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L'ultima frontiera
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L'ultima frontiera

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L'azione del romanzo storico “L'ultima frontiera” ha luogo tra le rovine di Novorossijks - una piccola città sulle rive del Mar Nero quasi completamente spazzata via dalla faccia della terra in seguito alle feroci battaglie con gli invasori nazifascisti negli anni 1942-1943.
E' un tempo molto difficile per la Russia che è drasticamente esaurita dopo una serie completa di sconfitte schiaccianti. Ciascuno dei protagonisti lo sperimenta a suo modo. Alcuni di essi mostrano vette senza pari di resilienza e coraggio , altri tentano di sistemare vecchie questioni per salvare le loro vite per mezzo dell'inganno e del tradimento.
Ma per tutti loro, così come per le truppe della Wehrmacht - molte volte superiori -, che corrono verso il Caucaso, le feroci battaglie nei cementifici ai margini orientali di Novorossijsk sono in qualche modo la loro ultima frontiera, su cui devono fare una scelta difficile - morire o vincere.
Il soggetto è basato sul destino di due amici completamente dissimili, combattenti del 305° battaglione di Marina sovietico - Andrej Novitskij (nativo di Novorossijsk) ed Endel Mari (estone). Essi, miracolosamente sopravvissuti nella mortale battaglia nella Vallata di Adamovič, non esitano a rispondere alla proposta  del loro comandante, il maggiore Cezar' Kunikov, di andare in una battaglia perfino più feroce - in un ardito sbarco notturno sulla riva occidentale della Baia del Cemes, sull'ora leggendaria testa di ponte della Malaja Zemlja.
Talvolta il romanzo è terrificante nel descrivere le atrocità naziste e gli orrori della guerra. Allo stesso modo l'autore non risparmia né i suoi protagonisti, né i lettori, esponendo successivamente, pagina dopo pafina, il terribile prezzo della grande vittoria, che nessun eroismo e nessuna acquisizione degli alti capi militari giustificherà mai. Questo libro è un promemoria non solo di perché e grazie a chi abbiamo un cielo sereno sopra la testa, ma anche e piuttosto che questo non dovrà mai più succedere.
 

LanguageItaliano
PublisherBadPress
Release dateOct 13, 2021
ISBN9781071573891
L'ultima frontiera

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    Book preview

    L'ultima frontiera - Sergey Konyashin

    Da parte dell'autore o In breve su come e perché è stato scritto questo libro

    Konstantin Ivanovič, ridacchiando astutamente, mi disse:

    – Ma tu prendi e scrivilo da te!

    Questa era la risposta alla mia scherzosa domanda retorica sul perché sono state scritte così poche opere su una della pagine più eroiche della Grande Guerra Patriottica[1] – i combattimenti a Malaja Zemlja.

    – Mi sforzerò, – feci spensieratamente il suo gioco e subito dimenticai questa digressione dalla nostra conversazione sulla letteratura degli anni di guerra.

    Mi piaceva far visita a Konstantin Ivanovič nel suo piccolo appartamento nel quartiere della Stazione Fluviale di Mosca, pieno zeppo di libri rarissimi. La maggior parte di essi non trovava posto negli armadi stipati al limite ed erano posti in alte pile direttamente sul pavimento.

    Feci amicizia con lui molto rapidamente, subito dopo il mio ingresso allo MGIMO[2] e il mio trasferimento da Novorossijsk alla casa dello studente della capitale. Ottimo sceneggiatore, che sentiva con finezza il tessuto del materiale video, Konstantin Ivanovič mi aiutò enormemente con la tesi sul giornalismo televisivo, riconosciuta secondo i risultati degli esami una delle migliori dello scaglione. Poeta di prima classe, con una padronanza da virtuoso dell'arte della rima e del ritmo, mi insegnò a non temere la giungla della creazione e a sedermi con coraggio davanti a un foglio bianco. Ricercatore scrupoloso, in possesso di conoscenze enciclopediche, Konstantin Ivanovič condivise con me la capacità di vedere la grandezza nella semplicità, di valutare ogni palmo della terra nativa, che nasconde una storia infinitamente difficile, ma gloriosa. Infine, una persona semplicemente buona e sensibile, che aveva dato molti anni della sua non semplice vita per aiutare i bambini capitati in situazioni difficili, mi dette un esempio indimenticabile di luminosa abnegazione e di disinteressata sollecitudine per gli altri.

