Il lato oscuro
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La ragazza nera conoscerà l’anima buia di questa famiglia e dovrà superare una prova tremenda. Ne uscirà segnata per sempre ma sarà l’inizio di una nuova vita.
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Book preview
Il lato oscuro - Patrizia Graglia
Scusami per ieri. Non sono stata gentile con te.
Izengbe sollevò gli occhi dalla tazza della colazione e li posò sulla donna massiccia che le stava di fronte.
Ma no, non preoccuparti.
Ma sì, invece. Ti ho guardata come se avessi visto un leone!
Sorrisero, tutte e due divertite.
Sì, era vero. Aveva spalancato gli occhi come se avesse visto entrare nella sua cucina qualcosa di impossibile. Molto più impossibile di un leone.
Avrai pensato che ce l’ho con la gente come te.
Ma no…
È che ero stupita. Stupitissima! Nessun nero ha mai lavorato per questa famiglia.
Fece una pausa e la fissò con i suoi piccoli occhi pungenti.
Di sicuro non da quando ci lavoro io. E sono passati anni… tanti anni.
Izengbe osservò la trama di grinze sulle braccia tornite della cuoca e pensò che tutte quelle rughe dicevano molto più di mille parole. Doveva avere già una certa età quella donna. E non c’era dubbio che avesse lavorato tanto, lo diceva tutta la sua persona che non aveva mai fatto la vita della signora.
Ma tu figurati se io posso avercela con la gente di colore… Io!
Allungò le braccia in avanti, come per fargliele guardare meglio.
"Io che il rassismo l’ho vissuto sulla mia pelle!"
Erano passati tanti anni ma la pronuncia ispanica si faceva ancora sentire.
Vedi che non sono bianca? Sono solo meno colorata di te!
Si guardò il dorso delle mani allargando le dita a ventaglio.
Ma non è un colore che si confonde con l’abbronzatura, vero?
Izengbe scoppiò a ridere. Stava dicendo cose molto serie la cuoca, ma lo faceva con il sorriso sulle labbra. Un sorriso pieno di ironia.
"E così per tutti sono rimasta la sudamericana. Ancora oggi, dopo tutto questo tempo, sono sempre una sudamericana… Ma tu lo sai quanti paesi ci sono nel Sudamerica?"
Izengbe ci pensò per un attimo. Ripensò alle carte geografiche appese alle pareti della capanna dove aveva fatto i primi anni di scuola con una trentina di bambini analfabeti come lei.
Non so, non ricordo bene… saranno almeno dieci.
"Dodici. Sono dodici. E io sono nata nel Perù. Sono peruviana prima di essere sudamericana. Ma secondo te qui qualcuno se lo ricorda? E fuori di qui a qualcuno gliene importa?"
Scosse la testa rassegnata.
E tu? Da dove vieni tu?
Izengbe veniva dal Ruanda.
Il Ruanda era la terra dov’era nata ed era la terra dove riposavano le ossa dei suoi genitori da quando aveva compiuto il secondo anno di età.
Genocidio. Pulizia etnica. Massacro. Erano questi i nomi di quell’esplosione del male che aveva spazzato via quasi un milione di persone tra la sua gente. Anche suo padre e sua madre.
Forse anche i loro corpi fatti a pezzi erano andati a colorare di sangue i fiumi della regione.
Non ne era sicura, non sapeva se gli avessero sparato o se li avessero trucidati a colpi di machete. Aveva sentito tanti, troppi racconti di quelle orribili mutilazioni, di quella furia omicida che non aveva risparmiato neanche i bambini, e a un certo punto non aveva più fatto domande. Non aveva più voluto sapere.
La tua mamma e il tuo papà sono volati in cielo
, le aveva detto un giorno una delle suore che erano diventate la sua famiglia. E adesso ti guardano da lassù
. Si chiamava Suor Celestina ed era la suora che più di tutte l’aveva amata. Gliel’aveva detto convinta, guardandola con i suoi grandi occhi azzurri pieni di luce, e lei nella sua mente di bambina aveva cercato di immaginare quel volo senza ritorno di una donna e di un uomo di cui non aveva ricordi.
Non le era rimasto proprio niente di mamma e papà. Niente se non l’eco lontana di una ninnananna. Le era sembrato di riconoscerla sentendola cantare da una giovane madre al suo bambino. Ma non era stato esattamente un ricordo. E forse era meglio così, era meglio non ricordare.
