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Piume di gabbiano
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Piume di gabbiano

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Durante la conquista dell’Italia meridionale Roberto il Guiscardo decide di mettere fine alle lotte con i signori locali facendo sposare l’amato nipote Cristiano con Angelica, figlia del nobile Feliceti. Ma l’invidia e la gelosia di Ubaldo, cavaliere normanno, e di Guido, amico di famiglia di Angelica, causeranno una serie di eventi violenti che vedranno in campo i saraceni dell’emiro Omar. Trionferà l’amore?
LanguageItaliano
PublisherPubMe
Release dateNov 18, 2020
ISBN9788833666969
Piume di gabbiano

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    Piume di gabbiano - Francesca Rapone

    donato.

    CAPITOLO I

    Un uomo dall’aspetto autoritario, forte e sicuro di sé, su uno stallone, avanzava per un sentiero accidentato di una collina circondata da boschi intricati. Ogni volta che i terreni restavano incolti, crescevano piante spontanee rigogliose a riconquistare ciò che un tempo era stato loro sottratto dalla mano dell’uomo. A fianco cavalcava un giovane di belle fattezze, ma dal cipiglio violento, seguiva dietro una colonna di soldati coperti di rozze vesti e pesanti armature. Erano uomini abituati ad ogni sorta di violenza, rotti alle intemperie, induriti da una vita senza agi e senza pietà, cresciuti alla scuola della violenza. Il sentiero si faceva sempre più sconnesso e gli animali faticavano per la salita.

    «Maledizione, Cristiano, se questa dannata gente mi mette ancora i bastoni fra le ruote, le darò una lezione che non dimenticherà per un pezzo.» Diceva l’uomo che, dalle vesti e dall’atteggiamento, doveva essere un capo. L’altro lo ascoltò annuendo:

    «Snideremo questi pezzenti dai loro nascondigli e li appenderemo per il collo al bastione più alto». Erano giunti finalmente in prossimità di un castello in costruzione che mostrava segni di un attacco recente. Da un lato si levava un fumo nero che non faceva presagire niente di buono. Appena furono avvistati dagli armigeri che erano di sentinella, qualcuno diede voce del loro arrivo e un gruppo di uomini armati si mise in riga in attesa di salutare il loro signore e padrone:

    «Benvenuto, Sire. Siamo spiacenti di non avere ancora completato la costruzione, come ci avevate ordinato» disse uno, inchinandosi profondamente davanti al suo re.

    Roberto il Guiscardo, della famiglia degli Altavilla, di stirpe normanna, era il nuovo padrone di tutta la penisola che andava da Capua a Reggio Calabria. Aveva conquistato quelle terre togliendole ai Bizantini, ma l’imperatore d’Oriente non riconosceva la sua autorità sul territorio italiano che rivendicava per sé. Il Normanno era consapevole che non sarebbe stato un sovrano a tutti gli effetti, se non fosse stato riconosciuto da un’autorità indiscussa. E ciò era indispensabile per la pace.

    Infatti scaramucce continue avvenivano fra la sua gente e gli abitanti del luogo che li consideravano usurpatori. Non era stato sufficiente abbracciare la religione cristiana per avvicinare uomini di stirpe tanto diversa. Bastava un piccolo gesto per dar luogo ad una vendetta ed il sangue scorreva troppo spesso su quelle terre sempre più abbandonate e squallide. Era necessario trovare qualcosa che affratellasse, unisse i due popoli e consolidasse la sua autorità. Solo allora egli sarebbe stato re indiscusso; solo allora ci sarebbe stata la pace. E Roberto cercava quel qualcosa che non fosse il ricorso alla violenza, che non facesse apparire il suo operato come mera punizione.

    Ciò generava odio e l’odio era padre della vendetta. Ora contemplava il maniero che presentava i segni del recente assalto:

    «Cosa è successo?»

    «Sire, questa notte, come altre da un po’ di tempo, siamo stati attaccati. Così non va, non si riesce a completare la costruzione».

    «Cercate di scoprire chi sono i responsabili; chi è che li comanda. Prendete qualcuno del posto e fatelo parlare», disse con un accento d’ira che faceva tremare.

    Ben sapevano i suoi uomini come Roberto poteva essere crudele e spietato, comprensivo e generoso, a seconda delle circostanze. Perciò era temuto e rispettato allo stesso tempo.