    Proprio così, da un lato un semplice e in qualche modo perfino ingenuo romantico, dall'altro un irraggiungibile ideale di profondissima intelligenza, talento naturale e virtuosa audacia, Konstantin Ivanovič è sempre rimasto nella mia memoria. Allora, alla vigilia della mia prima missione all'estero nello Yemen, io, certamente, non potevo sapere che la nostra lenta conversazione davanti a una tazza di tè e a un pezzo di torta di albicocche sarebbe stata, con mio amaro dispiacere, l'ultima...

    Prima del nostro addio Konstantin Ivanovič mi chiese di attendere in cucina e si allontanò in una stanza. Dopo un quarto d'ora tornò con due buste piene zeppe di libri, e, brillando di piacere, me li consegnò.

    – Cosa sono? – non capii subito, calcolando approssimativamente con terrore quanto potessero pesare le buste.

    – Come «Cosa»? – si stupì affettatamente Konstantin Ivanovič. – Opere di consultazione per il tuo futuro romanzo.

    – Quale romanzo? – chiesi, del tutto sconcertato.

    – Quello che mi hai promesso di scrivere, sedendo proprio qui, – con una mano fine, già tremante per la lunga malattia, Konstantin Ivanovič indicò la sedia da cui mi ero appena alzato.

    – Ah, sì, – mi ricordai. – Solo non di scrivere, ma di sforzarmi di scrivere...

    – Beh, d'accordo, d'accordo! – interruppe impazientemente. – Qui ci sono solo le cose fondamentali. Se hai bisogno ancora di qualcosa, dimmelo. Ho tutto.

    – Bene, – cantilenai, trascinando a fatica per il corridoio le pesanti buste...

    Non ingannai Konstantin Ivanovič e dopo il mio arrivo nello Yemen tentai effettivamente di iniziare il lavoro sul romanzo. Tuttavia mille piccoli affari nel servizio diplomatico, per me del tutto nuovo e da me non ancora molto chiaro, spostarono decisamente in uno degli ultimi posti ogni tentativo di creazione letteraria.

    La tragica notizia mi colse a meno di sei mesi dalla fine della missione. Fu dolorosamente pesante tornare in Russia, rendendomi conto che non avrei mai più avuto occasione di far visita a Konstantin Ivanovič, bere un tè con lui nella sua minuscola cucina, piena zeppa di libri come d'altronde la camera, e fino a tarda notte parlare di tutto e soprattutto di una piccola città sul Mar Nero da noi amata con passione, curva a ferro di cavallo lungo le rive della baia di Cemes.

    Nell'Apparato Centrale del Ministero degli Esteri passai poco meno di un anno, dopodiché fui di nuovo inviato in missione all'estero, stavolta in Sudan. A Khartoum, facendo la cernita dei file d'archivio nel vecchio notebook, mi imbattei casualmente in vecchi abbozzi, timidi e trascurati, di questo romanzo e già volevo premere il tasto «Canc», quando improvvisamente mi ricordai delle istruzioni di Konstantin Ivanovič. Dopo aver riflettuto qualche secondo ed essermi aggrappato alla prima giustificazione che mi era venuta in mente, «Infatti ho effettivamente promesso solo di sforzarmi, non di scrivere», volevo di nuovo premere il tasto «Delete». Tuttavia la voce interiore, educata nello spirito di intransigenza verso la falsità nei lunghi anni di contatti con Konstantin Ivanovič, notò giustamente «Ma tu non hai mai tentato per davvero» e mi toccò.

    Trovando il tempo nei giorni festivi e di sera, nelle festività e nei viaggi, rilessi attentamente i libri consegnatimi sulla storia della difesa di Novorossijsk – qualcosa dai classici di guerra sovietici, qualcosa da quelli tedeschi – e alla fine mi sedetti a scrivere. Verso la fine del 2016 la storia era a grandi linee conclusa, ma per molto tempo non mi decisi a sottoporla al giudizio del grande pubblico.

