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La parete dipinta
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Ebook410 pages6 hours

La parete dipinta

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La parete dipinta è una raccolta di 22 racconti di genere soprannaturale, avvolti nel mistero della psiche umana e degli orrori che possono annidarsi tra le ombre di un pensiero. Questi racconti vi terranno con il fiato sospeso.
LanguageItaliano
Release dateNov 23, 2020
ISBN9788833467269
La parete dipinta

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    La parete dipinta - Roberto Cocchis

    Cocchis

    La strada vuota

    Nel 1989, dopo due anni di università, non essendo riuscito a superare abbastanza esami da giustificare un ulteriore rinvio, Mario Bonanno partì militare. Non era mai stato uno studente particolarmente bravo: perciò, negli ultimi mesi, si era rassegnato all’idea di partire. In fondo, si trattava giusto di un anno: lui ne aveva solo venti, avrebbe avuto il tempo e il modo di rifarsi.

    Eppure, i primi tempi in caserma furono tutt’altro che felici. L’ambiente era pessimo: sembrava che tutti si odiassero tra di loro e non avessero nulla di meglio da fare se non rendersi la vita impossibile l’un l’altro. Durante il CAR, che compì a Casale Monferrato, dopo un viaggio interminabile dalla provincia di Napoli, non si fece neppure un amico.

    Fu assegnato a un reggimento di artiglieria, di stanza a Novara: una città che non gli piacque particolarmente ma, se non altro, aveva un po’ di vita. Altri, spediti in Friuli o ai confini, non erano stati altrettanto fortunati.

    Aveva lasciato casa in giugno e, tolti un paio di giorni alla fine del CAR, non c’era più tornato. Nei primi tempi, telefonava ai genitori tutti i giorni, poi sempre meno. In autunno gli sarebbe toccata una licenza, ma dovette aspettare parecchio per averla. Per due volte, degli inconvenienti non dipendenti da lui, la fecero saltare all’ultimo momento. La terza volta, era ormai la fine di ottobre, non ci fu nessun inconveniente, anche perché il capitano gliela comunicò solo all’ultimo momento, alle cinque di sera.

    Dovette partire in pochi minuti, dopo aver gettato frettolosamente qualcosa nello zaino. Se voleva arrivare a casa per la mattina dopo, doveva spicciarsi. Avrebbe cambiato tre treni: da Novara a Milano, da Milano ad Aversa e da Aversa a Casaturo. I treni da Novara a Milano erano abbastanza frequenti e quelli da Aversa a Casaturo passavano a un’ora di distanza l’uno dall’altro. Il problema era arrivare ad Aversa da Milano: di tutti i treni che partivano di sera da Milano, solo uno fermava anche ad Aversa. Per trovarne un altro, bisognava aspettare diverse ore.

    Fece in tempo a saltare sul treno giusto, a Milano, ma, per riuscirci, dovette rinunciare a telefonare a casa. Riuscì a fare un solo tentativo, da un telefono pubblico, a Milano, ma trovò occupato: quasi certamente, la sorella con il fidanzato.

    Il suo arrivo, per i genitori, sarebbe stato una sorpresa.

    Ma le prime sorprese furono tutte per lui, e non furono gradevoli. Durante la notte, che Mario trascorse dormendo alla meno peggio, sdraiato trasversalmente su una fila di sedili, in uno scompartimento occupato solo da lui, il treno accumulò un notevole ritardo. Nelle sue intenzioni, Mario aveva sperato di essere ad Aversa per le nove di mattina: ma, alle undici, aveva appena superato Roma. Un viaggio così lungo era anche, inevitabilmente, scomodo: meno male che Mario aveva fatto in tempo a comprare, alla stazione di Milano, una busta di panini e una bottiglia d’acqua.

    Perse un po’ di tempo ad Aversa, dove era impossibile telefonare, perché nessun telefono pubblico funzionava, e arrivò a Casaturo poco prima delle tre, mezzo morto di fame e di stanchezza.

    Fu l’unico viaggiatore a scendere dal treno. La stazione era silenziosissima. Sullo sportello della biglietteria, un cartello annunciava che la stazione stessa era disabilitata dalle 14 alle 07. Mario ricordava che c’erano due telefoni nell’atrio e uno su una colonnina subito fuori l’ingresso: ma i due telefoni dell’atrio erano muti e quello di fuori era stato addirittura strappato via a forza.

    Il sole era ancora alto, un sole che, al Nord, neanche se lo sognavano, e era l’aria calda. Soffiava una leggera brezza che rinfrescava e sollevava un po’ di polvere dalla terra dei campi che si vedevano in lontananza.

