Il respiro del mondo
By Laila Cresta
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Romance - romanzo (115 pagine) - Dall’assassinio di un grande musicista si dipana la storia di una incomprensibile persecuzione contro la sua famiglia, finché rimane solo Giulia, la figlia ventenne: ma ha l’amore di Andrea, un “privato” che deve e vuole scoprire l’assassino del M° Sanguineti.
Finito il funerale del padre, il grande Maestro Sanguineti, Giulia fugge nella casa in cui è cresciuta. Nel poggio della Riviera Ligure di Levante su cui sorge la villa però, si è accampato un inatteso ospite: Andrea, un bell’uomo dal fisico aitante che ha dieci anni più di lei. L’atmosfera intorno a Giulia si fa sempre più soffocante, attraversata da una nebbia sanguigna: hanno imbrattato la targa che doveva ricordare il Maestro ai posteri con una grande chiave di violino che pare grondare sangue, hanno praticamente distrutto tutto ciò che era in camera di Giulia, fra carcasse di maiale gocciolanti sangue, appese nella stanza, hanno attentato alla sua vita, rubato tutti i suoi vestiti da sera credendoli della madre. La ragazza può contare solo su Andrea, per riuscire a capire chi sia l’autore di quella persecuzione, e il perché: hanno ucciso suo nonno, sua nonna, suo padre e, infine, è chiara la volontà di uccidere anche lei, che è una pianista eccezionale. Secondo il Maestro: “La musica è il respiro del mondo”.
Purtroppo, però, ci sono persone incapaci di rispettare il talento, la bellezza, e persino l’innocenza.
Per fortuna, però, c’è l’amore a salvare Giulia.
Laila Cresta è nata a Chiavari, Genova, il 14 febbraio 1952. Insegna da 40 anni, con esperienze a vasto raggio, dagli adulti, ai ragazzi, alle persone diversamente abili. Ama la scrittura e vi si dedica da sempre, tanto con testi ad hoc per i “suoi ragazzi”, quanto con testi di svago per tutti. Quest’anno ha pubblicato una silloge di poesie, Di Terra e di Cielo – Romanzo d’amore in versi (La Lettera Scarlatta Edizioni) e il giallo L’albergo del ragno, Arduino Sacco Editore. Dal mitico numero 0, fa parte della Redazione della rivista Writers Magazine Italia, dove si occupa di poesia, di haiku e di recensioni.
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Il respiro del mondo - Laila Cresta
9788825413397
Capitolo I
Quando muore un artista
Com’era ovvio, c’era una vera folla. Si vedevano i gonfaloni dei Comuni di Sestri Levante e di quello di Genova, quello della Regione e quello della Provincia, quello di Roma e quelli di Milano e di Venezia, di Agrigento e di Palermo, di Napoli e di Firenze, insieme a quelli delle più importanti associazioni culturali e musicali, e non solo italiane. C’era una fila di persone di ogni genere: la musica è di tutti.
Naturalmente, non si trattava di un gruppo compatto. Come sempre quando c’è troppa gente, le persone presenti alle cerimonie tendono a riunirsi in gruppi minori, e in sottogruppi: per età, per sesso, per grado di parentela, o anche a seconda del livello di intimità, millantata o reale, coi protagonisti dell’evento. Succede ai matrimoni come ai funerali.
Quella volta poi, era davvero prestigioso farsi vedere lì, il più possibile vicino al feretro: il M° Sanguineti era considerato uno dei musicisti più grandi che ci fossero mai stati, e c’erano perfetti estranei che piangevano disperatamente, davvero sconvolti per quel delitto efferato di cui era stato vittima una delle persone che, secondo i suoi estimatori, erano fra quelle più importanti, per il mondo: un grande artista. Tra l’altro, il Maestro aveva avuto solo quarantaquattro anni, e la sua morte, e tanto più il suo assassinio, parevano davvero un affronto all’intelligenza e all’umanità.
Naturalmente, come sempre, non tutti i presenti si disperavano: per fugare la noia delle celebrazioni, da chi era lì solo per farsi vedere partivano brusii divertiti, e persino c’era chi ridacchiava alle battute di qualche inguaribile buontempone, con la testa bassa e la mano davanti alla bocca per non farlo notare.
Giulia immaginò un banco di proiettili-sardine che si spargevano fra quegli avvoltoi, crivellandoli di fori da cui sgorgava il sangue, a fontanella, finché quelle figure odiose non si sgonfiavano lentamente, come pupazzi da Luna Park, e restava solo una pozza d’acqua sporca.
Del resto, lei era l’unica cui potesse importare davvero di quella morte, forse insieme alla sua ultima amante, una giovane soprano che aveva avuto ben poco tempo per brillare di luce riflessa vicino al M° Sanguineti. La ragazza dovette anche sorbirsi una quantità di necrologi, pieni delle parole di ammirazione e di dolore che ispirava a tutti la morte di quel genio che se ne era andato, lasciando l’umanità orfana di lui, come aveva scritto, col suo linguaggio pomposo e altisonante, un critico sconvolto da quella perdita.