    Gli storici esperti, e non solo questi, indubbiamente, indicheranno le non corrispondenze fattuali nelle descrizioni della difesa di Novorossijsk nella seconda metà del 1942 e dell'operazione di sbarco nella cittadina di Stanička (adesso Malaja Zemlja) all'inizio del 1943. Prevedendo queste osservazioni, voglio sottolineare che i cambiamenti, consapevoli e inevitabili nell'ambito del processo creativo, nella descrizione di singoli fatti o intervalli di tempo, che non sminuiscono la grandezza dell'atto eroico di guerra dei difensori della nostra città, difficilmente saranno in grado di offendere la memoria di qualcosa. I leggendari avvenimenti di quegli anni sono abbastanza dettagliatamente documentati e coscienziosamente esposti in qualsiasi descrizione perlomeno metodica della Grande Guerra Patriottica e ognuno può permettersi di venirne a conoscenza.

    Io vedo come compito principale del mio libro – come in primo luogo opera d'arte – quello di ricordare ancora una volta e quanto più veridicamente mostrare al lettore, quanto qualsiasi guerra sia disgustosa e terribile nella sua primitiva crudeltà, come ineluttabilmente e indifferentemente tolga da ogni persona ciò che ha di più caro indipendentemente dai suoi meriti e dalle sue qualità personali.

    Ricordiamolo sempre, perché niente di simile possa ripetersi sulla nostra terra! E la conservazione di una grata memoria ne è il miglior pegno!

    Prologo

    Il ventiduesimo anniversario della liberazione dai fascisti[3] di Novorossijsk, ufficialmente non ancora città-eroina, fu accolto da questa con animati festeggiamenti popolari. Allora a Malaja Zemlja non era ancora stato eretto il grandioso museo-memoriale dall'aspetto di una prua di un mezzo da sbarco, da cui incontro al fuoco incenerente di cinque divisioni scelte tedesche saltano fuori i primi combattenti delle audaci truppe da sbarco di Kunikov, e come da gocce di sangue schizzate sull'erba smeraldina, era tutta coperta di grandi papaveri scarlatti.

    La leggendaria testa di ponte, quasi tutta circondata dai nuovi microquartieri di una Novorossijsk completamente ricostruita e fortemente ampliata dopo la guerra, restava un monumento praticamente intatto a quei terribili anni di combattimenti. Il terreno accidentato e pieno di buche nel luogo della cittadina periferica di Stanička, completamente distrutta a seguito dei durissimi combattimenti aveva ancora alti terrapieni che si alzavano intensamente, vi si aprivano profondi crateri ed era fittamente fatto a strisce dai lunghi tagli delle trincee scavate. Su di esso ancora nereggiavano gli scheletri bruciati e contorti dei carri armati, i frammenti di pezzi di artiglieria rotti, i denti di drago[4] rovesciati e le rovine delle case distrutte.

    Il nativo dell'estremo Nord della Russia Andrej Prozorov, che dopo aver terminato l'istituto della Marina Militare Nachimov di Leningrado era stato assegnato alla Flotta del Mar Nero, vagava lentamente tra le minacciose testimonianze coperte di erba alta di quella feroce battaglia, che con un sordo eco era rimbombata in tutto il mondo più di due decine di anni fa su questo minuscolo pezzo della linea costiera.

    Osservando con stupore la minuscola testa di ponte senza nascondigli naturali e fonti di acqua dolce, che nel lontano 1943 era stata passata da parte a parte da colpi di armi da fuoco, ogni zolla della quale era stata sovrastata per ore dall'aviazione hitleriana, che arava in lungo e in largo alcune volte al giorno con fuoco e metallo la terra bruciata, si immaginava con difficoltà, come suo padre avesse potuto combattere qui – in questa località deserta e quasi piatta, dove già a quel tempo non restava un solo alberello, né una costruzione intatta. Le armi pesanti tedesche e rumene disseminavano di migliaia di proiettili questa riva, che gemeva per le esplosioni ed annegava nel fuoco. I mezzi da sbarco e i sottomarini nemici bombardavano ininterrottamente di siluri le banchine costruite in fretta e furia e i dirupi costieri, facendoli crollare sulle teste dei combattenti feriti che attendevano l'evacuazione sulle strette spiagge pietrose. Ma nonostante tutto gli uomini che avevano combattuto disperatamente su questa terra avevano resistito e avevano vinto!

    Andrej giunse al limite della testa di ponte e vide un gruppo di fanti della marina in congedo. Uno di essi sedeva sulla carrozzeria bruciata di un carro armato tedesco e, estendendo il mantice di una fisarmonica vecchiotta, con voce forte e spericolata cantava un'audace canzone di guerra:

    Il tempestoso mare oltre il bordo muggisce.