    Mario, prima di avviarsi, restò qualche istante a sistemarsi lo zaino sulle spalle, guardando la strada davanti a sé: circa un chilometro e mezzo, piena di buche e circondata dai prati abbandonati. Più o meno a metà, c’era una curva: poi, si arrivava direttamente al corso principale di Casaturo.

    Un tempo una camminata simile, senza macchina, gli sarebbe sembrata una faticaccia: ma, in confronto a tutte le marce fatte durante il CAR, era quasi riposante. Camminò di buon passo, senza affrettarsi. Non si sentiva nessuno, né in vicinanza, né in lontananza. L’odore dell’erba era molto piacevole, così come il pensiero di essere presto a casa. Una doccia, un piatto di pasta, e poi sarebbe andato al bar, a cercare i vecchi amici. Non era così stanco da crollare subito a letto: poteva resistere fino alla sera.

    Pochi metri prima della curva, sentì avvicinarsi il rumore di un’auto, che arrivava davanti a lui. La strada non aveva marciapiede e lui camminava sulla sinistra: perciò, istintivamente, si fece ancora più vicino al margine. Non era facile che l’auto stringesse la curva fino al punto da investirlo, ma era meglio non correre rischi.

    Invece, l’auto, una grossa macchina scura, di cui non riuscì a distinguere neanche il modello, gli arrivò addosso, appena uscita dalla curva. Mauro non ebbe il tempo di pensare a nulla. I suoi piedi si staccarono dal suolo e volò verso il campo, fuori della carreggiata.

    C’era voluta un’incredibile prontezza di riflessi, per riuscire a saltare via prima di essere colpito. Disteso nell’erba, con lo zaino ancora sulle spalle, Mario impiegò diversi secondi a rendersene conto. Il rumore dell’auto si era allontanato subito: il bastardo, chiunque fosse, non si era fermato.

    Mario si alzò in piedi lentamente. Non si era rotto nulla, non si era nemmeno fatto male: l’erba aveva attutito la sua caduta. Era stato un miracolo, pensò. Tirò un lungo respiro e si rimise in cammino.

    Non ci poteva pensare, a quel porco che prima aveva rischiato di investirlo e poi se l’era squagliata senza fermarsi. Chi sa chi era: a saperlo, gli avrebbe spaccato la faccia alla prima occasione.

    Percorse il restio della strada affrettando il passo e finalmente arrivò in paese, a metà del corso principale. Non riusciva a smettere di pensare a quel bastardo che per poco non lo aveva ammazzato. Gesù, che mondo: un povero cristo se ne sta tornando tranquillamente a casa e qualche pazzo squilibrato, che magari non ha neanche la patente, lo mette sotto. Addio, fine di tutto: gli venivano i brividi solo a pensarci.

    Sul corso, rispetto alla strada appena fatta, c’erano ancora più vento e più polvere. Il silenzio, invece, era uguale. Era la controra, e molti, certamente, riposavano.

    Molti sì, ma che riposassero tutti gli sembrò strano. Le tre vetrine del Bar del Corso, solitamente aperte, erano chiuse. Anche i negozi davanti alle case più vecchie, quelli che restavano sempre aperti perché i proprietari abitavano nei cortili retrostanti, avevano le porte serrate. Avviandosi verso casa sua, Mario vide chiusi anche i portoni dei cortili affacciati sulla strada e le finestre dei piani bassi.

    C’era qualcosa che non andava. Nella mente gli squillò un campanello d’allarme, ma era troppo stanco e turbato per la storia dell’auto per pensare lucidamente in pochi istanti.

    Dopo un centinaio di metri, quando gli mancava ancora meno di mezzo chilometro per arrivare a casa, cominciò a capire. Di colpo, smise di pensare al pericolo che aveva corso poco prima.

    Era già accaduto. Una volta, diversi anni prima, mentre lui era a scuola. Tornando, aveva intravisto per strada un’auto crivellata di colpi e un lago di sangue sull’asfalto. Intorno alla strada, tutti i portoni e i negozi erano chiusi. In un’altra occasione, più recente, suo padre si era ritirato precipitosamente a casa, chiudendo il portone con il chiavistello: dopo poco si era udita una successione di colpi, simili a quelli dei cacciatori ma più vicini e numerosi; a questa, era seguita una serie di urla, soprattutto femminili, che era cessata parecchio tempo dopo l’arrivo delle sirene della polizia.

