Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Come ombre in uno sfondo infinito: cronache di un viaggio nelle Americhe
Come ombre in uno sfondo infinito: cronache di un viaggio nelle Americhe
Come ombre in uno sfondo infinito: cronache di un viaggio nelle Americhe
Ebook252 pages3 hours

Come ombre in uno sfondo infinito: cronache di un viaggio nelle Americhe

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Siamo nel 1949. Gianni Da Col, insieme ad alcuni suoi coetanei, decide di lasciare il luogo dove è nato e cresciuto, un piccolo paesino del bellunese, per fare il grande salto: andare oltreoceano, in Argentina. Come molti italiani dell’epoca, lo fa per cercare un lavoro, ma soprattutto per scommettere su un sogno.
Ciò che si lascia alle spalle, Gianni lo conosce bene: un paese distrutto fisicamente e moralmente sia da una guerra devastante, persa e finita da appena quattro anni, sia da molti conflitti sociali non ancora risolti. Un paese che adesso deve fare i conti con la disoccupazione e la miseria.
L’entusiasmo ritrovato nella nuova Repubblica si scontra, fin dall’inizio, con problemi troppo grandi per essere risolti in tempi brevi, così l’emigrazione rappresenta una soluzione immediata per chi, come Gianni, non se la sente di continuare a credere a promesse troppo spesso disattese. Lui è giovane, e ha tutte le energie per credere nella scelta di partire e nel sogno di una nuova vita.
Inizia così un lungo viaggio, nel quale chi parte si lascia tutto alle spalle: le Americhe sono il Nuovo Mondo, un mondo nel quale credere. Nel caso particolare dell’Argentina, poi, ci sono tutti i presupposti economici, politici e sociali per crederci davvero.
A un certo punto, però, Gianni decide di tornare, nonostante tutto. Le motivazioni di questa sua scelta, che non sono chiare nemmeno a lui, emergono nel lungo viaggio di ritorno, grazie all’incontro con un giornalista, Silvano Pellizzari.
Tra i due si instaura un rapporto molto particolare: i loro discorsi diventano i tasselli di un dialogo che non si limita a registrare i fatti relativi alla permanenza di Gianni nella Repubblica del Plata, ma vanno più a fondo, facendo emergere degli aspetti che segneranno la vita di entrambi.
Quel viaggio in Argentina per Gianni rimarrà l’esperienza più importante nella sua vita; un viaggio che lo ha trasformato, nel quale, come dice Silvano Pellizzari, c’è stato un prima e un dopo. Alcuni sostengono che Gianni in Argentina ci sia tornato, ma molti anni più tardi, come ombra in uno sfondo infinito.
Questo libro è la cronaca di un viaggio in cui la storia di Gianni si confronta con altre storie, che a volte la sfiorano appena, altre volte si intrecciano alla sua, fornendo un quadro d’insieme con risvolti umani molto profondi.
L’Argentina del periodo durante il quale si svolge il racconto, dal 1949 al 1952, è uno sfondo stimolante e unico sul piano sociale, politico e culturale.
LanguageItaliano
Release dateNov 11, 2020
ISBN9791220219655
Come ombre in uno sfondo infinito: cronache di un viaggio nelle Americhe

Related to Come ombre in uno sfondo infinito

Related ebooks

Historical Fiction For You

View More

Related articles

Related categories

Reviews for Come ombre in uno sfondo infinito

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Come ombre in uno sfondo infinito - Giuliano Dall'Ò

