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L’Opera nel ’900: Trame, successi e fiaschi in Italia, Europa e Stati Uniti
L’Opera nel ’900: Trame, successi e fiaschi in Italia, Europa e Stati Uniti
L’Opera nel ’900: Trame, successi e fiaschi in Italia, Europa e Stati Uniti
Ebook956 pages14 hours

L’Opera nel ’900: Trame, successi e fiaschi in Italia, Europa e Stati Uniti

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In questo libro l’autore si propone di fornire un panorama quanto più esauriente possibile delle Opere che hanno riempito i teatri nel Novecento, soprattutto di quelle che, pur costituendone la maggioranza, non sono state più riprese dopo la morte dei loro autori. Protagonista di questo saggio è l’Opera, non tanto il singolo compositore; di essa si fornisce al lettore una guida all’ascolto in cui, oltre ad un’analisi della parte musicale, vengono delineate la sua genesi, la sua ricezione - attraverso recensioni della prima rappresentazione - e la sua fortuna con le riprese moderne. La trattazione è completata dagli indici dei nomi e delle Opere - inseriti al fine di facilitarne la consultazione - nonché da una bibliografia essenziale, stimolo per ulteriori approfondimenti.
LanguageItaliano
Release dateNov 4, 2020
ISBN9788860536020
L’Opera nel ’900: Trame, successi e fiaschi in Italia, Europa e Stati Uniti

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    L’Opera nel ’900 - Riccardo Viagrande

    Riccardo Viagrande

    L’opera nel ’900

    trame, successi e fiaschi in Italia, Europa e Stati Uniti

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    PREFAZIONE

    Nato come continuazione di Il Carro di Tespi, Che farò senza Euridice? e Casta Diva, questo volume costituisce l’ultimo atto di un ampio progetto dedicato alla storia del teatro musicale in Italia, in Europa e negli Stati Uniti. Come i saggi che l’hanno preceduto, si propone di fornire al lettore un panorama quanto più esauriente possibile sulle opere che hanno riempito i teatri nel Novecento e, soprattutto, su quelle che, pur costituendone la maggioranza, non sono state più riprese dopo la morte dei loro autori. Una rapida lettura dei titoli e dei nomi dei compositori che hanno operato nel Novecento, di cui trattiamo in questo saggio, dimostra infatti come il teatro musicale non sia morto dopo la grande stagione della Giovane Scuola, la quale non è qui oggetto di trattazione, essendovi già su di essa un’ampia bibliografia; tale sensazione è determinata, nel largo pubblico, dall’assenza degli autori contemporanei dai cartelloni dei teatri che preferiscono programmare, per ovvie ragioni economiche, le opere famose. A tale fine, accanto ai grandi capolavori del genere prodotti in questo periodo in Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Scandinavia, Spagna, Ungheria, Russia e Sati Uniti, diamo largo spazio alle opere cadute in oblio a partire dalla Cassandra e La Rosiera di Vittorio Gnecchi fino a quelle di Jacopo Napoli, Vieri Tosatti, Franco Mannino, Licinio Refice, Lino Liviabella, Mario Zafred, Antonio Savasta e Camillo Togni, per citarne solo alcune. Un’ampia sezione è dedicata, inoltre, a compositori contemporanei di fama internazionale, come Marcello Panni, Giorgio Battistelli, Marco Tutino, Luca Francesconi, Azio Corghi, Marco Betta, Giovanni D’Aquila. Ci occupiamo, infatti, anche delle opere composte nel primo ventennio di questo secolo, come è possibile notare sia nella sezione italiana che in quella dedicata agli Stati Uniti, dove il teatro musicale oggi è particolarmente vivo e mostra una grande varietà di forme e di tendenze, attestata dal numero di lavori teatrali trattati e dei compositori attivi, da me quasi tutti intervistati.

    Protagonista di questo saggio è l’opera, non tanto il singolo compositore; di essa si fornisce al lettore una guida all’ascolto in cui, oltre ad un’analisi della parte musicale, vengono delineate la sua genesi, la sua ricezione, attraverso recensioni della prima rappresentazione, e la sua fortuna con le riprese moderne. La trattazione è completata dagli indici dei nomi e delle opere, inseriti al fine di facilitarne la consultazione, e da una bibliografia essenziale che possa essere da stimolo per ulteriori approfondimenti.

    Per questo lavoro è stato necessario raccogliere abbondante materiale bibliografico e discografico, non sempre facilmente reperibile. Ringrazio il professore Giorgio Bagnoli, fondatore del sito GBOpera, per avermi aiutato in questa ricerca e per avermi fornito materiale bibliografico in suo possesso su autori italiani e stranieri; la dottoressa Annamaria Macchi della Casa Editrice Ricordi per i lavori dei maestri Battistelli e Francesconi; la dottoressa Anna Paniale dell’archivio storico della Scala per la nota di sala dell’opera Ma’saniello di Jacopo Napoli; i maestri Marcello Panni, Marco Betta e Giovanni D’Aquila per il materiale riguardante le loro opere; la signora Nicoletta Mannino e Valentino Tosatti per avermi fornito delle notizie sulle opere dei loro genitori, e, infine, l’archivio storico del Teatro dell’Opera di Roma per avermi messo a disposizione il materiale riguardante il Wallenstein di Mario Zafred.

    Catania, 23/02/2020                                                                  Riccardo Viagrande

    L’OPERA IN ITALIA

    1. IL PRIMO NOVECENTO

    1.1. Introduzione

    La breve parentesi del Verismo, che, circoscritto a poche opere, non riuscì ad affermarsi come modello di riferimento a differenza del Romanticismo che aveva dominato il melodramma per quasi un secolo, non apportò quelle novità idonee al rinnovamento dell’opera già avvertito negli anni Sessanta dal mondo della cultura e i cosiddetti compositori della Giovane Scuola, dopo qualche lavoro, non tardarono ad abbandonare il filone verista per ritornare ai generi del passato. Ecco allora il Teatro d’opera trasformarsi, fin dagli inizi del Novecento, in un laboratorio dove ciascun compositore cercò di contribuire con la propria esperienza, acquisita spesso all’estero, a quel rinnovamento auspicato con tanta intensità anche dal pubblico, fruitore dello spettacolo, che cominciava ad apprezzare le opere di compositori stranieri, soprattutto francesi e tedeschi, la cui presenza nei teatri si faceva sempre più frequente. Ciò spiega la proliferazione di stili e di generi diversi e, soprattutto, la vasta produzione di opere più o meno di successo, alcune delle quali cadute in oblio o dopo le prime rappresentazioni o dopo la morte dell’autore.

    1.2. Due compositori atipici: Busoni e Wolf-Ferrari

    1.2.1. Ferruccio Busoni

    Ferruccio Busoni (Empoli 1866 - Berlino 1924), vicino ai compositori della Giovane Scuola per l’età, non poté condividere le loro esperienze, essendosi accostato tardi al mondo dell’opera a causa della sua intensa attività concertistica che l’aveva portato in giro per il mondo, ma grazie alla quale aveva acquisito in campo musicale elementi e stili diversi, da Bach a Liszt, da Mozart a Verdi. Nonostante fosse vissuto a lungo lontano dall’Italia, egli si sentiva italiano e, come tale, era spinto dall’ambizione di creare un’opera nazionale italiana. L’italianità è già presente nella sua prima opera, Die Brautwahl (La sposa sorteggiata), anche se è espressa in modo ingenuo con l’utilizzo di una marcia tratta dal Mosè di Rossini e con il grido, nel finale, A Roma!. Ispirata ad una storia di E. T. A. Hoffmann, l’opera fu completata nel 1911, cinque anni dopo l’inizio della stesura del libretto, e poté andare in scena il 12 aprile 1912, sotto la direzione di Gustav Brecher, allo Stadttheater di Amburgo dove, accolta con poco entusiasmo dal pubblico, ottenne soltanto un successo di stima.