    La strada vuota aveva un significato preciso: qualcuno aveva passato la voce di un imminente regolamento di conti. Chiunque si fosse azzardato a farsi trovare in giro, avrebbe rischiato di beccarsi una pallottola vagante, perché gli assassini sparavano all’impazzata, o un colpo alla nuca quale testimone scomodo.

    Il primo istinto fu di mettersi a correre verso casa, per sparire all’interno del portone prima che si scatenasse l’inferno. Mario percorse a gambe levate metà del percorso, poi un pensiero lo bloccò sul marciapiede.

    I suoi non sapevano che doveva tornare. Il portone sarebbe stato chiuso, sbarrato come tutti gli altri, e, anche se avesse bussato, nessuno gli avrebbe risposto, nessuno gli avrebbe aperto. Sarebbe rimasto lì fuori, allo scoperto, perfettamente visibile.

    La paura lo bloccò per qualche istante, poi gli venne in mente un’altra soluzione: doveva tornare verso la stazione, buttarsi tra i campi. Lì non lo avrebbe visto nessuno; poi sarebbe potuto tornare in paese: dopo, quando tutto sarebbe già finito.

    Si voltò e riprese a correre, ma fece solo pochi metri. Di fronte a lui, da una strada laterale, preceduta da un rapido rumore di passi, spuntò fuori una figura a piedi: un ragazzo bruno, vestito con ricercatezza, con un orecchino di brillanti e i capelli tenuti su dal gel. Veniva verso di lui, correndo alla massima velocità che gli consentivano i mocassini di cuoio; aveva gli occhi sbarrati e ansimava. Mario non ricordava di conoscerlo, ma non gli era neppure del tutto nuovo. Forse era uno che si vedeva spesso di sabato e di domenica, mentre faceva lo struscio per il corso insieme a una bella ragazza bruna oppure al volante di una Golf coupé nera. Di sicuro, non si trovava lì per caso. Che ci fosse in giro un passante, poteva anche essere: ma due no, era impossibile.

    Quel tipo doveva essere la vittima designata, il morto che camminava.

    Mario non avrebbe mai pensato di poter correre così svelto: evidentemente, le marce erano state un buon allenamento. Ora non aveva più una direzione, correva e basta. Più lontano si trovava da quel ragazzo, più aumentavano le sue speranze di salvarsi, che adesso erano zero. In breve, lo distanziò: se ne accorse appena voltò la testa indietro, subito dopo aver superato il portone di casa sua.

    Ma vide anche un’auto che si immetteva sul corso, dalla stessa strada da cui era uscito il ragazzo. Se lo avessero visto, sarebbe stata finita davvero. Non ci pensò neppure per un istante, e svoltò nella prima traversa laterale.

    Fu un errore, e anche una sorpresa. Mario non poteva aspettarselo, ma si trovò di fronte un’altra auto che arrivava, a meno di venti metri. Nell’auto, c’erano almeno tre uomini: quello che era accanto al conducente, stava mezzo sporto fuori del finestrino, con una pistola in pugno.

    Mario fece dietrofront, prima che potessero sparargli, e ritornò sul corso. Il ragazzo era quasi arrivato alla sua altezza, e l’altra auto lo aveva quasi raggiunto. Mario cercò disperatamente un posto qualunque per nascondersi: una rientranza, una scala, un’ombra... Non c’era nulla. Non c’era nessuna speranza. Si trovò contro il muro, paralizzato dalla paura. Ormai non riusciva più neanche a pensare.

    Appena l’auto che arrivava dalla traversa laterale svoltò nel corso, il ragazzo che correva scivolò e cadde sul marciapiede, proprio davanti a Mario. Le due auto si fermarono: due uomini armati scesero da esse e si avvicinarono al ragazzo, uno davanti e uno da dietro.

    Il ragazzo, che era caduto bocconi, si sollevò sulle braccia: ansimava affannosamente. Mario ne incontrò per un istante lo sguardo vuoto, assente. Poi il ragazzo aprì la bocca, ma riuscì solo a emettere un urlo strozzato. I due uomini armati gli spararono addosso una decina di colpi, quasi a bruciapelo.

    Poi si voltarono verso Mario e lo guardarono. Avevano due facce torve, da bruti senza pietà. Mario chiuse gli occhi e scivolò per terra.

    Gli sembrò che il tempo si fosse fermato.

    Poi udì i motori ripartire, aprì gli occhi e vide che le due auto si allontanavano.