Almeno ai funerali, la gente poteva ben lasciarglielo, no, si diceva lei: era suo padre! Invece, spinta di qua e di là senza tanti complimenti, Giulia faticava perfino a stare vicino al carro funebre.
Pensare che lei era l’unica a essere rimasta orfana davvero. Lo era sempre stata, ma, in quegli ultimi mesi, le era quasi sembrato di esserlo meno: non ricordava nessun altro periodo della sua vita in cui suo padre avesse perso tanto tempo con lei, che non era mai stata niente, per lui. Negli ultimi tempi invece, chissà perché, il Maestro le era stato vicino, l’aveva seguita nei suoi esercizi al pianoforte, l’aveva portata con sé agli eventi cui doveva partecipare: lei alla sua destra, e Daria alla sua sinistra. Beato fra le donne.
Proprio adesso però, qualcuno lo aveva ucciso: lo aveva trovato lei, riverso nella vasca da bagno, completamente coperto dall’acqua, e con un foro di proiettile dritto nel cuore. All’inizio aveva pensato che si fosse sentito male e stesse annegando: prendendolo per le spalle, gli aveva subito tirato la testa fuori dall’acqua, e aveva capito che suo padre era morto. Lo aveva stretto a sé, e si era messa a tremare tanto forte, con un lamento come di cucciolo abbandonato, che solo le urla isteriche di Daria, che era arrivata subito dopo di lei, irritandola fuori misura, l’avevano fatta riprendere dallo shock.
Secondo l’autopsia, il corpo del Maestro era stato invaso da un cancro molto aggressivo: forse, pensava Giulia, era il motivo per cui aveva improvvisamente riscoperto la propria paternità. Data la sua malattia, devastante e senza rimedio, qualcuno all’inizio aveva suggerito che potesse trattarsi di un suicidio, ma gli inquirenti lo avevano escluso: non era molto facile spararsi da soli in mezzo al petto, dritto nel cuore, con la pistola tenuta ben perpendicolare al corpo. E comunque, l’arma non era stata ritrovata.
Se chi l’aveva ucciso avesse saputo della malattia, avrebbe potuto risparmiarsi un omicidio, pensava la ragazza, e se chi ipotizzava il suicidio lo avesse conosciuto, avrebbe saputo che lui non avrebbe mai potuto abbandonare la musica volontariamente: al contrario, sapendosi malato avrebbe lavorato fino all’ultimo dei suoi giorni. Che poi, era quello che aveva fatto. Una volta, sua nonna le aveva detto che suo figlio avrebbe dovuto vivere una vita almeno centenaria, perché potesse essere scalfita la quantità e la qualità della musica che gli suonava nella mente e nel cuore:
− Non credere che non ci ami perché lo vediamo poco. Lui ha un mare di note che gli premono dentro: se non potesse farle uscire, farle volare via fra la gente, esse finirebbero per soffocarlo, e lui si spegnerebbe come una candela. Per tuo padre, scrivere musica è un bisogno, e lui è un genio.
Quando ripensava a queste parole, Giulia si diceva che, chi l’aveva ucciso doveva pagarla cara, per il danno che aveva fatto al mondo, e non solo a lei, che non era niente.
Chi sapeva fosse malato, a parte il suo medico e il personale della clinica che le avevano detto lo vedesse sempre più spesso, per cercare di rendergli la vita più tollerabile, finché lui non avesse accettato di farsi ricoverare?
− Per ricoverarsi, sarebbe stato necessario che nella clinica ci fosse uno Steinway − le aveva detto il Primario, stringendosi nelle spalle.
Di quel male, lei non ne aveva saputo niente, Daria nemmeno, e allora probabilmente nessun amico, nessun collega, erano al corrente della sua malattia. Non si era confidato con nessuno: tutti erano autorizzati a pensare che il Maestro, che era ancora giovane, fosse anche sano, nonostante il suo dimagramento dell’ultimo anno, e allora gli inquirenti pensavano che, per qualche motivo, lui avrebbe anche potuto essere un ostacolo da rimuovere, per l’assassino. O un pericolo da eliminare.
Gli inquirenti non erano convinti che quell’omicidio fosse legato a motivi personali. Quell’uomo non aveva avuto una vera vita privata: per lui, esisteva solo la sua musica, e un po’ di sano divertimento sessuale, perché era vedovo e ancora giovane. Nella sua vita non avevano trovato niente che avesse potuto guadagnargli l’odio di qualcuno: al massimo, si poteva pensare all’invidia di qualche psicopatico, com’era successo a John Lennon con Mark Chapman o (nell’immaginario collettivo) a Mozart con Antonio Salieri. In genere però, assassini di quel tipo, dicevano gli inquirenti, volevano il gesto eclatante che li mettesse al centro dell’attenzione del mondo, non si nascondevano.