    Agli inizi dell’Ottocento, in una taverna, nelle vicinanze di Berlino, dove il ricco banchiere Voswinkel e la bellissima figlia Albertine stanno prendendo il caffè, fa il suo ingresso il pittore Edmondo Lehsen il quale resta immediatamente ammaliato dalla bellezza della giovane. In aiuto del pittore interviene l’orefice Leonardo del quale si diceva che fosse vissuto molti secoli e che possedesse poteri magici. Avendo il banchiere promesso in sposa la figlia, ignara di tutto, al Consigliere di Stato Thusman, anziano, pedante e borioso, Leonardo fa di tutto per disorientare l’uomo sottoponendolo alla visione di strani fenomeni magici tra cui quello di trovarsi, al suo risveglio, a cavalcioni di una statua equestre. Nel frattempo il banchiere, che prova una forte simpatia per il pittore Edmondo, gli dà l’incarico di ritrarre sia lui che la figlia. I due giovani si innamorano e un giorno, durante una posa, sono scoperti mentre si baciano dal Consigliere che comunica l’accaduto al banchiere scatenando in lui una forte reazione. Essendo entrato in scena un altro pretendente, l’ebreo viennese Bensch, nipote di Manasse, Leonardo propone al banchiere di affidare alla sorte la scelta del marito per la figlia e organizza un’estrazione fra i tre pretendenti facendo in modo che il vincitore sia Edmondo. Leonardo, tuttavia, non permette al pittore di sposare subito Albertine imponendogli di andare a Roma per perfezionarsi a contatto con le grandi opere artistiche e, per convincere Albertine, in una visione le fa vedere Edmondo intento a copiare un affresco all’interno di una cattedrale italiana. L’opera si conclude con l’invito al pittore, da parte di Albertine e del banchiere, di andare a Roma A Roma va! a cui fa eco il coro ripetendo la stessa frase A Roma va!

    Assistendo a Bologna, probabilmente nel 1912, alla commedia L’inutile precauzione con protagonista Arlecchino, Busoni maturò l’idea di scrivere un’opera sulla famosa maschera bergamasca. Nacque così Arlecchino, oder Die Fenster (Arlecchino, ovvero Le finestre), opera in un atto con dialoghi parlati e su libretto dello stesso compositore, completata a Zurigo nel 1913 e rappresentata per la prima volta all’Opera di Zurigo l’11 maggio 1917 con protagonista, nella parte di Arlecchino, dell’attore Alexander Moissi. L’opera, scritta in stile neoclassico e contenente, oltre alla parodia di un duello, allusioni ironiche alle convenzioni teatrali e alle situazioni tipiche del periodo compreso fra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo, ha una struttura in quattro movimenti corrispondenti ad altrettante situazioni di Arlecchino i cui ruoli, principalmente parlati, sono tratti dalla Commedia dell’Arte: Arlecchino als Schalk - Arlecchino mascalzone (Allegro molto); Arlecchino guerriero (Allegro assai, ma marziale); Arlecchino marito (tempo di Minuetto sostenuto); Arlecchino conquistatore (Allegretto sostenuto). La particolarità di quest’opera non solo è stata evidenziata dallo stesso compositore,¹ ma anche da musicologi, tra cui Ronald Stevenson, che definì Arlecchino un’anti-opera e un’anti-satira della guerra, e dal compositore australiano Larry Sitsky il quale affermò che la musica è «fortemente integrata» e largamente basata sulla serie di note della fanfara dell’inizio dell’opera,² in realtà un tema più che una serie ortodossa che presenta il personaggio di Arlecchino, mentre Henry Cowell ha definito la composizione come «la sola opera che tradisce la conoscenza del primo stile di Schönberg prima di Wozzeck».³ Tra i pochi estimatori italiani di Busoni, Vittorio Gui scrisse: «Questo uomo di altiero ingegno e di complessa psicologia, trae il sapore ironico della vita, che può anche a volte rasentare l’amaro e stemprare in fuggevoli baleni di tenerezza malinconica il substrato della sua ispirazione».⁴ Portavoce delle idee di Busoni è, infatti, Arlecchino il cui ruolo sembra essere quello dello «storico della satira» e delle relative concretizzazioni nella vita quotidiana nella quale è sempre presente una ricorrente tipologia umana fatta di opportunisti, ubriaconi, fannulloni e persone astute. Attorno ad Arlecchino gravitano: il sarto Matteo del Sarto, che fa sfoggio di esperto, senza esserlo, della Divina Commedia; il dottor Bompasto e l’abate Cospicuo, presunti rappresentanti, rispettivamente, della scienza e della religione; Leandro, parodia del tipico conquistatore, oltre che del «divo da spettacolo» e del «tenore» per antonomasia sul quale Busoni scaglia gli strali di una satira feroce ma divertente; Colombina, umoristica incarnazione della volubilità e della civetteria femminili e, infine, un asino che, apparso provvidenzialmente non si sa da dove, dà agli uomini un esempio, sempre in chiave satirica, di carità.

    La vicenda si svolge a Bergamo nel XVIII secolo.

    Prologo. Arlecchino, nel suo consueto costume multicolore, apparso a sipario chiuso al suono di una fanfara, anticipa brevemente la storia recitando i seguenti versi:

    Né per dèi né per fanciulli è quest’azione, / Sol si rivolge al cuore che l’intende; / Non ha bisogno d’una spiegazione / Però che il meglio vi si sottintende. / I personaggi della tradizione / rivedrete con lor virtù e lor mende / In un vivace progredire di scene / All’antica tagliate e spesso amene. / Un uom tradito di sua sorte ignaro, / Rivali in lotta per un bel visino, / Un duello cruento ed un somaro / Che salva poi baracca e burattino, / Parole argute e qualche detto amaro, / L’astuzia e la baldanza di Arlecchino, / Del picciol mondo è qui dipinto il volto. / Voi mi direte che l’ho bene colto, / Maestro… (al direttore d’orchestra).5

    Primo Movimento: Arlecchino mascalzone. Mentre il sarto Matteo, alternando il cucito alla lettura dei versi danteschi, comincia a leggere la storia dello sfortunato amore fra Paolo e Francesca, ironicamente, dietro una finestra si vede Arlecchino amoreggiare con Annunziata, la bella e giovane moglie del sarto. Dopo aver salutato la donna, Arlecchino salta dalla finestra atterrando davanti a Matteo al quale comunica che i barbari hanno dichiarato guerra e sono alle porte. Il sarto, spaventato, fugge verso casa e Arlecchino, dopo aver chiuso la porta facendolo prigioniero, si allontana cantando. All’osteria l’abate e il dottore discutono animatamente di questioni professionali mentre l’orchestra sottolinea i momenti più animati con un gruppo di variazioni su un piacevole tema di Mozart. L’abate, infatti, ringrazia il dottore per il gran numero di persone mandate all’altro mondo e, a sua volta, il dottore ironizza sull’incapacità del suo interlocutore ad ottenere la porpora cardinalizia. Riappacificatisi davanti a un bicchiere di Chianti e usciti dall’osteria, i due giungono davanti alla casa di Matteo il quale, chiamato a gran voce, si decide ad aprire la finestra solo dopo averli riconosciuti per informarli che è scoppiata la guerra e stanno arrivando i barbari. A questa notizia l’abate invoca i nomi delle sue dieci figlie, preoccupato per il loro futuro, mentre il dottore esclama che bisogna fare qualcosa. Infine vanno via decidendo di informare il sindaco ma non possono fare a meno di fermarsi nella taverna a bere un bicchiere di vino.

    Secondo Movimento: Arlecchino guerriero. Al comando di un plotone di tre soldati giunge, sulle note di un’ironica marcia, Arlecchino in divisa militare e informa Matteo che, essendo stato arruolato, ha tre minuti per mettere in ordine la casa e armarsi. Arlecchino allora ne approfitta per fare una copia della chiave e di lì a poco appare lo stordito sarto in una ridicola uniforme militare il quale, dopo aver ottenuto il permesso di portare con sé l’amata Divina Commedia, va via accompagnato dai soldati. Questo brano evoca un triste avvenimento della storia italiana relativo alla conquista di Milano nel 1499 e all’arresto, da parte dei Francesi, del signore della città, Ludovico Sforza, al quale fu concesso di portare con sé il poema dantesco.

    Terzo Movimento: Arlecchino marito. Arlecchino sta cercando di aprire, con la sua nuova chiave, la casa di Matteo, quando viene intercettato dalla moglie Colombina la quale, ritenendolo il capitano, gli chiede di proteggerla perché è stata abbandonata, ma, appena lo riconosce, lo rimprovera per la sua infedeltà. Arlecchino le risponde: La fedeltà, signora, è un vizio che non si applica alla mia rispettabilità. Colombina, allora, cambia atteggiamento e cerca di lusingarlo, ma Arlecchino, approfittando della distrazione della moglie, fugge. Quando fa il suo ingresso il cavalier Leandro, armato di spada e con in testa un cappello con la penna mentre canta una romanza, Colombina riprende il suo ruolo di moglie abbandonata suscitando l’interesse dell’uomo il quale non perde molto tempo a conquistarla. Egli, infatti, in un duetto, una parodia della scena d’opera del melodramma ottocentesco, promette alla donna che l’avrebbe vendicata del tradimento subito da parte del marito. Arlecchino, che ha osservato con il suo binocolo Colombina e Leandro, si congratula con la moglie per aver appreso la sua lezione e l’accompagna alla locanda. Ritornato da Leandro, lo sfida a duello e, dopo averlo abbattuto, sparisce nella casa di Matteo.