    Da mesi si lavorava alla costruzione di una fortezza che avrebbe dominato la piana dell’antica Sibari, un vasto territorio aperto sul mare Ionio e chiusa alle spalle dalle alture del Pollino. In quella zona troppo esposta alle incursioni saracene, Roberto aveva ordinato la costruzione di un castello a difesa del luogo e aveva scelto una piccola collina da dove si dominava l’intera vallata fino al mare. Ma quelle terre erano appartenute da tempo immemorabile ad una nobile famiglia fiera e combattiva che non accettava i nuovi conquistatori. La gente era fedele ad un vecchio signore che, in assenza di un’autorità centrale, si era assunto l’onere e l’onore di proteggerla e di amministrarla.

    Non molto distante, addossato ad un costone roccioso, sorgeva una costruzione rettangolare in pietra, dall’aspetto severo, abitazione della nobile famiglia e tutt’intorno era cresciuto un villaggio di gente laboriosa e fedele. I rapporti tra i Normanni ed i locali erano difficili. Coloro che avevano abitato quei luoghi per generazioni si sentivano i depositari di una civiltà superiore e consideravano i nuovi conquistatori dei barbari ignoranti ed usurpatori. Vedevano in quel castello l’immagine della loro prepotenza e pertanto ne ostacolavano la costruzione.

    «Mettete fine a questa situazione o vorrò la vostra testa in cambio», disse in preda alla collera Roberto, rivolto al capitano delle guardie.

    «Me ne occuperò io stesso, se me lo consenti», intervenne il giovane che gli era accanto e sembrava godere della sua amicizia.

    Cristiano era cresciuto nella casa di Roberto del quale era anche un parente. Un sentimento profondo li legava ed era stato lo stesso Guiscardo a battezzare il nipote cambiandogli il vichingo nome di Erik con quello di Cristiano, più gradito al vescovo e alla chiesa. Infatti il re era ansioso di entrare nelle grazie del Papa, poiché si era reso conto che da lui poteva venire il riconoscimento ufficiale della sua conquista su tutto il Meridione d’Italia. E cercava in ogni occasione di compiacere la Chiesa, aspettando il momento favorevole per ottenere ciò che desiderava. Il Normanno sapeva bene come gli imperatori cristiani erano spesso in contrasto con l’operato del Pontefice e, in cuor suo, avrebbe voluto ripetere le gesta di Carlo Magno, paladino della Chiesa.

    Pertanto Erik, giovane di bell’aspetto, forte, coraggioso e fedele al suo re, aveva cambiato il nome e si era fatto battezzare, anche se non capiva niente di quella nuova religione. Cristiano era il braccio destro di Roberto; in sua assenza lo rappresentava, in battaglia non aveva uguali e soprattutto era disposto a dare la vita per il suo signore ed amico.

    «Andrò io a castigare chi osa ribellarsi alla tua autorità», diceva in tono deciso.

    «E sta bene. Affido a te l’incarico di portarmi in catene l’artefice di queste continue aggressioni», fu la decisione del re.

    E in breve tempo uomini a cavallo scendevano a precipizio lungo il fianco della collina e si gettavano nella vallata sottostante. Appena avvistarono il villaggio, urla selvagge uscirono dai loro petti; occhi iniettati di sangue cercarono tra le casupole qualcuno su cui riversare la loro violenza. Ma non trovarono nessuno. Perciò bruciarono e distrussero tutto quanto era sulla loro strada: case, raccolti, piccoli arnesi, alberi.

    Giunsero poi in vista di una robusta costruzione in assetto di guerra. Cristiano ordinò d’assediarla. Poi tornò indietro con la sua scorta a chiedere rinforzi. Le sue mosse erano state attentamente spiate dalle strette feritoie che erano aperte lungo le mura di cinta del castello nemico. Nell’interno, in un’ampia e gelida sala, si discuteva animatamente:

    «Non condivido la tua posizione, Marco. Uscire per una sortita sarebbe un suicidio. Dobbiamo rassegnarci a patire l’assedio. Controlla i viveri e razionali. Non sarà una cosa breve. Siamo alle strette con i Normanni».

    Si alzò da una sedia a schienale alto un uomo avanti con gli anni; aveva barba e capelli bianchi, di media statura, con un portamento nobile e fiero. Indossava una lunga veste color porpora con larghe maniche e una catena d’oro faceva bella mostra di un medaglione con stemma e pietre preziose, simbolo della posizione che da sempre la sua famiglia aveva esercitato nella zona. Ora era pensieroso e preoccupato per i destini del suo popolo, più che per la sua stessa famiglia. Uomo di antiche tradizioni, considerava l’onore al di sopra di ogni sentimento.