    A un aspro combattimento la Patria ci chiama.

    Attratto dalla canzone, Andrej si avvicinò. I commilitoni che circondavano il fisarmonicista facevano vivacemente il coro:

    Sull'incandescente riva batteva la brusca risacca.

    Sulla notturna Stanička infuriava il combattimento.

    Il rombo dei cannoni l'aria lacerava.

    Kunikov col distaccamento la riva assediava.

    Il palmo caldo di qualcuno toccò con cautela la mano di Andrej. Si guardò intorno, guardò in basso e vide vicino a sé una bimba piccola, che rodeva avidamente un'enorme mela.

    – Zio, compra un anellino, – propose facendo un ampio sorriso e tendendogli un fine anello di rame stretto tra le dita magre sporchissime di terra.

    – Com'è interessante! Dai, guardiamo cos'hai qui, – stando al gioco della bambina, prese a dire Prozorov con voce allegra e studiatamente forte.

    Prese dalla sua mano il vecchio anello un po' incurvato, lo pulì dalla terra umida che ci si era attaccata e lo esaminò attentamente. Sulla parte esterna si leggevano chiaramente le parole di una fine incisione «A Polina da Andrej».

    «Ma va', che coincidenza! – si stupi. – Un regalo pronto per la mia sorellina minore!»

    – Dove hai preso una cosa così bella? – chiese Andrej.

    – Io e Dimka l'abbiamo cavato fuori là, – rispose rapidamente la bimba, che lo guardava fisso, indicando con un dito sporco il capo opposto di Malaja Zemlja.

    – Uhm, bene, lo prendo, – come dubitando concordò Prozorov. – Quanto?

    – Quattro foglioline... – rispose piano la giovane venditrice, come non credendo di aver trovato così facilmente un acquirente per la sua semplicetta scoperta.

    – Beh, quattro sono quattro, – disse Andrej, cominciando a strappare foglie dall'albero più vicino.

    – Non di quelle! – prese a gridare la bambina. – Dimka non prende questi. Ci vogliono di castagno.

    – Come dici tu... – si scusò il marinaio.

    Si diresse verso un castagno in lontananza, ne strappò quattro tra le foglie più larghe e spesse che potesse raggiungere, e le dette alla bambina.

    – Prendete alla salute! – cinguettò questa gioiosa e, tenendo strette nel palmo le foglie verdi scure ammucchiate, corse via.

    Andrej guardò ancora una volta l'anello e, tolti da questo i resti di sporcizia, lo mise in tasca.

    Capitolo 1

    Il granatiere della 17.a armata della Wehrmacht Wilhelm Schultz camminava con sicurezza per il pavé di via Rubin sollevato dalle esplosioni. I bossoli sparati, che coprivano completamente la strada, volavano ai lati sibilando da sotto le suole dei sui pesanti stivali e schioccavano sonoramente contro i cordoli rotti. Tutta la via era disseminata di schegge ancora roventi e di frammenti carbonizzati delle case distrutte. Ai lati finivano di bruciare enormi pioppi e acacie falciati dall'artiglieria tedesca. Intorno giacevano cadaveri insanguinati, carbonizzati e fatti a pezzi. Per il tanfo pesante, che si spandeva nella straordinaria calura settembrina, mancava il respiro e girava la testa.

    Wilhelm socchiuse gli occhi accecati dall'ardente sole del Mar Nero e mise le stanche mani sul mitra graffiato nei recenti feroci combattimenti, che gli ballonzolava appeso al collo. «Prendere questo porto si è rivelato più semplice che mai», – rifletteva con un ghigno sul volto il granatiere, osservando con indifferenza le rovine fresche. «Forse leggere sulle carte stropicciate il suo nome lungo e incomprensibile è stato più difficile», – continuò a bofonchiare Schultz.