    Quarto Movimento: Arlecchino conquistatore. Intanto escono dall’osteria il dottore e l’abate ubriachi che, barcollanti, si appoggiano al braccio di Colombina. Il dottore inciampa sul corpo di Leandro e, osservandolo, dichiara che è morto provocando il grido di disperazione della donna la quale, chinandosi sull’amato, si accorge che è ancora vivo. Constatando che è effettivamente vivo, l’abate e il dottore chiedono aiuto alle persone affacciatesi alle finestre al grido di Colombina, ma nessuno accoglie la richiesta e le finestre si richiudono. Provvidenzialmente dalla strada giunge un carretto tirato da un asino sul quale viene caricato il moribondo Leandro. Al suono di una marcia funebre, il carretto si avvia seguito dall’abate, dal dottore e da Colombina, alla quale Arlecchino, che ha osservato tutto dall’abbaino della casa di Matteo, augura felicità e figli maschi. Poi, si allontana con la sua nuova conquista dopo aver cantato: Il mondo è mio, / È giovane la terra, / L’amore è libero! / Voi, Arlecchini!6 Intanto, ritornato a casa, Matteo, più confuso che mai, si spoglia delle armi e porta fuori il suo banchetto da lavoro sul quale poggia la sua amata Divina Commedia pronto a ritornare alla sua vita quotidiana. Cala il sipario e, dopo la sfilata dei protagonisti, Arlecchino espone la sua morale al pubblico:

    Signori e signore, ho il grande piacere di presentarvi la mia nuova sposa che finora, come moglie del sarto, non aveva avuto il modo di spiegare innanzi a voi i suoi fascini. Ammiratela ora in tutta la sua bellezza… La sposa di prima mano ha ora contratto, a dovuta distanza, una nuova unione.

    … Ed ora lascio alle signore di stillarne la morale… Non si ripete tutto nel giro eterno ed immutabile della vita? Chi vince? Chi soccombe? Chi sa farsi valere alla fine? Solo colui che con le proprie forze, seguendo i suggerimenti del cuore e con vigile mente sceglie la via diritta; chi si accontenta di restare fedele a se stesso; chi anche in vesti rattoppate serba la sua interezza e non si inchina a nessuno, come ho potuto farne esperienza io stesso.

    Lascio ora agli uomini di estrarre la radice della verità e specialmente ai critici, miei benevoli giudici.

    Signori e signore, buona notte.7

     Il siparietto si alza di nuovo e il pubblico può osservare Matteo che, sul palcoscenico, sta ancora leggendo e aspettando.

    Spesso rappresentata come facente parte di un dittico insieme ad Arlecchino, Turandot, in due atti e con dialoghi parlati, si basa su una fiaba di Carlo Gozzi per la quale, in occasione di una sua produzione teatrale, Busoni aveva scritto nel 1905 le musiche di scena. Appassionato di racconti magici e fantastici, egli, ad intervalli, nel periodo che va dal 1904 al 1917 si occupò della Turandot di Gozzi scrivendo, nel 1905, una suite eseguita in concerto e pubblicata l’anno successivo, mentre una produzione della fiaba con la sua musica fu allestita da Max Reinhardt a Berlino nel 1911. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Busoni, essendo italiano, preferì trasferirsi dalla Germania nella neutrale città di Zurigo dove, tra la fine del 1915 e il mese di agosto del 1916, scrisse l’opera in un atto Arlecchino che lo Stadttheater di Zurigo non fu propenso a mettere in scena senza l’aggiunta di un altro lavoro. Egli allora ricavò dalla fiaba di Gozzi un libretto in tedesco e ne fece un’opera in due atti adattandovi anche la Turandot suite. Completata, Turandot andò in scena, insieme ad Arlecchino, a Zurigo nel 1917 con grandissimo successo.

    L’opera si apre con un prologo parlato pronunciato da Altoum e tratto da Festzug di Goethe:

    Dal lontano Oriente, dalle più lontane lontananze, giunge Altoum, un Re della scena. La favola lo ha posto su un trono e lo ha dotato di molto sfarzo e signorilità. Ma, ancor più pomposa di qualsiasi corona o scettro, splende al suo fianco la figlia Turandot. Si dice che il bel coro delle fanciulle abbia cuori un po’ misteriosi, ma questa ha uno spirito altamente sottile e in capo tutti indovinelli, che vari pretendenti se ne dovettero morire.

    Atto primo. Giunto a Pechino, Kalaf viene informato dal suo vecchio maestro Barak del capriccioso e crudele atteggiamento della principessa Turandot che fa uccidere i suoi pretendenti perché incapaci di risolvere gli enigmi da lei proposti. La sua incredulità viene fugata quando assiste al dolore della Regina di Samarcanda il cui figlio è stato vittima della crudeltà della Principessa, ma l’orrore provato di fronte al dolore della madre e ai lamenti delle ancelle, espressi musicalmente su un tema scritto in un antico modo cinese, viene meno quando egli vede il ritratto di Turandot. Colpito da tanta bellezza, decide di sottomettersi alla prova incurante dei tentativi di dissuasione fatti da Barak e della vista del carnefice che porta la testa recisa dell’ultimo giustiziato. Poco dopo, annunciato da una marcia solenne e ampollosa, fa il suo ingresso l’Imperatore, seguito dai dottori, davanti al quale tutti si inchinano in modo grottesco. Dopo un dialogo parlato fra Altoum, Pantalone e Tartaglia e la preghiera dell’Imperatore a Confucio affinché lo liberi dalla capricciosa figlia, viene introdotto Kalaf il quale, ottenuto il permesso di conservare l’anonimato, dà vita, insieme alle tre Maschere, ad uno splendido Quartetto considerato il brano più perfetto di tutta l’opera. Questo brano è diviso in due sezioni antitetiche che accompagnano rispettivamente l’intervento dei presenti, tra cui lo stesso Imperatore che cerca di dissuadere Kalaf dalla sua decisione, e il fermo proposito del Principe a tentare la prova pronto anche a morire in caso di sconfitta. Infine, preceduta dalle ancelle, dagli eunuchi e da Truffaldino, sulla sommità della scalinata appare la superba e crudele Turandot che minaccia Kalaf di sicura morte. Al triplice suono del campanello da parte di Truffaldino, ha inizio la scena degli enigmi che vede contrapposti non solo i protagonisti ma anche i presenti che parteggiano per l’una o per l’altro. Gli enigmi sono da Kalaf felicemente risolti tra la gioia generale e la rabbia di Turandot la quale, non accettando la sconfitta, tenta di uccidersi fermata generosamente da Kalaf che le propone a sua volta la soluzione di un enigma: scoprire la sua casata e il suo nome prima dell’alba.

    Atto secondo. Dopo un breve preludio a carattere pastorale, il sipario si apre sulla stanza di Turandot dove le ancelle ballano una danza orientaleggiante. Rimasta sola, la Principessa cade in una profonda disperazione sia perché teme la sconfitta sia perché intuisce che sta per innamorarsi. La sua speranza di vittoria si affievolisce quando Truffaldino le comunica di non essere riuscito a scoprire il nome del Principe. Rimasta sola, l’ancella Adelma le dice di conoscere il nome del Principe, ma, in cambio della rivelazione, pretende di essere liberata dalla condizione di schiava. Turandot accetta ignara del tranello che la schiava le ha teso in quanto, a sua volta innamorata di Kalaf, spera di conquistarlo. Nella sala del trono appare Turandot in un atteggiamento umile che inganna tutti solo per pochi attimi. All’improvviso grida, infatti, il nome di Kalaf facendo piombare in una profonda costernazione i presenti ai quali la Principessa riserva, tuttavia, una lieta sorpresa: quando il Principe afferma di voler partire per la guerra, gli dichiara il suo amore.