    Restò lì, accasciato sul marciapiede, vicino al cadavere crivellato di colpi del ragazzo ucciso, per chissà quanto tempo. Non poteva credere a quello che era successo. Non lo avevano ammazzato. Lui aveva visto tutto, aveva visto le loro facce, eppure lo avevano risparmiato. Non poteva essere vero. Se glielo avessero raccontato, non ci avrebbe creduto. Ma ora doveva crederci per forza, perché era successo davvero. Era successo a lui.

    Poi, di colpo, la strada si animò. La gente cominciò a uscire da ogni angolo. Qualcuno si mise a gridare. Altri si avvicinarono: tra questi, Mario riconobbe due suoi amici, Enzo e Ciro.

    Gli vennero le lacrime agli occhi. Enzo e Ciro, due amici da sempre. La vita ricominciava. La vita non era finita: questa era l’unica cosa importante. Si alzò e corse loro incontro.

    «Enzo! Ciro!», chiamò.

    I due lo ignorarono e passarono oltre, senza neppure guardarlo.

    Il cadavere di Mario Bonanno fu rinvenuto tra i campi, subito dopo la curva lungo la strada che conduceva alla stazione di Casaturo. La scoperta fu compiuta, quasi per caso, da un’auto della polizia accorsa in paese dopo l’omicidio del pregiudicato Ciro Astone, detto ‘O Ballerino.

    Mario Bonanno, che giaceva bocconi e aveva ancora lo zaino sulle spalle, era morto sul colpo, in seguito a un violento urto, presumibilmente ricevuto da un’automobile che correva ad alta velocità. In un primo momento i poliziotti pensarono che Mario fosse stato investito dall’auto degli assassini durante la fuga di questi; ma, più tardi, scoprirono che gli assassini si erano allontanati in un’altra direzione.

    I passi

    La mia improvvisa partenza non è dovuta a un attacco di follia. All’arrivo, se mai ci sarà un arrivo, potrò spiegarlo personalmente: ma il viaggio si prospetta ancora abbastanza lungo e temo che possa ancora succedere qualcosa. Ho sempre pensato che non sarei mai stato creduto se avessi raccontato la mia storia e perciò l’ho sempre tenuta per me, ma adesso me ne importa poco. Nel caso dovesse verificarsi l’eventualità peggiore, ho da tempo messo per iscritto l’intera mia esperienza, porto sempre addosso due buste contenenti le due copie che ho fatto: su di esse c’è scritto che, quando qualcuno le troverà nelle mie tasche, dovrà recapitarle ai miei figli.

    Ieri sera, verso le undici, mi apprestavo a coricarmi, come al solito. Da quando sono rimasto solo, non mi piace molto guardare la televisione: farlo, mi ricorda l’assenza di mia moglie, che era solita starmi accanto sul divano del soggiorno, mentre passavamo le serate a guardare qualche film o qualche sceneggiato. Ci piacevano moltissimo ma, da quando non posso più parlarne con lei, non mi interessano più. Al massimo, seguo qualche evento sportivo, ma anche quelli finiscono per stancarmi abbastanza rapidamente. Perciò, preferisco aspettare il sonno ascoltando la radio, nella stanza da letto anziché nel soggiorno.

    Era appunto ciò che stavo facendo, prima di mettermi in pigiama, seduto nella poltrona che tengo accanto al letto per riposare, anche di giorno, senza distendermi e dormire poi troppo, per poi risvegliarmi pieno di dolori alla schiena. Un’emittente locale, Radio Nostalgia, trasmette un programma di vecchie canzoni che seguo assiduamente: mi aiuta a rilassarmi, perché mi riporta alla mia giovinezza. Poiché è trasmesso in diretta e gli ascoltatori possono telefonare per chiedere di trasmettere un pezzo, sono stato spesso tentato di chiamare anch’io, ma non me la sono mai sentita di farlo. Ciò non toglie che anche i pezzi scelti dagli altri mi piacciano. Dopo averlo ascoltato, a volte, sogno di essere tornato a quei tempi e, il mattino dopo, mi sveglio di un umore molto migliore del solito.

    Ieri sera, però, non era destino che dovessi ascoltarlo. Un rapido comunicato mi annunciò che, poiché il conduttore aveva avuto un problema, il programma non sarebbe andato in onda. La cosa rappresentò per me una delusione inaspettata, così come fu inaspettata la mia reazione alla notizia. Ci sono altre emittenti e altri programmi che ascolto volentieri, ma adesso non avevo voglia di ascoltare nulla. Spensi la radio e restai lì, circondato dal silenzio.