    Giuliano Dall’Ò

    COME OMBRE IN UNO

    SFONDO INFINITO

    cronache di un viaggio nelle Americhe

    © 2020 Giuliano Dall’Ò

    Come ombre in uno sfondo infinito

    cronache di un viaggio nelle Americhe

    Proprietà letteraria riservata

    Editing: David Fivoli

    Impaginazione: Giorgia Ragona

    Copertina: Beatrice Spada

    A Gianni

    e alle persone che come lui

    nella loro vita hanno intrapreso un viaggio

    INDICE

    PARTE PRIMA: Andata

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    PARTE SECONDA: Ritorno

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    PARTE TERZA: Epilogo

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    PARTE PRIMA

    Andata

    CAPITOLO 1

    Genova, 23 maggio 1949

    Gianni Da Col aveva ventiquattro anni, ed era appena arrivato al porto di Genova. Il giovane si sentiva frastornato, vuoi per le tante persone presenti, vuoi per il mare che gli stava di fronte, vuoi per quella nave, che a lui sembrava immensa: il piroscafo Santa Fé.

    Quell’imbarcazione ormeggiata nella banchina era l’assoluta protagonista della giornata: di lì a poco avrebbe portato in Sud America lui e tanti altri emigranti, provenienti da ogni angolo d’Italia. Destinazione finale, Buenos Aires.

    Il clima, in quel giorno di fine maggio, era quasi festoso; erano ottocento gli emigranti italiani che avevano deciso di scommettere il loro futuro nelle Americhe, come si diceva a quei tempi.

    Il viaggio inaugurale della Santa Fé risaliva a due anni prima, esattamente al 4 giugno del 1947. In quell’occasione, al porto si erano recati anche Paolo Cappa, ministro della Marina Mercantile, e l’onorevole Giuseppe Lupis, in rappresentanza del ministro degli Esteri.

    Quel giorno del ’47 a Genova c’era perfino una troupe dell’Istituto Luce, pronta a fissare quei momenti nella memoria di tutti. Il cronista si espresse con la tipica voce dei comunicati, propri dell’Istituto: «Porto di Genova, la nave argentina Santa Fé imbarca per Buenos Aires un primo scaglione di lavoratori italiani. Sotto ai vostri nomi sono indicati i mestieri che hanno reso gli operai italiani celebri e desiderati in tutto il mondo; ovunque si ara, ovunque si costruisce!».

    Gli emigranti che stavano per imbarcarsi venivano definiti ambasciatori della volontà di lavorare degli italiani. Il giornalista incaricato delle interviste precisò che il viaggio, benché lungo, sarebbe stato gradevole, ben diverso da quei viaggi della speranza nei quali gli emigranti venivano ammassati nelle stive come animali, senza avere la certezza di arrivare a destinazione sani e salvi.

    La Santa Fé giunse a Buenos Aires il 29 giugno del ‘47, e gli emigranti furono accolti calorosamente dal presidente Juan Domingo Peròn in persona, che così si espresse: «Ricorda che hai davvero una seconda casa su questa terra, dove i lavoratori italiani sono e saranno sempre i benvenuti».

    Il presidente poi aggiunse: «Il tuo arrivo è una benedizione, poiché abbiamo bisogno di nuove armi per rendere il nostro paese più ricco e più felice».

    Ricchezza e felicità erano le parole d’augurio che Peròn aveva indirizzato a chi era giunto in Argentina. Ricchezza, per esorcizzare la povertà in cui versavano la maggior parte degli italiani che avevano intrapreso quell’avventura; felicità, parola che, semplicemente, racchiudeva tutto ciò che una persona potesse desiderare.

    Da quel viaggio inaugurale erano passati due anni e, ovviamene, a salutare gli emigranti al porto di Genova non c’erano più le autorità. In quei due anni la Santa Fé di viaggi ne aveva fatti tanti, basti pensare che solo nel 1949, oltre a Gianni, in Argentina arrivarono poco meno di 100.000 emigranti.

    Per chi partiva, tuttavia, l’imbarco verso il Nuovo Mondo era sempre un evento importante. A volte il più importante di un’intera vita.

    Per Gianni era un’esperienza nuova e sicuramente carica di emozione, ma allo stesso tempo fonte di preoccupazione. Non aveva mai visto così tanta gente tutta in una volta, ed era combattuto tra due sensazioni opposte.