    Doktor Faust avrebbe dovuto essere il capolavoro di Busoni, se non fosse stato lasciato incompleto. Il compositore, infatti, fu sempre attratto dal mito di Faust, personaggio con cui egli stesso sembra identificarsi per quel desiderio di conoscenza mai integralmente soddisfatto, anche se, a differenza di altri personaggi come l’Ulisse di Dallapiccola, l’opera ha come oggetto non un mondo reale, bensì fantastico. Busoni, autore anche del libretto in tedesco, vi lavorò dal 1916 al 1924 ma, per la sopravvenuta morte, non completò l’opera che, ultimata dal suo allievo Philipp Jarnach, fu rappresentata postuma al Sächsiches Staatstheater di Dresda il 21 maggio 1925 con la direzione di Fritz Busch riscuotendo un discreto successo. Più recentemente, nel 1982, Antony Beaumont completò l’opera utilizzando pezzi scritti da Busoni ritenuti perduti.

    L’opera è costituita da due prologhi, un intermezzo e tre scene.

    Vigilia di Pasqua e festa della primavera. A un’introduzione orchestrale, che imita il suono delle campane, segue un coro che dietro il sipario canta la parola pace. Subito dopo sul palcoscenico a sipario chiuso si presenta il poeta che spiega al pubblico il motivo per cui ha preferito, come soggetto, Faust.

    Prologo primo. (Wittenberg, Germania, durante il Medioevo). Faust, Rettore dell’Università, è raggiunto nel suo laboratorio dal suo allievo Wagner che gli comunica l’arrivo di tre studenti venuti da Krakow per consegnargli un libro di magia nera Clavis Astartis Magica (La chiave alla magia di Astarte) il cui tema, irto di intervalli duri, rappresenterà, nel corso dell’opera, l’Inferno.9 Faust li accoglie pensando al potere che avrebbe conquistato ed essi gli offrono, rispettivamente, un libro, una chiave e un foglio. Quando chiede loro cosa vogliono in cambio, si sente rispondere soltanto: Più tardi.  In seguito alla sua domanda di un possibile incontro futuro essi rispondono: Forse. Poi si allontanano e, rientrato Wagner nel laboratorio, dice a Faust di non aver visto nessuno entrare e uscire, per cui quest’ultimo comprende che quei visitatori erano soprannaturali.

    Prologo secondo. È mezzanotte e Faust, seguendo le istruzioni del libro, fa con la propria cintura un cerchio nel quale entra tenendo in mano la chiave. All’improvviso si materializzano delle voci che lo invitano ad esprimere i suoi desideri ed egli chiede che gli vengano mandati i servi di Lucifero. Appaiono sei fiammelle che, alla richiesta di Faust, sgomento e terrorizzato, si rifiutano di rivelare le loro identità, rispondendo: Gravis, lento come la sabbia nella clessidra; Levis, leggero come una foglia cadente; Asmodus, veloce come le acque di un ruscello; Belzebù, veloce come una palla di archibugio; Megäros, in tutto simile ad un uragano. Faust, non soddisfatto delle loro caratteristiche, caccia via le fiammelle ad eccezione della sesta, più splendente e alta, rapida come il pensiero umano, la quale, su sua richiesta, rivela di essere Mefistofele. A costui egli manifesta i suoi desideri: Trascorrere vo’ la terra, l’oriente, l’occidente / Che mi chiama, m’attrae; / Fa’ ch’io le azioni uman tutte comprenda, / La lor grandezza accresca. / Il genio dammi e pure le sue pene. / Da’ il genio a me, sì ch’io felice sia / Più c’ogni altro! Libero io sia!10 Mefistofele, in cambio, chiede la sua anima a Faust il quale, dopo un iniziale rifiuto, cede. Alla sua sottomissione fa eco il canto del Credo intonato dal coro della cattedrale.

    Intermezzo. Faust ha sedotto la giovane Gretchen il cui fratello, un soldato, prega nella cappella affinché possa trovare il seduttore della sorella per punirlo. Dopo aver indicato il soldato a Faust che, pur desiderandone la morte, non intende ucciderlo personalmente, Mefistofele si traveste da monaco e si offre come confessore al soldato che viene ucciso da un drappello di militari ritenendolo l’assassino del loro capitano.

    Scena prima. Al palazzo ducale di Parma, durante i festeggiamenti per le nozze del duca, fa il suo ingresso il famoso mago Dottor Faust con il suo araldo (Mefistofele). La duchessa, affascinata da Faust, gli propone di eseguire alcune sue magie. Egli fa apparire allora il re Salomone e la regina di Saba, Sansone e Dalila, Giovanni Battista con Salome e un boia. Le tre coppie mostrano il volto di Faust e della duchessa, mentre il boia quello del Duca. Il boia afferra Giovanni per decapitarlo scatenando un grido di orrore nella duchessa che chiede di salvarlo. Faust, allora, in disparte, le promette la salvezza di Giovanni a condizione di essere amato da lei. La Duchessa rifiuta la sua offerta mentre il Duca dichiara la conclusione dello spettacolo e annuncia la cena. Mefistofele esorta Faust ad andare via perché il cibo è avvelenato e in quel momento ritorna la Duchessa che si allontana con Faust. Mefistofele, nelle vesti di un cappellano di corte, consiglia il Duca di catturare Faust e la Duchessa e di sposare la sorella del signore di Ferrara col quale è in guerra.

    Scena seconda. Dopo un intermezzo sinfonico nello stile di una sarabanda, in una caverna di Wittenberg alcuni studenti stanno discutendo su Platone e sulla metafisica davanti a Faust il quale, ad una domanda, aveva risposto con una citazione di Lutero, niente è accertato e niente è accertabile, scatenando un’accesa discussione tra gli studenti cattolici e protestanti. Faust ricorda allora la sua relazione con la Duchessa e in quel momento arriva Mefistofele nelle vesti di un corriere il quale gli dice che la Duchessa è morta ma gli ha mandato un regalo e depone ai suoi piedi il cadavere di un bambino. Mefistofele, poi, racconta agli studenti la storia fra Faust e la Duchessa e trasforma il cadavere in un fascio di paglia al quale dà fuoco. Da quella fiamma scaturisce la visione di Elena di Troia che Faust cerca di abbracciare ma al suo posto si materializzano i tre studenti di Krakow per chiedere la restituzione del libro magico.

    Scena terza. Sono le undici e Faust si avvicina alla sua vecchia casa ora occupata da Wagner diventato rettore dell’Università mentre voci provenienti dalla chiesa cantano del giudizio e della salvezza. Sentendo questo canto, Faust decide di riscattarsi con una buona azione finale e, alla vista di una mendicante con un bambino, le si avvicina scoprendo che si tratta della Duchessa la quale, prima di sparire, gli dice che ha ancora tempo per completare il suo lavoro prima di mezzanotte. Egli allora, dopo aver cercato di entrare in chiesa, impedito dal soldato del quale ha chiesto la morte, si sforza di pregare ma non ricorda più le parole; infine vede la figura del Cristo crocifisso posto all’angolo della strada trasformarsi in Elena di Troia che canta: non c’è pietà. A questo punto, come aveva fatto nel primo Prologo, Faust fa un cerchio nel pavimento, nel quale entra con il corpo del bambino a cui trasferisce tutta la sua forza vitale. Allo scoccare della mezzanotte Faust cade morto e un giovane nudo con un ramo nella mano destra avanza nella notte. Il vigilante notturno, ripresa la sua identità di Mefistofele, vede il corpo di Faust a terra e chiede: Che mai è accaduto a questo pover uomo? Nel finale di Beaumont Mefistofele si carica sulle spalle il corpo di Faust di cui alcune voci ripetono le ultime parole.

    La musica è tra le più ispirate anche e soprattutto per il suo carattere evocativo di cui un esempio è il Prologo secondo, aperto da un tema cupo della viola nella misura in cui introduce una scena costituita da presenze diaboliche.

    1.2.2. Ermanno Wolf-Ferrari

    Come Busoni, Ermanno Wolf-Ferrari (Venezia 1876 – Venezia 1948) fu un uomo colto il quale si servì dell’intellettualismo per osservare il mondo. Dopo aver composto Irene su libretto proprio, ma mai rappresentata, egli esordì con Cenerentola, su libretto di M. Pezzè Pascolato, che, rappresentata nel 1900 a Venezia, non fu gradita dal pubblico probabilmente per il suo carattere favolistico. All’insuccesso di Cenerentola seguì un periodo di riflessione durante il quale si accostò a Goldoni e a Mozart da lui scelto come modello da imitare, sebbene non pedissequamente, perché convinto che il Salisburghese fosse stato l’unico capace di avvicinarsi alla conoscenza dell’Assoluto. A loro volta le commedie di Goldoni furono per lui fonte d’ispirazione per i libretti di ben cinque opere nelle quali è espressa una comicità diversa da quella standard basata sull’ironia e sulla satira mordace. La comicità di Wolf-Ferrari si sviluppa, infatti, su sfondi malinconici ai quali si associa la tendenza al sorriso bonario, al paternalismo, al comportamento garbato e spigliato tali da poter offrire al pubblico modelli etici da imitare.