Anche le sue giovani amanti, Daria era stata l’ultima, si avvicendavano al suo fianco a una velocità tale da togliere loro ogni valore. Nessuna poteva sperare di sistemarsi nella sua vita, ma, al massimo, di ottenere qualche ingaggio prestigioso frequentando l’ambiente prestigioso in cui lui brillava: il Maestro non si interessava mai direttamente della loro carriera, tanto più quando aveva con loro un rapporto personale. Le donne però impazzivano per lui e per la sua musica, per la sua avvenenza, per la sua intelligenza, e soprattutto per la sua cortesia distaccata, che pareva dire: Giochiamo un po’, ma poi basta. Ogni tanto, naturalmente, c’era stata comunque qualche donna che si era illusa, motu proprio, di arrivare a tenerselo, il Maestro, ma lui chiariva sempre con fermezza che, con lui, si poteva solo giocare: tutti sapevano come lui non avesse più avuto, né voluto, una storia duratura e importante, dopo essere rimasto vedovo vent’anni prima.
In conclusione, secondo gli inquirenti, l’assassino poteva aver colpito non l’uomo, ma l’artista, magari per qualche rivalità professionale: inconcepibile, per i suoi numerosi fan sparsi in tutto il mondo. Erano addirittura riuniti in fan club, come se lui fosse stata una stella del rock, o del pop.
In attesa di costruire un loculo degno di lui in cui accogliere le ceneri del M° Sanguineti, l’urna sarebbe stata conservata nel Cimitero Monumentale di Staglieno, a Genova, nel Tempio delle Cremazioni.
Dopo la cerimonia e i discorsi conclusivi, dopo aver stretto un gran numero di mani estranee, Giulia poté finalmente mettersi al volante, e scappare.
Improvvisamente, invece di andare nell’appartamento in Corso Italia in cui stava al momento, o verso l’aeroporto dove in effetti l’attendeva un volo per New York, la ragazza fece un’inversione di marcia, e indirizzò l’auto verso la riviera di levante. Le valigie erano nel portabagagli, perché lei in teoria avrebbe dovuto andare a New York a esibirsi, e a parlare di lui.
La ragazza però, partita a razzo senza riflettere, aveva saputo quasi subito quale fosse davvero la propria meta: in un certo senso, stava tornando a casa, la casa dei nonni dove era cresciuto suo padre, e in cui era cresciuta anche lei. Dal suo mazzo di chiavi personale, quella della casa sul mare non era mai stata tolta.
Arrivata a Sestri Levante, la sua macchinina elettrica si arrampicò fino a Verici, una frazione di Casarza, poi seguì la direzione indicata da una freccia dipinta che diceva: "La Spinetta – villa Sanguineti".
Arrivò infine al bellissimo poggio a picco sul mare su cui sorgeva la casa: una superficie erbosa, ampia almeno 3 o 4 mila mq, ravvivata qua e là dal verde scuro e un po’ polveroso degli olivi, riuniti in un vero uliveto solo verso i bricchi, le alture, e più sparsi nel resto dell’altopiano. Alla sua manutenzione pensava, in cambio della raccolta di quei piccoli frutti preziosi, un contadino che era stato amico del nonno, e che abitava poco lontano.
Giulia parcheggiò davanti alla porta del garage, ma non scese subito dalla macchina. Non veniva lì da quando i nonni non c’erano più.
La casa era una vecchia costruzione tipicamente ligure, dall’aria nobile. Era molto grande, color mattone, con due file di dieci finestre monofore e bifore, incorniciate di bianco, frutto di vecchi restauri approssimativi: il restauro più recente le aveva rispettate perché il disordine della loro disposizione dava alla casa un tocco particolare, un po’ casual, che contrastava con la sua aria fondamentalmente aristocratica. Su uno dei due lati maggiori della villa, lato mare, due larghe scalinate portavano ai due ingressi: una arrivava all’ammezzato, per andare direttamente nella Sala Concerti, agli spogliatoi e nel salone delle feste e dei convegni, mentre l’altra, cui il nonno aveva fatto mettere un montascale per la nonna, andava al primo piano, dove c’erano la cucina, il soggiorno e la camera dei nonni. Al secondo piano infine, si trovavano la camera del M° Sanguineti, quella di sua figlia, e le camere degli ospiti. Tutti gli ambienti della villa erano molto vasti, ottimamente restaurati, e tenuti con cura. Il nonno l’aveva acquistata per dare al figlio tutto ciò che secondo lui meritava: un luogo che potesse dargli tranquillità e solitudine, e in cui, volendo, dare concerti o fare delle prove.
La villa, in anni di abbandono, si era ridotta in condizioni pietose: il restauro era durato dieci anni e il Maestro ci aveva abitato dai quindici anni, e poi anche con la propria sposa, sia pure per un tempo incredibilmente