    Invece di un esercito rispondente a tutti i requisiti sulla riva della baia di Cemes le truppe tedesche avevano incontrato poco numerosi e disuniti gruppi di marinai di navi recentemente affondate e un raduno di drappelli partigiani male addestrati, vestiti di stracci e armati di trofei bellici. «Ancora un po', – sognava Schultz, – e da dietro le cime rocciose del Caucaso appariranno, alla fine, queste torri petrolifere del diavolo, che gli avevano ripetuto tante volte i sostenuti generali tedeschi, e se ne sarebbe andato a casa vincitore. E allora che già i turchi, gli italiani o perfino i rumeni, che avanzavano per la via vicina, piantassero gli ultimi chiodi nel coperchio della bara per questo paese enorme e selvaggio». Più di tutto ora aveva voglia di raggiungere finalmente il Molo di Cabotaggio alla stazione marittima, da cui su alcune navi sopravvissute i russi avrebbero evacuato da Novorossijsk i resti degli armamenti e dei viveri, i soldati feriti, le donne e i bambini. La distruzione di queste imbarcazioni, che evacuavano i combattenti sovietici gravemente feriti e portavano via dalla città condannata i resti degli armamenti e delle munizioni, avrebbe dovuto coronare il suo compito odierno.

    Il pesante rimbombo di un'assordante raffica di mitragliatrice interruppe i sogni del granatiere. Alcuni suoi amici, che erano andati avanti, caddero morti come falciati.

    «C'è un mitragliere sulla torre!» – risuonò nelle vicinanze.

    Schultz si lanciò a rotta di collo dalla strada dietro l'angolo di una casa distrutta. L'unica cosa che sentiva in questi secondi era il rapace sferragliare delle pallottole che proprio sotto i suoi piedi battevano nelle tonde pietre grigie di cui era lastricato il selciato e poi lo scricchiolio assordante del piombo nel muro di cemento dietro cui si era nascosto.

    Wilhelm espirò con sollievo. Certo, non era la prima volta che la morte gli era passata così vicino, ma forse per la prima volta l'aveva colto con un'arma appesa al collo e carica. «Il comandante del plotone aveva come detto chiaramente: La strada è libera. Da dove aveva potuto saltar fuori questo mitragliere?» Schultz cambiò il caricatore al mitra e guardò da dietro l'angolo. A una finestra al primo piano dell'antica torre di grigia pietra calcarea di Crimea si vedeva da lontano una silhouette sottile. «Pare che sia proprio un ragazzino...» Tuttavia il granatiere non fece in tempo a prendere la mira che dalla torre dalla sua parte rispose di nuovo furiosamente la mitragliatrice «Maxim».

    Il soldato balzò dietro l'angolo e fissò impaurito il muro che si trovava dietro la casa, da cui la raffica di mitragliatrice tagliava fitta alcune fontane di polvere di mattoni che avevano preso il volo verso l'alto. A tardare solo un attimo la sua testa si sarebbe trovata tra la raffica da mitragliatrice fatta uscire dalla canna della Maxim e questi mattoni sbriciolati in polvere rossa. «Se là c'è effettivamente un ragazzino, – penso Schultz, – se la cava molto bene con la mitragliatrice per la sua età».

    Dietro l'angolo della casa vicina tre serventi di un mortaio preparavano in fretta l'arma per il combattimento. Tuttavia ad uno dei soldati bastò alzarsi imprudentemente fuori dal riparo per fissare la canna sull'affusto che sulla giubba della sua uniforme comparvero subito delle profonde fenditure strappate e il sangue schizzò sui cordoli arroventati. Il servente mandò un grido e cadde lentamente su un fianco. La canna gli cadde di mano e rotolò via sul marciapiede ben preso di mira dalla torre.

    – Copriti! – gridò a Schultz il comandante dei serventi del mortaio.

    Wilhelm si tirò fuori da dietro l'angolo e, praticamente senza mirare, sparò quasi tutto il caricatore contro la finestra al primo piano. Un servente corse sul marciapiede, raccolse la canna e riuscì appena a tornare dietro l'angolo. Non appena nel vano della finestra si spensero le ultime scintille fatte partire dalle pallottole di Schultz dai muri e dallo scudo della mitragliatrice, la Maxim prese a sparare di nuovo. Stavolta nel canale di scolo cadde cadde con la testa trapassata un sergente del secondo plotone, nascostosi senza successo dietro le acacie sul lato opposto della strada.

    In quell'istante colpì pesantemente il mortaio da cinquanta millimetri raccolto comunque dietro la casa vicina. Con un fischio teso un proiettile penetrò nel bordo della finestra. Lo scoppio assordante strappò dalla torre un pezzo di muro e sollevò una fitta nuvola di polvere. Si accumularono nubi di fumo nero. Quando la nebbia di cenere si disperse, Schultz riconobbe nella finestra distrutta la mitragliatrice con lo scudo piegato, rovesciata sull'ampio davanzale esterno e coperta da un fitto strato di frammenti. In quel secondo dalle acacie ramose sull'altro lato della via si lanciarono verso la torre alcuni soldati, ritenendo, probabilmente che il mitragliere fosse rimasto ucciso o tramortito.