    Prima opera di stampo goldoniano è Die neugierigen Frauen (Le donne curiose) in tre atti, su libretto di Luigi Sugana. Rappresentata, nella versione in tedesco di Hermann Teibler, al Teatro Cuvillies di Monaco di Baviera il 27 novembre 1903, l’opera ebbe la sua première in lingua italiana a New York il 3 gennaio 1912 diretta da Arturo Toscanini con Antonio Scotti e Geraldine Farrar.

    Dopo un’ouverture di sapore mozartiano, il sipario si apre a Venezia su un club dove alcuni amici, Ottavio, Lelio, Florindo e Lunardo, passano il loro tempo leggendo il giornale, giocando a scacchi o chiacchierando. Raggiunti da Leandro, Almoro e Momolo, ribadendo la loro amicizia, affermano un principio: Nessuna donna deve essere ammessa al club e non deve conoscere ciò che loro fanno. A loro si unisce Pantalone il quale, apprendendo che, in occasione del matrimonio tra Florindo e Rosaura, hanno intenzione di fare una festa la stessa sera al club, si offre di pagare e ordina al suo servitore Arlecchino di organizzarla. Beatrice, moglie di Ottavio, la figlia Rosaura ed Eleonora, moglie di Lelio, sospettando che i loro uomini incontrino altre donne, tentano inutilmente di fare parlare Arlecchino venuto a vedere la sua amica Colombina. Eleonora trova in un fazzoletto di Lelio la chiave del club e una lettera di Pantalone per cui, rientrato a casa il marito, lo tormenta sostenendo di essere in grado di scoprire il suo segreto, mentre Beatrice e Colombina, in abiti maschili, escono da casa lasciando sola Rosaura, raggiunta da Florindo che con un pretesto si è allontanato da Ottavio. Al club giungono, prima, Eleonora che, additata da Arlecchino, fugge impaurita e poi, Colombina e Beatrice, smascherate da Pantalone il quale aveva trovato la prima chiave abbandonata da Eleonora. Alla fine le donne, desiderose di conoscere il segreto dei loro uomini, spiandoli dalla finestra, scoprono che stanno partecipando a un’innocente cena tra amici.

    La vis comica di Wolf-Ferrari si esercita attraverso una scrittura parodistica di moduli veristi come accade per esempio nelle appassionate frasi musicali che contraddistinguono il duetto fra Florindo e Rosaura alla fine del primo atto o attraverso la parte orchestrale che, grazie ai trilli, sembra irridere al carattere petulante delle donne curiose.

    Il successo ottenuto con Le donne curiose incoraggiò il compositore a mettere in musica un’altra commedia di Goldoni, I Rusteghi (1760), dalla quale Giuseppe Pizzolato ricavò il libretto per I quattro Rusteghi, definita Una commedia musicale in tre atti. L’opera debuttò il 19 marzo 1906 al Nationaltheater di Monaco nella versione in tedesco di Hermann Teibler ottenendo un enorme successo, mentre la versione italiana fu data al Teatro Lirico di Milano il 2 giugno 1914 diretta da Ettore Panizza e, dopo alcune settimane, alla Fenice di Venezia.

    Margarita e Lucietta, rispettivamente moglie e figlia dell’antiquario Lunardo, non sono felici perché non hanno alcun divertimento e il loro malcontento aumenta quando l’uomo, rientrato, comunica loro di aver invitato a cena tre amici, rozzi come lui, con le rispettive mogli. Allontanata la figlia, egli comunica alla moglie la sua intenzione di dare in sposa Lucietta a Filippetto, figlio di Maurizio, aggiungendo che i due non avrebbero dovuto incontrarsi. Intanto, nella casa di Simon, Filippetto si lamenta con la zia Marina del fatto che il padre gli voglia dare in moglie una ragazza che non conosce ottenendo dalla donna la promessa che lo avrebbe aiutato. In quel momento entra Simon che comunica alla moglie di aver ricevuto un invito a cena a casa di Lunardo ma lei rifiuta dicendo che preferisce andare a letto. Il marito allora le proibisce di ricevere ospiti avendo visto che lei ha accolto Felicia alla quale ha raccontato i problemi del nipote in modo che questa possa aiutarlo. Giunti gli ospiti (Simon e Marina, Felicia e Canciano) a casa di Lunardo, le donne si appartano per discutere un piano da attuare e in quel momento irrompono nella stanza il conte Riccardo e Filippetto, quest’ultimo travestito da donna. L’improvviso ingresso degli uomini costringe le donne a nascondere Filippetto e il conte i quali, sentendo Lunardo comunicare alla figlia che sta festeggiando l’impegno preso e Maurizio dichiarare che il figlio è scomparso con un certo conte Riccardo, escono dal nascondiglio causando un tumulto fra i presenti. Nel negozio di Lunardo gli uomini si sono riuniti per discutere su ciò che era avvenuto affermando che le donne avrebbero dovuto essere punite con maggiore severità, ma, quando giungono le donne per scusarsi con i loro mariti e i due giovani fidanzati, tutti festeggiano.

    Musicalmente la partitura mostra la sua chiara influenza mozartiana con una struttura costituita da arie, duetti e concertati e una scrittura che attinge a stilemi dell’opera buffa settecentesca con ribattuti che imitano il parlato.

    Il 4 dicembre 1909 al Nationaltheater di Monaco di Baviera con la direzione di Felix Mottl andò in scena Il segreto di Susanna, un intermezzo in un atto su testo di Enrico Golisciani, tradotto in tedesco da Max Kalbek col titolo Susannens.

    La vicenda ha luogo in Piemonte agli inizi del XX secolo. Il conte, tornato a casa molto seccato perché convinto di aver visto la moglie Susanna camminare sola per la strada nonostante la sua proibizione, sentendola suonare il pianoforte, si tranquillizza non sapendo che la moglie era rientrata poco prima di lui. Il suo sollievo dura poco perché, entrando nella stanza, sente odore di tabacco, un fatto insolito dal momento che né lui né la moglie né il servo Sante fumano. Pensando che la moglie lo tradisca, le chiede spiegazioni pur vergognandosi dei suoi sospetti ma, abbracciandola, scopre che l’odore proviene proprio dai suoi vestiti. Susanna ammette allora di avere un segreto che non vuole rivelare facendo infuriare il conte che mette a soqquadro la casa. Quando, però, esce per recarsi al club, la moglie gli porta l’ombrello e i due fanno pace. Uscito il marito, Susanna apre il pacchetto affidato al servo appena entrata a casa e i due si mettono a fumare. Era questo il segreto di Susanna. Rientrato all’improvviso il conte e sentito nuovamente l’odore di tabacco, riprende la sua ricerca di un amante misterioso senza successo, ma, quando, uscito nuovamente, rientra convinto di cogliere la moglie in flagrante, finalmente scopre il segreto della donna. I due si perdonano a vicenda e, giurandosi eterno amore, fumano insieme.

    Musicalmente l’opera è costituita da tre arie e tre duetti alternati tra di loro nei quali, come modelli, all’amato Mozart si affiancano il Verdi del Falstaff e il Rossini del Barbiere di Siviglia.

    Dopo il successo delle prime tre opere Wolf-Ferrari volle tentare il dramma verista, un’opportunità offertagli da Enrico Golisciani il quale, in collaborazione con Carlo Zangarini, scrisse il libretto de I gioielli della Madonna, basato su un evento realmente accaduto, il cui argomento a fosche tinte oscilla fra la violenza primitiva e sfrenata e la religiosità superstiziosa in una città, Napoli, non priva di contraddizioni perché, ai cittadini poveri al limite della sopravvivenza ma inclini alla festa e al divertimento, fanno da contrasto quelli privi di moralità e, nello stesso tempo, bigotti. L’opera fu rappresentata il 23 dicembre 1911 al Kurfürstenoper di Berlino col titolo Der Schmuck der Madonna, mentre la première italiana ebbe luogo soltanto nel 1953.