    Non mi sarei addormentato, se pure mi fossi ugualmente coricato, prima di un’ora, un’ora e mezza. Conosco i miei ritmi. Forse era il caso di andare di là a guardare un po’ di televisione. Se solo ci fosse stato qualcosa di vagamente interessante.

    Mentre pensavo questo, li sentii. All’inizio, provai a dirmi che venivano dal piano di sopra, ma già sapevo che non era così. Quelli del piano di sopra hanno la moquette e i passi sul loro pavimento suonano sempre ovattati. Questi invece erano passi secchi, nitidi ma non molto forti. Non il suono che ci si aspetterebbe da un passo normale, con il tacco sul pavimento. No, era qualcosa di molto più simile al battito per terra di un ramo di legno. Oppure di un osso. Non sembravano vicinissimi: più che da casa mia, sembravano provenire dal pianerottolo.

    Sapete, io questo suono lo conosco benissimo, perché l’ho sentito diverse volte.

    La prima volta fu tanto tempo fa. Allora, avevo sedici anni e andavo ancora a scuola. Vivevo con la mia famiglia, nella casa che era stata dei miei nonni paterni, a Capodimonte. C’era anche mia nonna con noi. Non era vecchissima, aveva passato da poco i settant’anni, e fino a pochi giorni prima aveva goduto di una salute eccellente. Poi però era stata costretta a letto da quello che inizialmente era sembrato solo un attacco influenzale. Il medico era venuto a casa, l’aveva visitata, aveva prescritto qualcosa e ci aveva detto di stare attenti ai colpi d’aria, ma senza preoccuparci più del necessario. La nonna si sarebbe rimessa in una settimana al massimo.

    Invece, la settimana stava per scadere e la nonna non si rimetteva. Non stava né meglio né peggio. La febbre non le era mai salita oltre un certo livello, ma non era neanche andata via. Si abbassava dopo che prendeva le medicine e, appena finito l’effetto di queste, risaliva. Gli altri sintomi erano rimasti sempre uguali, senza passare né aggravarsi. Di notte la sentivo respirare con un po’ di sforzo e a volte tossire. Non aveva quasi fame e dovevamo sempre insistere perché mangiasse qualcosa.

    Quella notte, andai a letto come sempre, nella stanza che dividevo con mio fratello. L’indomani avevamo la scuola e ci toccava alzarci presto. Mio fratello si era addormentato subito, come sempre, mentre io ero rimasto sveglio per qualche tempo. Non mi preoccupavo più di tanto per la nonna, quell’anno l’influenza l’avevamo avuta tutti e ne eravamo usciti bene. Pensavo ad altre cose. Al compito di matematica per il quale avevo studiato, ma senza essere del tutto certo di essere preparato. Alla ragazza che mi sarebbe piaciuto incontrare sia all’entrata sia all’uscita, anche se non ero affatto sicuro che avrei avuto il coraggio di parlarle. Alla possibilità di fare una partita di pallone in piazza con i miei compagni, nel pomeriggio, se ci fossimo spicciati a fare i compiti. Non so esattamente quanto tempo passò, nella casa silenziosa, prima che mi addormentassi. Ma ricordo con certezza che, mentre ero ancora sveglio, qualcuno passò nel corridoio, e non era mio padre, perché non erano i suoi passi pesanti che facevano quasi tremare il pavimento; e nemmeno mia madre, che invece avrebbe battuto a terra i tacchi delle ciabatte in modo inconfondibile, o mia sorella, che aveva il singolare vizio di strusciare le pantofole sul pavimento quando camminava in casa, come se avesse avuto paura di perdere l’equilibrio sollevando i piedi.

    Era un passo secco e leggero, come se qualcuno stesse percuotendo il pavimento del corridoio con un ramo di legno. O un osso, ma questo lo pensai solo molto tempo dopo.

    Il mattino dopo, la nonna era morta. Mio padre, alzandosi presto per andare al lavoro, la trovò riversa sul letto, con le coperte scostate, come se avesse voluto alzarsi e andare verso la finestra. Il medico disse che il cuore aveva ceduto e che era stata una cosa piuttosto rapida, anche se la smorfia sulla sua faccia faceva pensare al contrario; ma, come ci disse un altro medico, spesso l’attacco cardiaco, anche se rapido, può essere doloroso.

    Se devo essere sincero, quella volta non pensai che i passi potessero significare chissà cosa. Potevano spiegarsi in molti modi. Potevano anche provenire dal piano di sopra, o dall’appartamento accanto. In quel momento, non rappresentavano una cosa importante.