    Wilhelm spostò l'otturatore dell'arma e ad ogni evenienza mirò la finestra esplosa con la mitragliatrice rovesciata. Quando i soldati erano già a qualche decina di metri dalla torre, la sua porta si spalancò inaspettatamente. Sulla soglia stava un ragazzino scalzo dalla pelle olivastra con i pantaloni corti strappati e la maglietta da marinaio bruciacchiata, con una granata tedesca in mano. La sua testa era gravemente ferita, i capelli biondi chiari e il viso tutto sporco di lubrificante da fucili erano molto macchiati di sangue. Con un breve e raffinato movimento lanciò la granata sui soldati che accorrevano. «Correttamente, con una traiettoria spiovente, – riuscì a notare Schultz, – perché al momento dell'esplosione sia in volo discendente e non ci si possa gettare indietro». Il granatiere spostò il mirino sul ragazzino e premette il grilletto, ma quello era già sparito dietro la porta e le pallottole ne tagliarono via solo un mucchio di schegge.

    Risuonò un'esplosione. Un'alta fontana di terra ed erba saltò in aria con un colpo sferzante. A Wilhelm parve che i corpi fatti a pezzi dei suoi compagni non avessero ancora fatto in tempo a cadere a terra quando il ragazzino rimise in pedi la mitragliatrice rovesciata e frustò di nuovo la via con una lunga scarica. Un soldato, che in quel momento passava di corsa accanto al rifugio di Schultz evitando le pallottole, correndo ruzzolò verso di lui dietro l'angolo.

    – Hai visto che fa questo moccioso? – si accese, appoggiandosi a un muro con la schiena e afferrando più comodamente il mitra. – Cosa conta di fare non è chiaro.

    – Non parlare! – rispose con rabbia Wilhelm, gridando più forte del suono degli spari. – Gli avessero dato un calcio nel sedere e vai dove vuoi... Ma no! Evidentemente ha deciso anche lui di marcire qui con l'altra feccia russa.

    Per più di due ore Vitja Novickij da solo aveva resistito in via Rubin alla pressione di una compagnia tedesca. Le mani stanche premevano con le ultime forze il duro grilletto della mitragliatrice. Il sangue dalla testa ferita gli colava a rivoli vischiosi sul volto e sul colletto della maglietta da marinaio sporca e zuppa di sudore. Per gli angoli della stanza, ficcati con i volti insanguinati nella polvere di mattoni, giacevano gli ultimi marinai del cacciatorpediniere «Bditel'nyj»[5], uccisi da un proiettile di un carro armato tedesco qualche ora prima. L'esplosione era stata di tale forza che un fucile Mosin schizzato via dalla finestra si era conficcato per metà canna nell'acacia più vicina. Vitja in quel momento era nel sotterraneo – era corso a prendere le granate. Sentì che sopra era rimbombata un'esplosione assordante, dopodiché era giunto un lugubre silenzio tombale. I marinai non sparavano  e non gridavano più tra loro. Solo dall'esterno risuonavano talvolta brevi raffiche di mitra e solitari colpi di fucile, avaramente diluiti da bruschi e secchi ordini in lingua tedesca.

    Vitja prese la cassa con le granate, la trascinò per le scale nella stanza e si guardò intorno. I muri erano molto bruciati dalle esplosioni – fino a una nerezza violacea – e schizzati di sangue. C'era un puzzo terribile di polvere da sparo bruciata. Entrambi i suoi più anziani compagni d'armi – gli ultimi combattenti sovietici di piazza Oktjabr'skaja[6] – con le teste spaccate giacevano negli angoli della stanza coperti di polvere, schegge, pezzi di mattoni, frammenti di vetro e di proiettili. Sotto di loro si spandevano rapidamente pozze di sangue.