    Atto primo. Nella piazzetta adiacente al golfo di Napoli, dove si trovano la casa di Carmela, la capanna di Abiaso e la bottega del fabbro Gennaro, vi è un andirivieni di persone in attesa della processione della Madonna. Nella sua bottega Gennaro sta ultimando un candelabro in ferro da offrire alla Madonna alla quale ha rivolto la fervente preghiera di essere aiutato a conquistare il cuore di Maliella (Madonna, con sospiri), una ragazza molto bella, adottata da Carmela per adempiere ad un voto fatto alla Madonna quando le aveva chiesto la grazia per il figlio malato. Segue un commovente duetto fra la madre, che esorta il figlio ad andare in chiesa a pregare la Madonna, e Gennaro che le chiede la sua benedizione. Dopo il passaggio della Madonna, Maliella è raggiunta da Rafaele, il capo di una banda di camorristi, che le dichiara il suo amore da lei rifiutato sdegnosamente ferendolo con uno spillo del cappello e gettando via i fiori che le ha offerto, per poi riprenderli quando egli le sussurra all’orecchio che per lei avrebbe rubato i gioielli della Madonna.

    Atto secondo. È tarda sera e Carmela va a dormire. Rimasti soli nell’orto, Gennaro dichiara il suo amore a Maliella la quale, rifiutandolo in nome della sua libertà, gli comunica la sua intenzione di voler andarsene. Gennaro, tentando ancora di trattenerla, la bacia appassionatamente suscitando la meraviglia di Maliella che gli dice di amare Rafaele, pronto a rubare per lei i gioielli della Madonna. A queste parole Gennaro, dopo aver chiuso il cancello per impedirle la fuga, prende i suoi attrezzi e sparisce nell’oscurità della notte. Durante la sua assenza, preceduto dal coro dei suoi uomini, arriva Rafaele che canta una serenata a Maliella la quale scende nel giardino e gli dice di essere pronta a seguirlo dandogli appuntamento per il giorno seguente. Gennaro, ritornato a casa, mostra i gioielli della Madonna a Maliella la quale, dopo un primo momento di stupore, ne indossa alcuni e, immaginando di essere vicina all’uomo amato, gli si concede.

    Atto terzo. È quasi l’alba e nel covo dei banditi le donne accolgono con gioia gli uomini che sono tornati da alcune fortunate spedizioni. In quel momento arriva Maliella scarmigliata che racconta a Rafaele quanto era accaduto quella notte, scatenando l’ira dell’uomo che ordina ai suoi di portargli Gennaro vivo o morto. Non ottenendo da Maliella risposta alle domande sui particolari dell’accaduto, la strattona gettandola a terra e lo scialle, apertosi, mostra i gioielli della Madonna. Nel frattempo arriva Gennaro pentito e Maliella, alla sua vista, gli getta i gioielli maledicendolo e gridando: Ah! Perduta! Nel mare! pentita per aver commesso un sacrilegio. Tutti sono presi dal terrore e, sentendo le campane suonare per l’avvenuto furto, fuggono per paura di essere accusati, lasciando solo Gennaro il quale, in preda ad una crescente allucinazione, si pugnala a morte cadendo davanti all’altare della Madonna che si trovava in una parete del covo.

    Fallito il tentativo di un’opera verista, Wolf-Ferrari ritornò al classicismo di stampo mozartiano con L’Amor Medico, opera in due atti, rappresentata per la prima volta, nella versione tedesca di Richard Batka, col titolo Der Liebhaber als Arzt, il 4 dicembre 1913 alla Semperoper di Dresda, mentre la prima in Italia si tenne il 6 marzo 1929 al Teatro Regio di Torino diretta da Franco Capuana.

    Nel giardino della sua ricca villa, nelle vicinanze di Parigi, Arnolfo, dopo aver congedato gli amici, è raggiunto dalla figlia, da lui trattata come se fosse ancora una bambina, alla quale, per rallegrarla, canta una ninnananna che non sortisce alcun effetto sulla tristezza della giovane. Visto il fallimento dei suoi sforzi, preso da un sospetto per lui sconvolgente, chiede alla figlia se è innamorata e, alla sua risposta positiva, confermata dalla serva Lisetta che ribadisce la necessità di trovare un marito alla giovane, va su tutte la furie e si allontana. Rimasta sola, Lucinda sente la voce di Clitandro, ansioso di sapere se il suo amore è corrisposto, ma la giovane, sopraffatta dall’emozione, non riesce a rispondergli creando un equivoco tale da farlo allontanare deluso. Lucinda, disperata, chiede aiuto a Lisetta la quale le propone l’attuazione di un piano per risolvere il problema. Arnolfo, sempre più preoccupato, si addormenta ma viene improvvisamente svegliato dalle grida di aiuto di Lisetta che invoca, per la padroncina, l’urgente presenza di un medico. Del parapiglia, creatosi con l’arrivo degli amici e di medici, approfitta Lisetta che va a chiamare il medico che so io. Quando i quattro medici, che hanno visitato Lucinda senza capire di quale male la giovane soffra, vanno via, giunge Lisetta con il dottor Codignac (Clitandro), le cui virtù taumaturgiche vengono esaltate dalla serva che lo definisce il re dei medici. Il finto medico, dopo aver visitato Lucinda, dichiara che la malattia non è fisica, ma dell’anima, dal momento che la giovane è ossessionata dall’idea del matrimonio. Come cura, propone di organizzare un finto matrimonio alla presenza di un falso notaio, offrendosi lui stesso come sposo. Arnolfo accetta e troppo tardi comprende di essere stato ingannato perché il matrimonio era avvenuto in presenza di un vero notaio, mentre vede i due giovani fuggire insieme.

    Il modello mozartiano appare evidente già nell’ouverture ricca di quel brio presente in molte pagine della partitura, tra cui l’arietta di Lisetta È un marito che ci vuole.

    Il 19 febbraio 1925 andò in scena al Teatro La Fenice di Venezia l’opera in tre atti Gli amanti sposi, ispirata alla commedia Il ventaglio, i cui protagonisti sono la marchesa Rosalba e il Cavaliere Giacinto, due sposi che, pur amandosi ancora, sono separati per il comportamento discutibile dell’uomo.

    Durante una festa Giacinto, vedendo Rosalba circondata da numerosi corteggiatori, decide di riconquistarla utilizzando la giarrettiera persa dalla donna e che lui aveva raccolto. Madame Floris, proprietaria di un atelier frequentato da Rosalba, gli suggerisce di rapirla, ma il piano non funziona perché Giacinto e i suoi complici mascherati vedono la donna rientrare all’alba accompagnata da un visconte suo amico. Alla vista dell’uomo, Giacinto, roso dalla gelosia, lo sfida a duello ma viene interrotto da Rosalba che, per separarli, rimane ferita. L’accaduto riaccende l’amore fra i due che decidono di ritornare a vivere insieme e, mentre tutti cadono dal sonno, Giacinto rende la giarrettiera a Rosalba che se la lascia allacciare.

    Può essere considerata verista anche Sly, ovvero La leggenda del dormiente risvegliato, in tre atti, su libretto in italiano di Giovacchino Forzano basato sul prologo di The Taming of the Shrew di William Shakespeare mentre la traduzione in tedesco fu effettuata da Walter Dahms. Nell’opera, infatti, ad elementi frivoli si accompagnano altri di matrice verista, come la discussione fra gli avventori di una taverna (atto primo), il primo duetto fra Sly e Dolly (atto secondo) e il drammatico brano intonato da Sly, No, io non sono un buffone. Alla prima rappresentazione, avvenuta alla Scala il 29 dicembre 1927 con il grande tenore Aureliano Pertile e Mercedes Llopart che all’ultimo momento sostituì Margaret Sheridan, l’opera ebbe un successo così strepitoso da essere ripresa più volte anche in altre città tra cui Venezia e Napoli.

    Protagonista è Sly, un povero ubriaco che la sera si diverte con gli amici all’osteria, innamorato ricambiato di sua moglie Dolly. Dal momento che è oggetto di burle da parte del conte di Westmoreland, egli fa credere di essere un nobile ma, quando si scopre la verità, preferisce uccidersi piuttosto che tornare alla dura realtà lasciando nella disperazione la moglie Dolly.

    Il 21 aprile 1927 al Nationaltheater di Monaco andò in scena, sotto la direzione di Hans Knappertsbusch, Das Himmelskleid, in tre atti, su un testo dello stesso compositore tradotto in tedesco da Walter Dahms. L’accoglienza poco favorevole del pubblico deluse le aspettative del compositore che aveva fatto molto affidamento su quest’opera.

    Una principessa, diventata regina di un piccolo regno alla morte del padre, dichiarando che avrebbe sposato l’uomo capace di portarle in dono le vesti del vento, della luna e del sole, ne fa richiesta ad un principe di cui è innamorata. Disperata per il fallimento di un’impresa oggettivamente impossibile, rompe un asino d’oro che, regalato al padre da un vecchio mendicante, aveva assicurato fino a quel momento la prosperità del regno. Cacciata dal regno andato in rovina, la principessa, rinsavita, si rende conto che ciascuno ha in se stesso la propria veste di cielo e accoglie il principe ritornato da lei con grande soddisfazione del vecchio mendicante.