    Francesco dei Feliceti aveva due figli: Marco ormai ventenne, suo unico erede, ed Angelica, la minore, bella e colta, una rarità per quei tempi rozzi. Di animo gentile e generoso, aveva una fertile immaginazione e l’età giusta, secondo i costumi del tempo, per essere maritata dal padre ad un giovane di nobili origini. Francesco guardò i volti dei presenti, dopo qualche minuto, disse:

    «É giunto il momento di considerare l’opportunità di uscire fuori da questa situazione con onore».

    «Con onore! Ma padre, che vuoi dire? Dobbiamo batterci per le nostre terre, le nostre case, le nostre famiglie. Non possiamo diventare schiavi a casa nostra. Meglio la morte!» gridò Marco, cui non faceva difetto il coraggio.

    Alla lunga tavola sedevano vari dignitari della zona e cavalieri dalle splendide armature. Tutti fedeli a Francesco, pronti ad ogni suo cenno.

    «La morte non serve a nessuno. È per vivere che combattiamo. I nostri padri giunsero su queste fertili terre molti secoli fa. È vero, ma le tolsero a chi le abitava prima. Ora i Normanni le tolgono a noi. È la legge della natura. Abbiamo combattuto, ma non abbiamo vinto. Dobbiamo accettare la situazione. Non serve alla nostra gente continuare a uccidere o a farsi uccidere. L’ultimo raccolto è andato perduto. Cosa mangeranno quelli che hanno faticato per coltivare i campi? E a chi giova se lasciamo incolta questa terra? No, Marco. Adesso è giunto il momento di arrendersi». E tacque mentre gli altri si guardavano preoccupati. Il vecchio signore era tenuto in gran considerazione; la sua parola era legge da quelle parti. Un silenzio profondo gravò su tutti per qualche attimo.

    Poi riprese:

    «Tu Marco insieme a Guido e a pochi altri devi andare da Roberto il Guiscardo a chiedergli di parlamentare con me. Forse insieme troveremo una via d’uscita che giovi ad entrambi».

    Il giovane, capelli ed occhi scuri, alto e ben fatto, s’avviò con portamento fiero seguito da un cavaliere che era seduto al suo fianco. Era abituato all’obbedienza e, anche se non condivideva le idee paterne, si mise subito in viaggio per incontrare il capo dei Normanni. Non aveva paura. Si augurava solo che il padre avesse ragione, che il Guiscardo desse loro la possibilità di conservare i privilegi ai quali erano abituati. Il sole stava calando dietro le montagne e le avvolgeva con i suoi raggi in una luce rosata. Un’atmosfera di pace copriva quelle terre e faceva ben sperare.

    Messo al corrente degli ultimi fatti, Roberto stette pensieroso per un po’ e poi esclamò:

    «Accidenti! Distruggere, ancora distruggere! Ma devo regnare su un cumulo di macerie? Una terra così fertile baciata dal sole e dalla pioggia! Una terra che può sfamarci tutti! Bisogna finire di distruggere. Ci deve essere un modo». E tacque, mentre cercava una soluzione al suo problema.

    «Senti, Erik (ogni tanto gli piaceva ricordare le origini della sua gente), perché abbiamo lasciato la terra dei nostri padri? In cerca di qualcosa di meglio. Ora abbiamo il meglio. Questa terra io l’ho sempre sognata. Campi verdi, alberi colmi di frutti, acque limpide e pescose, boschi ricchi di cacciagione ed un cielo limpido ove splende il sole per la maggior parte dell’anno. Tutto sembra un dono degli dei che ci hanno guidati fin qui: il profumo dei fiori e dell’erba, il volo degli uccelli, tutto. Sarebbe un insulto agli dei continuare a distruggere. Io voglio la pace. Devo avere la pace».

    Cristiano lo guardava affascinato: quanta dolcezza in un uomo che sapeva essere duro più del ferro! Ma dovette ammettere che c’era saggezza in quel che diceva.

    Fin da piccolo aveva visto spargere sangue e anche lui avrebbe voluto che tra gli uomini ci fosse qualcosa di diverso dall’odio, dal rancore,

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