    Non ci pensai più, per oltre venti anni. Per l’esattezza, ventiquattro.

    In quei ventiquattro anni accaddero molte cose. Terminai gli studi e mi misi a lavorare, trovai un ottimo impiego come tecnico all’Acquedotto. Poi conobbi mia moglie, che faceva la segretaria in uno studio commerciale: dopo quattro anni di fidanzamento, ci sposammo. Prendemmo casa ai Colli Aminei, dove siamo sempre rimasti. Nacquero mia figlia e mio figlio. La vita quotidiana presentava sempre i suoi problemi, ma non avevamo ragioni per lamentarci di nulla. Le cose ci andavano discretamente. Abitando non distante dai miei genitori, andavo a trovarli regolarmente. Mia sorella e mio fratello, invece, erano andati a lavorare fuori, lei a Verona e lui a Torino, e ci vedevamo soltanto nei periodi festivi.

    Fu proprio perché mia sorella e mio fratello non erano in zona che occuparmi dei miei genitori, quando mio padre si ammalò, ricadde interamente sulle mie spalle. La cosa mi pesava solo fino a un certo punto: mio padre mi aveva sempre aiutato in tutti i modi e il pensiero di abbandonarlo nel momento del bisogno non mi sfiorò neppure; mia madre era ancora abbastanza attiva e poteva essermi di aiuto in molte cose; mia moglie, nonostante avesse anche lei i suoi impegni di lavoro, si assunse senza fare storie la responsabilità di pensare da sola ai figli, quando io ero troppo occupato.

    La malattia di mio padre richiese un tempestivo intervento chirurgico, in occasione del quale fummo raggiunti anche da mia sorella e mio fratello, che pure avevano incontrato grandi difficoltà a farsi mettere in ferie a febbraio. I loro giorni a disposizione erano pochi, e furono costretti ad andarsene prima ancora che mio padre fosse dimesso. Peraltro, il decorso post-operatorio stava andando bene e non sembravano esserci problemi di nessun tipo. Pochi giorni dopo la ripartenza dei figli, mio padre poté tornare a casa.

    La convalescenza non si presentava come una cosa semplice, ma sarebbe stata una strada in discesa. Man mano che mio padre tornava autonomo, avrei potuto restituire alla mia vita di prima tutti gli spazi che ero stato costretto a toglierle. Forte di questo pensiero, la sera delle dimissioni di mio padre, mi trattenni qualche tempo in più in soggiorno, a guardare la televisione. Negli ultimi giorni, mia madre era passata per un vero tour de force intanto che preparava la casa al rientro di mio padre, e adesso era vistosamente stanca. Le proposi di dormire nella mia ex cameretta, in cui avevo trascorso tutte le notti che ero rimasto a dormire lì, mentre io sarei rimasto con mio padre, per somministrargli i farmaci che doveva prendere a mezzanotte e alle sei del mattino.

    Dunque, con mio padre che riposava a letto, dopo la cena molto frugale che avevamo diviso intorno alle sette, mia madre andò a coricarsi alle otto e mezza. Per me era decisamente troppo presto: pensai non sarei mai riuscito ad addormentarmi prima delle undici e non ne sarebbe valsa la pena, tanto più che a mezzanotte la sveglia mi avrebbe tirato fuori bruscamente dal sonno. Magari potevo resistere fino a mezzanotte e farmi tutto un sonno ininterrotto per le sei ore successive.

    Invece, complice un film noiosissimo, a metà serata mi addormentai anch’io, seduto sul divano.

    Inizialmente, pensai che fosse una specie di incubo. Toc toc toc, facevano i passi, e al mio orecchio avevano qualcosa di familiare, anche se non pensavo più da tantissimo tempo alla notte in cui era morta mia nonna. Poi aprii improvvisamente gli occhi, mi ritrovai sul divano, davanti al televisore acceso che trasmetteva un telegiornale, e li sentii nitidissimi, lì nel corridoio. Non era certo mio padre e nemmeno mia madre, di questo ero certo. Nessuno poteva essere entrato, perché porte e finestre erano chiuse e bloccate. Guardai l’orologio: era mezzanotte meno un quarto. Mi alzai per andare a vedere cosa stesse facendo quel rumore ma, quando vi arrivai, i passi cessarono.

    Forse era stata solo suggestione, mi dissi. Ma, intanto, vista l’ora che si era fatta, era meglio cominciare a preparare la medicina per mio padre, in modo da dargliela qualche minuto prima e trovarmi già a letto alla mezzanotte. I farmaci erano nella stanza da letto, sul suo comodino. Cercando di essere delicato, per svegliarlo il più dolcemente possibile, entrai nella stanza e accesi la luce.