    Wolf–Ferrari ritornò a Goldoni con La vedova scaltra, in tre atti, su testo di Mario Ghisalberti. Rappresentata per la prima volta al Teatro dell’Opera di Roma il 5 marzo 1931 con la direzione di Gino Marinuzzi, fu ripresa alla Fenice di Venezia nel febbraio 2007 in occasione delle celebrazioni per il trecentesimo anniversario della nascita di Carlo Goldoni.

    La ricca vedova Rosaura, ancora giovane, vorrebbe prendere nuovamente marito e cerca di valutare quale sia adatto a lei tra i quattro pretendenti: il Milord inglese Runebif, il francese Monsieur Le Bleau, lo spagnolo Don Alvaro, l’italiano Conte di Bosconero, i quali, rispettivamente, le regalano un diamante, un ritratto, l’albero genealogico della famiglia e una lettera d’amore in cui non mancano accenti di gelosia. Essendo indecisa, per mettere alla prova la costanza dei quattro uomini, si presenta a ciascuno, di volta in volta, nelle vesti di una connazionale attraente, cercando di sedurli. L’unico rimasto insensibile ai suoi approcci è il Conte di Bosconero che diventa, così, suo marito.

    La vedova scaltra, che si sviluppa su due livelli, dei quali il primo corrisponde alla scena principale, l’altro ad un teatrino in cui la protagonista è Rosaura (un teatro nel teatro), è sicuramente una delle opere più belle di Wolf-Ferrari per il carattere brioso e la ricchezza dei timbri e degli stili. Tra le pagine più interessanti si segnalano l’arietta di Rosaura, Vane ubbie, miraggi vani e il quartetto Non credevo così di buon’ora caratterizzato da una freschezza e brillantezza ritmica.

    Il modello mozartiano, al quale si aggiunge una certa influenza del Falstaff di Verdi, riappare ne Il Campiello, in tre atti su libretto di Mario Ghisalberti tratto dall’omonimo lavoro di Carlo Goldoni. Essendo l’opera incentrata sulla vita dei cittadini veneziani, l’autore fece un largo uso del dialetto locale ad eccezione per due personaggi di origine napoletana. La première ebbe luogo al Teatro alla Scala di Milano l’11 febbraio 1936 con la direzione di Gino Marinuzzi e con la regia di Marcello Govoni.

    L’azione si svolge a metà del XVIII secolo in una piccola piazza (Il Campiello) sulla quale si affacciano una locanda, dove alloggia Astolfi, un gentiluomo napoletano spendaccione e amante delle donne, e alcune case delle quali una è abitata dalla pretenziosa Gasparina, nipote di Fabrizio, un napoletano amante dei libri, un’altra da Cate e da sua figlia Lucieta, innamorata del merciaio Anzoleto. Lucieta è in contrasto con Gnese che vive con la madre Donna Pasqua il cui ruolo, insieme a quello della madre di Lucieta, è interpretato da uomini. Inoltre Gnese è innamorata di Zorzeto che abita nella piazza con la madre Orsola. Proprio in questa piazzetta scorre la vita dei protagonisti tra amoreggiamenti e litigi spesso per motivi di gelosia dal momento che il napoletano Astolfi passa il suo tempo a corteggiare le ragazze da marito. Alla fine si risolvono i contrasti fra Lucieta e Anzoleto, Gnese e Zorzeto mentre Astolfi, attirato dalla ricca dote che Fabrizio ha destinato alla nipote, finisce per sposare Gasparina.

    La partitura, estremamente vivace soprattutto nel primo atto, fluisce in un susseguirsi di ariette e brevi duetti la cui distinzione appare piuttosto labile dando l’impressione di un continuum, mentre del secondo atto protagonista è il coro.¹¹

    Mario Ghisalberti fornì a Wolf-Ferrari i libretti delle sue due ultime opere, La dama Boba e Gli dei a Tebe. La dama Boba, in tre atti, ebbe la sua première allo Stadttheater di Magonza il 16 giugno 1937, mentre la prima italiana ebbe luogo alla Scala di Milano il 1° febbraio 1939 riscuotendo unanimi consensi da parte del pubblico e della critica. Gli dei a Tebe, in tre atti, fu rappresentata all’Opernhaus di Hannover il 4 giugno 1941 con la traduzione in tedesco dal titolo Der Kuckuck in Theben fatta da Franz Rau.

    1.3. La generazione dell’Ottanta

    1.3.1. Ottorino Respighi

    Famoso per la sua produzione strumentale nella quale diede prova di grande virtuosismo orchestrale, acquisito anche grazie alle sue esperienze straniere, soprattutto russe e francesi, Ottorino Respighi (Bologna 1879 – Roma 1936) non mancò di dare un importante contributo al rinnovamento del teatro d’opera.

    Esordì con Re Enzo, opera comica in tre atti e quattro quadri su libretto di Alberto Domini, che, scritta per gli studenti dell’Università di Bologna, fu rappresentata al Teatro del Corso della stessa città il 12 marzo 1905 interpretata da studenti bolognesi. L’opera fu accolta favorevolmente dalla critica che mise in evidenza le vaste conoscenze musicali del compositore e la sobrietà della sua vena melodica.

    Protagonista è il re di Sardegna Enzo il quale, sconfitto nella battaglia di Fossalta, viene fatto prigioniero dai Bolognesi e rinchiuso in un palazzo che, in seguito, ha preso il suo nome. La sua bellezza fa invaghire le donne della città che cercano in tutti i modi di liberarlo suscitando la gelosia e la preoccupazione degli uomini che temono di perdere l’amore delle loro mogli.

    Dopo aver iniziato la composizione di Al mulino, su libretto di Alberto Domini, rimasto incompiuto per quanto riguarda la strumentazione, Respighi ritornò al teatro con Semirâma su libretto di Alessandro Coré. In quest’opera, in tre atti, si nota già l’evoluzione della personalità artistica dell’autore che, volendosi allontanare dal teatro verista italiano, cercava una propria strada avvicinandosi alla musica francese dell’epoca e a Richard Strauss sia per la concezione del dramma sia per il contenuto passionale e primitivo sia per la mescolanza di melodie, dalla più semplice alla più complessa, sia, infine, per la costruzione dei temi basati sul dinamismo. La première ebbe luogo il 20 novembre 1910 al teatro Comunale di Bologna, sotto la direzione di Rodolfo Ferrari, con Elsa Bland e Giuseppe Borgatti. Il successo fu strepitoso, testimoniato dalle numerose chiamate per il compositore e gli artisti, ma non furono sereni i giorni precedenti la prima; non mancarono, infatti, i pettegolezzi di «un piccolo gruppo di colleghi» senza trascurare un curioso episodio consistente nel ritrovamento, proprio il mattino della prima, sul terrazzino della casa, di un certo numero di fiaschi con la scritta: «un anticipo di questa sera». Inoltre, sul «Giornale delle Beffe» era apparsa con una caricatura dello stesso Respighi la seguente strofetta:

    Ottorino Respighi qui mostriam / A quei che non l’hann visto al Comunal

    Gran sinfonista e autor di Semirâma / Ch’è un’opera davver… d’ottorinal.

    Però qualche maligno ha detto già / Ch’egli ha… respigolato qua e là.¹²

    La vicenda è ambientata nell’antica Babilonia dove la regina Semirama, amante del tetrarca Falasar che le aveva ucciso il marito e allontanato il figlio Ninga, si invaghisce di Merodach, uno sconosciuto e valoroso condottiero tornato vincitore da una guerra. Il giovane ha rivisto Susiana, una sua compagna d’infanzia, e i due, ricordando la loro antica amicizia, tornano a frequentarsi ignari della possibile reazione della regina accesa da una forte passione per Merodach. Intanto Falasar, accortosi della nuova passione di Semirama e temendo di perderla, si rivolge, per avere un responso, all’arcimago Ormus. La regina manifesta chiaramente a Falasar le sue intenzioni di sposare Merodach e non crede alle parole dell’amante il quale le comunica che il giovane non è altri che suo figlio Ninga. Durante i preparativi per la celebrazione del matrimonio tra Semirama e Merodach, Falasar rivela a Susiana la vera identità del giovane che, credendo si tratti di una calunnia, tenta di uccidere il tetrarca, ma nell’oscurità colpisce a morte la propria madre.