    Non sapeva cosa fosse meglio per lui; lasciarsi trasportare dall’aria festaiola che lo circondava o cedere a quel groppo alla gola per ciò che lasciava: la sua terra, che nonostante tutto considerava la sua Patria, e quelle montagne che per tutta la vita gli avevano regalato un ambiente forse meno festoso, ma senz’altro più rassicurante.

    Al porto di Genova, quel giorno, il ragazzo non era solo: con lui c’erano altri due giovani del suo paese, suoi amici fin dall’infanzia.

    Il primo era Luigi Fant, con il quale Gianni condivideva da tempo il sogno di emigrare per cercare nuovi spazi e nuove opportunità. E poi c’era Piero Canal; dei tre era quello che, mesi prima, aveva lanciato l’idea di fare il grande passo.

    Piero si era informato, e tra le diverse possibili destinazioni l’Argentina sembrava proprio essere la terra promessa che stavano cercando; ogni tanto riceveva una lettera da suo cugino Mario, partito per Buenos Aires circa un anno prima, e di quelle lettere ricordava soprattutto la frase ricorrente: Qui tutto bene. E in ogni lettera che riceveva c’erano delle foto, nelle quali Mario era elegantissimo.

    Quella di Gianni, Luigi e Piero era la fase finale di un’emigrazione italiana iniziata molti anni prima. Era stato Cavour a vedere negli italiani emigrati in Argentina una comunità su cui scommettere. Una scelta soprattutto politica, per consolidare un rapporto con una nazione che avrebbe potuto offrire all’Italia delle interessanti opportunità economiche: in un periodo in cui molti Stati cercavano di conquistare colonie lontane, dall’Africa alle Indie, e oltre, fino all’estremo oriente, un sano e sincero accordo con una grande e nuova nazione come l’Argentina sembrò a Cavour una soluzione interessante.

    E così, da allora, milioni di italiani emigrarono proprio nella Repubblica del Plata, come veniva anche chiamata quella terra; un paese che garantiva a tutti non solo un lavoro, ma qualcosa di più: la possibilità di far parte di una nuova società, di contribuire a costruire una nuova nazione.

    Gianni però tutto questo non lo sapeva. A lui in quel momento interessava solo una cosa: imbarcarsi al più presto per iniziare quel lungo viaggio.

    Del gruppo dei tre amici, praticamente coetanei, Piero era quello delegato agli aspetti formali e burocratici.

    Prima di partire avevano tutti e tre firmato un contratto che prevedeva una permanenza minima di un anno, con viaggio pagato. Le regole erano poche, ma chiare: lavoro assicurato in funzione delle loro abilità (erano tutti e tre muratori), stipendio più che sufficiente per vivere dignitosamente e soprattutto grande disponibilità, da parte dello Stato argentino, nell’agevolare un loro inserimento nel tessuto sociale di quell’immenso e giovane paese, che stava crescendo sempre più.

    Ma niente soldi a casa. Era questa la regola più importante da rispettare, oltre alla permanenza minima di un anno; in caso contrario, avrebbero dovuto restituire i soldi del viaggio.

    L’auspicio dello Stato argentino era che quei viaggi fossero viaggi di sola andata, e ciò spiega il fatto che attualmente più della metà della popolazione argentina sia di origine italiana.

    Non tutto sarebbe stato facile, e chi decideva di partire ne era ben consapevole. Tuttavia, chi emigrava in Argentina sapeva di poter contare sulla benevolenza da parte della nazione che li avrebbe ospitati.

    Tra le cose che Gianni si portava dietro c’era un opuscolo pieno di disegni, fotografie e parole confortanti, stampato dalla stessa Repubblica Argentina: la Guida per l’emigrante italiano. L’Argentina veniva descritta un po’ come una terra promessa, un paese dalle mille opportunità.