    Mio padre era voltato verso la porta, con gli occhi spalancati. Prima ancora di avvicinarmi e toccarlo, seppi che era morto.

    In ospedale, poi, ci dissero che il rischio di un’embolia, in casi come il suo, non era affatto raro e che il trattamento farmacologico poteva ridurre significativamente il rischio, ma non azzerarlo del tutto.

    Il pensiero dei passi che avevo udito, unito al ricordo dell’occasione in cui era morta la nonna, mi riempiva di angoscia. Cosa potevano significare? Poteva trattarsi di una coincidenza? E, in caso contrario, cosa rappresentavano?

    Mi sentivo stupido a pensarci. Nessuno aveva mai parlato di nulla del genere. Dentro di me sapevo che, se ne avessi parlato in giro, ci avrei fatto solo la figura di uno che non stava bene con la testa. Perciò, benché quelle domande non smettessero di tormentarmi, tenni tutto per me.

    Mia madre venne a vivere da noi. Non era in grado di rimanere da sola, innanzitutto perché già non stava molto bene e poi perché era sempre meno lucida. La perdita di mio padre era stata un colpo terribile per lei. Vendemmo la loro casa e dividemmo equamente il ricavato in tre con mio fratello e mia sorella.

    Mia madre visse ancora tre anni e se ne andò, d’inverno, una mattina presto, quando il sole doveva ancora sorgere. Io ero già in piedi e mi stavo vestendo per andare al lavoro mentre mia moglie, che sarebbe uscita un po’ dopo di me, stava preparando la colazione ai ragazzi, che erano ancora a letto. Mentre mi allacciavo una scarpa, sentii di nuovo i passi nel corridoio. Identici alle due volte precedenti.

    Mi affacciai dalla porta e non vidi nessuno. Chiamai mia moglie, le chiesi se avesse sentito qualcosa pure lei e mi rispose di no. Mia figlia si affacciò dalla porta della sua stanza e mi chiese cosa stesse succedendo. Senza pensarci oltre, spalancai la porta della cameretta in cui dormiva mia madre. Era a letto, distesa su un fianco, con la faccia rivolta al muro. A prima vista, sembrava dormire tranquillamente. Restai qualche istante con il fiato sospeso, cercando di cogliere il movimento del respiro. Poi mi precipitai su di lei. Era immobile. Sembrava che stesse dormendo ma non respirava.

    Chiamai un’ambulanza. Cercarono di rianimarla ma senza nessun risultato. Non la portarono neppure in ospedale. Dissero che aveva appena avuto un arresto cardiaco.

    Dopo il funerale, chiesi prima a mia moglie e poi a mia figlia se avessero sentito qualcosa in corridoio. Entrambe mi risposero che avevano sentito soltanto me.

    Dovevano passare ancora venticinque anni, prima che sentissi di nuovo i passi in corridoio. Nel frattempo entrambi i miei figli terminarono gli studi, si misero a lavorare e se ne andarono a vivere per conto loro, entrambi lontano da noi, uno a Firenze e l’altra a Bologna. Andai in pensione, dopo quarant’anni esatti di servizio.

    Mancavano pochi anni alla pensione di mia moglie, quando fui costretto a trascorrere un periodo lontano da casa. Mio fratello, che viveva da solo in provincia di Torino dopo aver divorziato, fu costretto a ricoverarsi in una clinica per un intervento abbastanza impegnativo, non tanto per la gravità del male, quanto per le sue condizioni generali. Più grande di me, aveva passato i settanta ed era stato sempre un forte fumatore e un mangiatore disordinato.

    Il suo unico figlio, militare di carriera, era di stanza in Friuli e non poteva stargli accanto durante la degenza, quindi toccava a me. Lo raggiunsi senza perdere tempo. In tutti gli anni che avevamo trascorso lontani, i nostri rapporti erano rimasti sempre buoni: ci sentivamo regolarmente e, ogni volta che avevamo la possibilità di incontrarci, eravamo sempre felici di sfruttarla. Lo stesso accadeva anche con mia sorella: eravamo sempre stati una famiglia molto unita.