    Dopo il successo di Semirâma Respighi, rifiutate varie proposte, cedette a quella di musicare Marie–Victoire su libretto in francese di Edmond Guiraud tratto dal suo omonimo dramma rappresentato il 7 aprile 1911 al Teatro Antoine di Parigi e ambientato nel periodo della Rivoluzione Francese. L’opera, alla quale Respighi lavorò fra il 1911 e il 1914, a causa dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, non fu mai rappresentata mentre era in vita il compositore e vide le scene solo il 27 gennaio 2004 al Teatro dell’Opera di Roma con la direzione di Gianluigi Gelmetti e la regia di Hugo de Ana.

    Il nobile Maurice, costretto dagli eventi drammatici della Rivoluzione a vivere nel suo castello con la moglie Marie de Lanjallay, parte per la Bretagna avendo appreso dall’amico Cloriviére che suo padre è in pericolo. Dopo la sua partenza Cloriviére viene arrestato dai rivoluzionari. È il nono termidoro, il secondo anno della Repubblica, corrispondente al 27 luglio 1794, e nella cappella di un convento, trasformata in prigione, si trovano rinchiusi, dopo l’arresto, Marie e Cloriviére, sorvegliati dal carceriere Cloteau, un tempo servo della donna. Alla notizia della loro condanna a morte, Cloriviére ricorda a Marie di averle confessato, un giorno, il suo amore per lei. Revocata la condanna, in seguito alla morte di Robespierre, Marie, della quale ha abusato Cloriviére, vive povera nel retrobottega di un negozio di moda con il figlio di cinque anni, Georges, e con Cloteau da lei perdonato. Nello stesso giorno in cui Cloriviére, che sta per lasciare definitivamente la Francia, va a trovarli per rivedere il figlio per l’ultima volta, Marie riceve la visita di Maurice ritornato dall’America dove si era rifugiato credendo la moglie morta. La donna sta confessando al marito di aver avuto un figlio da Cloriviére, quando irrompe nella casa quest’ultimo inseguito dalla polizia perché sospettato di aver attentato alla vita di Napoleone Bonaparte. Nella confusione creatasi viene arrestato Maurice che non reagisce, disperato per il presunto tradimento della moglie. Durante una seduta notturna in una sala del Tribunale Criminale della Senna, Marie implora Maurice a difendersi raccontandogli che è stata violentata da Cloriviére. L’uomo, esortato dal pubblico impietositosi all’udire quella storia, perdona la moglie ma rifiuta di rivelare l’identità dell’attentatore. È proprio lo stesso Cloriviére, presente nella sala, ad accusarsi; poi si spara intonando la stessa canzone, non gradita ai rivoluzionari, che era stata cantata da Marie all’inizio dell’opera.

    Nel 1916, anno particolarmente triste per la morte della madre, Respighi, ripresosi da una forte depressione, ritornò alla sua attività con la composizione contemporanea, com’era solito fare, di un lavoro più impegnativo, il poema sinfonico Le Fontane Romane, e di un altro più leggero, l’opera La Bella addormentata nel bosco, commissionatagli da Vittorio Podracca per essere rappresentata al Teatro dei Piccoli, dove avrebbe dovuto essere interpretata da marionette con l’accompagnamento orchestrale e con i cantanti. Il soggetto, tratto dalla celebre fiaba dei fratelli Grimm, piacque a Respighi che affidò la stesura del libretto a Gianni Bistolfi. Sebbene il compositore avesse iniziato a lavorare alla partitura così intensamente da avere pronta, nel mese di ottobre, la musica delle prime due scene, la composizione subì un notevole ritardo per i suoi numerosi impegni per cui l’opera poté essere rappresentata per la prima volta soltanto il 13 aprile 1922 al Teatro Odescalchi di Roma con un successo strepitoso testimoniato dalle numerose chiamate al compositore. Invitato dal Teatro Regio di Torino per alcune rappresentazioni che prevedevano la presenza di cento bambini con la funzione di mimi, dei cantanti e delle voci recitanti in orchestra, Respighi attuò una nuova versione che andò in scena nel 1934 col titolo La Bella dormente nel bosco.

    Tornò a scrivere per il teatro, quando nel mese di novembre 1919 l’editore Ricordi gli commissionò un’opera sul dramma Belfagor di Ercole Luigi Morselli, che sarebbe stato ridotto a libretto da Claudio Guastalla. Il soggetto piacque al compositore che contattò immediatamente Morselli per l’autorizzazione a comporre Belfagor, commedia lirica in un prologo, due atti e un epilogo. Completata nel mese di settembre del 1922, l’opera fu rappresentata al Teatro alla Scala di Milano il 26 aprile 1923 riscuotendo un largo consenso da parte del pubblico, come dimostrano le numerose chiamate all’autore, nonostante le aspettative della vigilia fossero state poco rosee.¹³ Contrastanti furono i pareri della critica: da quelli entusiastici del leader del Futurismo Marinetti, colpito dagli aspetti futuristi dell’opera,¹⁴ a quelli che, pur giudicando positivamente la musica, ritennero che il testo fosse troppo letterario.

    In un piccolo paese giunge Belfagor il quale dice allo speziale Mirocleto, padre di tre figlie da marito, Candida, Fidelia e Maddalena, che è venuto dagli Inferi per accertarsi se corrispondono a verità le lamentele di molti uomini morti i quali affermano che il matrimonio è stato il loro inferno. A tale scopo egli, che ha a sua disposizione una gran quantità di denaro, deve cercare una moglie con la quale vivere per dieci anni. Così, assunte le sembianze di un uomo molto ricco e bello, Belfagor, sotto il falso nome di Ipsilonne, si presenta a casa di Mirocleto e sceglie per moglie Candida, l’unica delle tre figlie rimasta indifferente al suo fascino anche perché innamorata del marinaio Baldo. I suoi genitori, Mirocleto e Olimpia, di fronte al denaro, acconsentono al matrimonio incuranti della disperazione della figlia. Celebrato il matrimonio, Candida va a vivere con Ipsilonne in un sontuoso castello, ma non cede al marito non consumando il matrimonio. Un giorno, con l’aiuto di Baldo, Candida riesce a fuggire e i due si rifugiano nella casa del prevosto. Trascorso un po’ di tempo, nella piazza del paese appare Belfagor nelle vesti di un vagabondo. Avvicinatosi a Baldo, gli fa credere che Candida è stata con Ipsilonne il quale, poi, era fuggito vantandosi di essersi divertito con la giovane. Candida inutilmente cerca di dimostrare all’amato la sua innocenza e il carattere calunnioso del racconto del vagabondo. Soltanto quando, disperata, si rivolge alla Madonna per chiederle un miracolo, Baldo cede alle sue suppliche vedendo la concretizzazione del miracolo; le campane, infatti, cominciano a suonare da sole.

    Nella partitura, oltre alla serenata di Baldo tratta da un antico madrigale del XVI secolo di Alfonso Del Vasto, richiami cinquecenteschi sottolineano l’entrata in scena del Maestro Mirocleto che interrompe il duetto tra Baldo e la fidanzata, mentre la musica diventa effervescente nell’accompagnamento della lunga filastrocca intonata da Belfagor presentatosi come Ipsilonne. Una scrittura grottesca, umoristica e varia accompagna tutta l’opera, ma, nonostante la ricchezza della strumentazione e delle qualità timbriche e cromatiche, essa non presenta un’unità stilistica.

    Nonostante l’esito contrastato di Belfagor, Respighi, che considerava il teatro come una nuova conquista da raggiungere, progettò un’opera che fosse, nello stesso tempo, poetica e fantastica, reale e trascendente, in una struttura drammatica, cioè un’allegoria di una favola o di una festa attraverso personaggi che trascendevano appunto l’umana realtà. L’editore non accettò la proposta rompendo ogni trattativa, ma Respighi e il suo librettista Guastalla portarono a termine il loro progetto. Nacque così La Campana sommersa su un libretto tratto dalla commedia Die Versunkene Glocke di Gerhart Hauptmann. L’opera, pubblicata dalla Casa Editrice berlinese Bote & G. Block fu rappresentata sotto la direzione di Werner Wolff, ad Amburgo il 18 novembre 1927 nella versione tedesca curata dallo stesso Wolff con notevole successo sia presso il pubblico che presso la critica.¹⁵ Caduta in oblio dopo la morte di Respighi, La campana sommersa è stata ripresa in un pregevole allestimento nel mese di aprile del 2016 al Teatro Lirico di Cagliari sotto la direzione di Donato Renzetti, la regia di Pier Francesco Maestrini e con Valentina Farcas (Rautendelein), Maria Luigia Borsi

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