    Al giovane non sembrava neanche vero di essere sul punto di partire per quella terra: le immagini che corredavano l’opuscolo raccontavano di pianure sconfinate, ricche di vegetazione, e lui sognava di potersi perdere in quei grandi spazi, molto diversi da quelli del suo piccolo paese. Per Gianni poter avere un fazzoletto di terra da cui ricavare un piccolo orto sarebbe stata già una conquista.

    La procedura per partire era molto semplice: bastava fare richiesta del documento per l’espatrio al sindaco del comune di residenza e, dopo poche settimane, il Ministero degli Affari Esteri rilasciava puntualmente il nulla osta.

    «Dobbiamo farci registrare nell’elenco dei passeggeri e ritirare il biglietto per l’imbarco, non abbiamo tanto tempo, seguitemi» li sollecitò Piero, che si era guadagnato sul campo il ruolo di organizzatore della spedizione.

    Gianni e Luigi, frastornati dal chiasso e dal vociare continuo delle persone, sempre più numerose, lo seguirono con fiducia; entrambi si trascinavano dietro le pesanti valige, nelle quali avevano messo tutte ciò che avevano potuto portare, e che ritenevano potesse loro servire.

    Il punto di ritrovo in cui avrebbero dovuto mostrare i documenti, compreso il contratto vidimato dal loro comune di residenza e dal consolato argentino, era una sorta di baracca di legno, collocata in prossimità del molo dove era attraccato il piroscafo.

    All’interno della baracca c’erano tre funzionari in divisa, perché tre erano le file dei passeggeri di terza classe, la più economica e la più numerosa.

    Il piroscafo Santa Fé, lungo 168 metri, era davvero imponente. Costruito nel 1896 nei cantieri di Stettino, in Germania, non era proprio nuovo, ma di recente era stato rimodernato e adeguato ai nuovi standard, definiti dagli accordi internazionali. Aveva superato ben due guerre, subendo diversi rimaneggiamenti, e il fatto che fosse ancora lì, pronto a partire con i suoi due camini fumanti, per chi saliva a bordo era una garanzia.

    La Santa Fé poteva portare fino a un massimo di 2400 passeggeri. La classe più affollata era la terza, che di passeggeri ne contava ben 1940. Gli altri, appartenenti a classi sociali economicamente ben più privilegiate rispetto a quella da cui provenivano i tre bellunesi, erano ripartiti più o meno equamente tra la seconda e la prima classe.

    I passeggeri della prima, elegantissimi, si imbarcavano passando addirittura da un tunnel riservato, che collegava il piroscafo direttamente al Grand Hotel Miramare, dove in genere alloggiavano dal giorno prima.

    Nella coda della fila della terza classe non c’erano solo operai e muratori, ma anche delle donne, seppur poche. E non mancavano i bambini. Alcuni erano in braccio alle loro madri, in cerca di una qualche rassicurazione, forse preoccupati per ciò che stava accadendo e per tutto quel trambusto attorno a loro; altri erano euforici, scatenanti e urlanti, con le madri che a fatica riuscivano a tenerli a bada.

    In Argentina, infatti, si trasferivano anche famiglie intere, o persone che avevano deciso di compiere il grande passo e di raggiungere i parenti già stabilizzati lì, ricomponendo così la famiglia. Per questo in coda si potevano vedere anche persone anziane, sia uomini sia donne, che avevano deciso di passare gli ultimi anni della loro vita insieme ai figli, in quella nuova terra promessa.

    La fila era molto lunga, e l’attesa durò più di due ore.

    «Dobbiamo fare più in fretta, signori» gridava uno dei commissari di bordo, evidentemente preoccupato che la nave potesse partire in ritardo. «Forza, avvicinatevi, dobbiamo sbrigare le pratiche d’imbarco!»

    Mentre attendeva il suo turno, Gianni cercava di carpire i discorsi degli altri passeggeri, non senza qualche difficoltà: era raro sentire parlare italiano, visto che quasi tutti dialogavano nei loro dialetti; il vociare di tante persone, poi, costringeva ognuno ad alzare il tono della propria voce.

