

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