Quel giorno Izengbe aveva preso la mano forte e asciutta di Suor Celestina e nella sua stretta morbida e rassicurante aveva sentito una sorta di calore materno. Aveva capito che nella vita non era sola perché quella donna le voleva bene e si sarebbe presa cura di lei. E non si era sbagliata.
Quell’esile creatura che camminava leggera su questa terra, così leggera da sembrare fatta per camminare sulle nuvole, non se n’era volata via e la sua mano l’aveva stretta ancora tante volte. L’ultima a Roma, nella piccola stanza dove la suora, giunta al termine di un lungo cammino, aveva esaurito il tempo che le rimaneva da vivere stesa su un letto.
L’aveva sorpresa l’energia con cui quel mucchietto di ossa si era raccolto attorno alla sua mano. Gliel’aveva presa guardandola con gli occhi che le brillavano di una luce intensa, ancora più intensa di quella che era solita accenderle lo sguardo, come se tutto il suo spirito nell’attesa di spiccare il volo si fosse concentrato lì.
Hai visto, Izengbe?
le aveva detto con un filo di voce Ce l’abbiamo fatta.
Sì, madre
aveva risposto lei Ce l’abbiamo fatta
.
Quando Suor Celestina l’aveva portata con sé a Roma Izengbe aveva ventisei anni appena compiuti. Pochi mesi dopo la suora si era spenta nel suo letto, nella casa che aveva condiviso con le sorelle missionarie e che era diventata anche la casa di Izengbe. Si era congedata con un sorriso che ancora aleggiava sul volto esangue quando Izengbe le aveva dato l’estremo saluto e si era sentita stranamente felice.
Aveva temuto quel momento. Tante volte si era chiesta come avrebbe reagito a quel distacco definitivo. Ma poi era avvenuto tutto come doveva avvenire; era stato facile, come sono facili tutte le cose che appartengono al corso naturale degli eventi. Suor Celestina se n’era andata, ecco tutto. Finalmente aveva raggiunto il suo mondo celeste e forse da lassù l’avrebbe guardata.
Ormai era una donna e poteva farcela anche da sola. Anzi, doveva farcela.
Come le aveva insegnato Suor Celestina, doveva essere il primo punto di riferimento per se stessa: Non si può sempre chiedere agli altri
, le aveva ripetuto tante volte la suora, e neanche a Dio; dobbiamo sempre chiedere a noi stessi prima che agli altri
.
E per metterla nelle condizioni di chiedere anzitutto a se stessa, Suor Celestina le aveva trovato un lavoro. Non un lavoro qualsiasi ma proprio quello per il quale aveva studiato.
L’aveva presentata alla direttrice di una scuola privata, una sua vecchia conoscenza, e senza spendere troppe parole, ma arrivando dritta al punto com’era sua abitudine fare, le aveva detto: Questa ragazza è nata per insegnare ai bambini. Senza il suo aiuto, non so proprio come avremmo fatto laggiù in Africa
.
La direttrice non aveva esitato a manifestare la propria perplessità: un diploma africano non l’abilitava a esercitare l’insegnamento in una scuola italiana; però certo, gli studi li aveva fatti e soprattutto aveva fatto esperienza in un contesto tutt’altro che facile… Perché non metterla alla prova dunque? Se non come insegnante avrebbe almeno potuto inquadrarla come assistente, una parola in sé molto vaga, aveva pensato Izengbe, ma che in effetti si era rivelata la parola giusta per darle una possibilità.
La sua nuova vita di donna indipendente era iniziata così. Da un giorno all’altro aveva cambiato le sue abitudini quotidiane, svegliandosi presto per uscire di casa e andare a lavorare, e con il lavoro erano arrivate quelle responsabilità che la facevano sentire veramente adulta e sicura di sé. E ora era lì, seduta al tavolo di una bellissima cucina di una bellissima villa a consumare la colazione che la cuoca le aveva preparato. Era lì per fare la maestra estiva di una bambina che aveva conosciuto nella sua scuola, una bambina speciale di nome Azzurra.
Poco le importava se un nero non aveva mai lavorato per quella gente. Lei avrebbe fatto il suo dovere, ce l’avrebbe messa tutta e tutto sarebbe andato per il meglio.
Prima di conoscere Azzurra della sindrome di Down non aveva mai sentito parlare. Era stata la maestra di italiano a usare quelle parole precise nel presentarle