    Alcuni erano veneti, e per Gianni era come giocare in casa; altri invece parlavano nei più svariati dialetti del nord Italia, praticamente incomprensibili per chi non li conoscesse: dal genovese al bergamasco, dal bresciano al piemontese.

    In fila c’erano, anche se in misura minore, italiani del centro e del sud Italia: principalmente napoletani, abruzzesi e siciliani. Le partenze per l’Argentina infatti, fino a poco prima ripartite tra i porti di Genova e Napoli, erano da poco appannaggio del solo porto di Genova, visto che quelle da Napoli erano state sospese. I meridionali che volevano raggiungere Buenos Aires, quindi, erano costretti a imbarcarsi dal porto ligure.

    Questa mescolanza di dialetti colpì anche Luigi, che aveva lasciato per la prima volta il suo paesino dell’alto Veneto, in provincia di Belluno: «Siamo tutti italiani, ma faccio fatica a capire cosa dicono».

    «Non ci dobbiamo preoccupare» li tranquillizzò Piero, «dove andremo noi ci dovrebbero essere molti veneti, e in ogni caso dovremo tutti imparare lo spagnolo, che è la lingua che si parla in Argentina. E lo spagnolo è più simile al veneto di molti dei dialetti che stiamo sentendo qui, e di cui non comprendiamo una parola.»

    Intanto, era arrivato il loro turno.

    «Documenti, prego» li esortò con voce ferma l’ufficiale addetto ai controlli doganali.

    Tutti e tre erano già preparati, e mostrarono i documenti richiesti. L’ufficiale verificò che i loro nomi comparissero nell’elenco dei passeggeri e consegnò ai tre ragazzi un biglietto di sola andata e un ulteriore foglio, con un modulo prestampato. Spiegò loro che quel modulo dovevano conservarlo per l’intero viaggio: sarebbe servito non solo per poter sbarcare senza problemi a Buenos Aires, ma anche per poter scendere a terra nelle due tappe intermedie, Rio de Janeiro e Montevideo.

    «Mi raccomando di non perdere il biglietto e neanche il foglio con il modulo» disse loro. «Conservatelo per bene e portatelo sempre con voi. Nel modulo è riportato anche il numero della vostra cabina, e lo dovrete esibire una volta saliti a bordo.»

    I passeggeri della prima e della seconda classe, molto meno numerosi, furono accolti in modo assai diverso. Si erano già imbarcati da un pezzo: il maggior costo del biglietto garantiva loro non pochi privilegi, che si vedevano anche in occasione dell’accoglienza a bordo del piroscafo.

    Una volta formalizzate le pratiche d’imbarco, i tre amici si avviarono, seguendo le indicazioni degli addetti, anche se non ne avrebbero avuto bisogno; la moltitudine delle persone in fila era tale che agevolava le mosse successive: bastava lasciarsi trasportare da quella fiumana.

    La parte più emozionante fu percorrere il ponte mobile che collegava il molo alla Santa Fé. Per i tre giovani quello non era un semplice ponte da attraversare, ma molto, molto di più: salendo a bordo lasciavano definitivamente la loro terra, e la loro consueta vita.

    Una volta a bordo Gianni si voltò indietro, per ammirare il porto. Da lì in alto, con un solo sguardo poté osservare quella moltitudine di gente e vedere la città di Genova da un altro punto di vista, cogliendola nel suo insieme. Quel suo piccolo momento di riflessione fu interrotto dai suoi compagni, che lo riportarono prontamente alla realtà: «Gianni, andiamo, dobbiamo raggiungere la nostra cabina» disse Piero, che dimostrava di apprezzare il ruolo di capo squadra.

    C’era molta confusione a bordo della nave, ma per chi viaggiava in terza classe non ci volle molto a capire che gli spazi erano definiti in modo tale che accedere alle classi superiori era praticamente impossibile.