    Mia sorella doveva raggiungerci insieme al marito nei giorni immediatamente successivi all’intervento, mentre mia moglie non aveva la possibilità di spostarsi perché non l’avrebbero mai lasciata andare in ferie. La clinica era molto confortevole, dotata di un bel parco in cui si potevano portare i pazienti a passeggio. Potevo dividere la stanza con mio fratello. C’era un piccolo ristorante annesso, da cui potevo farmi servire i pasti in camera per fargli compagnia. Il personale era competente e cortese. Il chirurgo aveva un ottimo curriculum, eravamo fiduciosi. Ciò nonostante, non vedevo l’ora che ce ne tornassimo a casa, lui sano e io senza pensieri. In certi casi, non si è mai abbastanza pessimisti.

    Il mio cellulare non aveva quasi per niente campo nella stanza di mio fratello: perciò, quando volevo parlare con mia moglie, dovevo andarmene altrove. Il posto che preferivo era nel salone del piano terra, quello in cui i pazienti non ricoverati e i loro accompagnatori aspettavano durante l’orario delle visite. Di mattina era pieno di gente, nel primo pomeriggio ce n’era di meno e, dopo una certa ora, si svuotava del tutto. Di sera si stava davvero in santa pace.

    All’inizio, ci furono da fare solo diversi accertamenti. Due sere prima dell’intervento, dopo aver cenato insieme, aiutai mio fratello a mettersi a letto e guardammo un po’ di televisione. Inutile dirlo, man mano che il momento si avvicinava, eravamo sempre più nervosi ed evitavamo di parlarne. Non parlavamo nemmeno di quello che avremmo voluto fare dopo. Sembrava che avessimo voglia solo di ricordare il passato, tutto quello che avevamo fatto insieme, le conoscenze comuni.

    Poi scesi nel salone, come sempre, per chiamare mia moglie e darle la buonanotte. Parlammo forse un quarto d’ora, non di più. Me ne tornai di sopra senza fretta, percorrendo i corridoi deserti.

    Ero vicino al reparto, quando mi accorsi che si sentiva un altro rumore, oltre a quello dei miei passi. Mi fermai e tesi l’orecchio. Mi si gelò il sangue quando riconobbi il suono dei passi secchi e leggeri che avevo già sentito le altre volte, e partii subito di corsa verso la stanza di mio fratello.

    Lo trovai a letto, come l’avevo lasciato, ma tutto scomposto, con gli occhi spalancati e la bocca aperta. Chiamai l’infermiera di notte, che accorse immediatamente, e subito dopo di lei arrivò anche un medico. Trasportarono mio fratello nell’ambulatorio del piano e mi chiusero fuori.

    Quando ne uscirono, qualche minuto dopo, sapevo già cosa dovevano dirmi.

    Continuai a non parlarne con nessuno. Ero certo che nessuno mi avrebbe creduto. L’infermiera di notte aveva detto che il malore di mio fratello era stato così improvviso che lui non aveva fatto nessun rumore, lei aveva sentito solo me che tornavo e che poi andavo a chiamarla.

    Non ne parlavo con nessuno, ma non smettevo di pensarci. Il tempo passava e ogni sera tendevo l’orecchio al corridoio. Feci questo per tredici anni, senza che accadesse mai nulla.

    Poi dovetti cominciare a preoccuparmi di altre cose. Anch’io non stavo bene. L’età c’era tutta e la buona salute non poteva durare in eterno. Finì che anch’io ricevetti una diagnosi tale da comportare l’obbligo di un intervento chirurgico abbastanza serio, nonostante i medici mi rassicurassero che le cose sarebbero andate bene.

    Avevo messo in conto la possibilità che succedesse il contrario, e mi stavo abituando all’idea. La necessità di preoccuparmi di problemi reali non lasciava più spazio alla preoccupazione di sentire di nuovo quei passi in corridoio.

    Mi diedero una data per il ricovero. La sera prima che entrassi in ospedale, mia moglie ed io ci coricammo un po’ prima, perché l’indomani ci saremmo alzati presto e poi sarebbe stata una giornata impegnativa. Lei, come sempre, si addormentò subito. Io ci misi un po’ di più.

    Nel buio, cercavo di non pensare a nulla. Una notte in bianco sulle spalle avrebbe solo reso tutto ancora più difficile.

    Sentii di nuovo quei passi. Li riconobbi subito.

    Dunque, pensai, non sarei stato nemmeno operato. Se questo doveva essere il mio destino, non aveva senso opporsi. Mi voltai sul fianco che preferivo e chiusi gli occhi. Che almeno fosse una cosa rapida, non chiedevo altro.

    Invece, mi addormentai soltanto.

    Quando suonò la sveglia, innanzitutto pensai di aver avuto un incubo. Poi

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