    Comunque, non era più la terza classe di una volta, quando gli emigranti viaggiavano come bestie; il piroscafo Santa Fé, pur non essendo proprio di ultima generazione, aveva subito degli adeguamenti per rendere confortevole il viaggio a tutti i suoi passeggeri. Questi miglioramenti erano stati introdotti soltanto a partire dagli anni venti.

    I dormitori, organizzati in cabine con sei od otto letti a castello, erano separati: alcuni erano destinati agli uomini, altri alle donne e agli eventuali bambini. I servizi igienici comuni si trovavano all’esterno, ma le regole igienico-sanitarie del vivere quotidiano venivano comunque rispettate.

    Le luci dei dormitori, dei refettori, dei corridoi di collegamento, dei servizi e degli spazi comuni erano mantenute accese durante la notte.

    Gli spazi nei refettori potevano poi essere utilizzati durante la giornata come spazi d’incontro per parlare, leggere o giocare a carte. I passeggeri di terza classe potevano inoltre utilizzare gli spazi esterni, quando le condizioni meteo lo consentivano.

    La Santa Fé era anche dotata di locali custoditi per depositare i bagagli più ingombranti, in modo che nei dormitori si potesse portare solo lo stretto necessario per le esigenze quotidiane del viaggio.

    I bagagli dei passeggeri di terza classe spesso non erano vere e proprie valige, ma semplici fagotti di stoffa, ben sigillati da cinghie o da spaghi, dentro i quali i passeggeri cercavano di mettere tutto quello che secondo loro avrebbe potuto essere utile nel Nuovo Mondo.

    Il regolamento definiva comunque dei limiti ben precisi per il bagaglio da portare: un massimo di cento chili a persona con un volume limite di mezzo metro cubo. Anche i passeggeri di terza classe, dietro un piccolo compenso, potevano farsi portare i bagagli più ingombranti a bordo da dei facchini, fino al punto di deposito. Tutto questo consentiva di agevolare, e non poco, le operazioni preliminari alla partenza.

    Una volta che tutti i passeggeri furono saliti, i portuali staccarono il ponte di collegamento tra il piroscafo e il molo. A quel punto fu ben chiaro a tutti che la Santa Fé, da lì a poco, avrebbe iniziato il suo viaggio per le Americhe. La prima tappa sarebbe stata Rio de Janeiro.

    L’ordine di salpare doveva essere dato dal Comandante, l’uomo che nei giorni seguenti, aiutato dai suoi ufficiali, alla fine di ogni giornata avrebbe annotato tutto ciò che sarebbe successo durante il viaggio nel diario di bordo: la rotta seguita, la direzione, la forza del vento e tante altre cose, compreso il punto in cui si trovava la Santa Fé.

    Il Comandante finalmente diede l’autorizzazione. Il piroscafo uscì dal porto trascinato dai rimorchiatori, poi puntò decisamente la prua verso il mare.

    La giornata era molto bella; Gianni, Luigi e Piero poterono assistere alla partenza dal ponte riservato alla terza classe. Videro la terra allontanarsi sempre di più, mentre tutto intorno a loro sembrava diventare di un solo colore. Le sfumature cromatiche si incontrarono quando la terra fu solo un puntino lontano, e l’azzurro del cielo e il blu del mare si fusero assieme.

    CAPITOLO 2

    Gianni, il più piccolo di cinque fratelli, era rimasto senza padre all’età di diciannove anni. La madre era morta ancor prima, quando di anni ne aveva appena tredici. Fu allora che si rese conto di doversela cavare con le proprie forze: suo padre era tornato dalla guerra molto diverso da come era partito, e Gianni capì ben presto che su di lui non avrebbe potuto fare troppo conto.

    E così, all’età di tredici anni, praticamente solo, dovette rimboccarsi le maniche per sopravvivere. Iniziò a lavorare presso dei contadini che avevano una tenuta non molto lontano dal suo paese, Longano. Un posto per dormire e un pasto caldo,

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1