    La finestra, nel cui vano si era calmata la mitragliatrice, dava sull'angolo tra via Rubin e il vicolo Dekabristov[7]. Vitja guardò fuori con prudenza. Presso la torre, prendendo velocità, con uno scricchiolio sordo rumoreggiava un carro armato tedesco con una torretta quadrata nera. Dietro ad esso, strisciando fuori dalle trincee e dalle case distrutte, da dietro gli angoli e gli alberi, senza fretta e all'inizio non molto fermamente andavano avanti numerose silhouette verdi scure. Ma ad ogni passo, incoraggiati dal silenzio sopraggiunto, i crucchi[8] si muovevano sempre più rapidamente e con più sicurezza, aggregando in marcia le file irregolari e cominciando a ordinarsi per plotoni.

    Vitja strisciò impotente giù per il muro, si alzò sulle ginocchia rotte e si prese con forza i capelli biondi chiari con le dita graffiate. Per la guancia sporca una lacrima tracciò una fine strisciolina...

    «Ecco, è finita, – pensò, – ora i tedeschi giungeranno al Molo di Cabotaggio, faranno esplodere le navi, a cui si affrettavano tanto stamattina sua madre e sua sorella maggiore e fucileranno la folla di migliaia di persone in cui staranno, attendendo il loro turno per l'imbarco. E in questa torre, dove tutta la loro famiglia aveva vissuto fino alla guerra, si collocherà il quartier generale tedesco – proprio in questa stanza, dove suo padre, caduto due mesi prima durante l'ennesimo bombardamento del porto, gli insegnava a leggere e scrivere. Gli ufficiali tedeschi avrebbero disegnato qui le carte di un futuro attacco e avrebbero elaborato i piani di vittoria. E poi in qualche posto lontano nel Caucaso un fascista avrebbe ucciso con un mitra nero suo fratello maggiore Andrej, chiamato al fronte il primo giorno di guerra subito dopo il diploma».

    Vitja ricordò come egli e suo fratello maggiore si erano abbracciati per l'ultima volta poco più di un anno prima presso questa finestra, in cui ora stava una mitragliatrice arroventata, ammaccata e graffiata, che non serviva più a nessuno.

    «Per quale motivo io, ragazzino quattordicenne, sei mesi fa sono corso a combattere in Crimea dopo aver detto, mentendo al comandante della nave da combattimento, che i miei genitori me l'avevano permesso? Per quale motivo per quattro lunghi mesi ho imparato nella sporcizia e nel sudore a lanciare granate e a inserire i nastri di cartucce nelle mitragliatrici? Perché sono penetrato nelle retrovie tedesche travestito da mendicante, ho spiato le condizioni e ho riferito la situazione agli ufficiali sovietici? Perché durante le battaglie che infuriavano mi sono lanciato all'avanguardia tra le esplosioni, raccogliendo cartucce e granate perché i soldati dell'Armata Rossa, rimasti senza munizioni, potessero resistere sulla frontiera decisiva per qualche ora ancora? Perché, per restare adesso orfano di padre e di madre e pulire gli stivali agli occupanti nella mia città natale?»

    Come odiava i fascisti con il loro passo sfacciato, le maniche rimboccate e i mitra a tracolla!

    «No, bisogna dare a mia madre e a mia sorella almeno qualche altro minuto. Forse proprio questi minuti gli basteranno ora per riuscire a prendere l'ultima nave e salvarsi, a scappare a Gelendžik».

    Vitja balzò, si gettò verso la mitragliatrice e, senza riflettere, premette il grilletto raffreddato. Dopo una lunga raffica assordante alcuni crucchi si ficcarono in terra con gli elmetti che brillavano al sole e caddero distesi trasversalmente al marciapiede. Gli altri si dispersero per i portoni e si misero sdraiati.

    «Che solo non ci fosse un carro armato!» – pensò il ragazzino e spaventò con un breve sparo un hitleriano, che si era sporto da dietro l'angolo della casa del suo compagno di scuola Val'ka Sviderskij, che viveva là di fronte.

    Vitja riuscì a trattenere la pressione dei tedeschi per due ore. Ferito e stanco, continuava a rispondere al fuoco con le ultime forze, quando dalla strada si sentì il rumore rapidamente crescente dei cingoli di ferro sul lastrico.

    «Pare che sia la fine!» – sorrise storto Vit'ka e con alcune fitte raffiche arò in lungo e in largo via Rubin. L'assai colpita a questo punto compagnia tedesca si riversò in un vicolo per l'ennesima volta.

    Un minuto dopo sotto le finestre comparve un carro armato. La sua torretta angolosa prese a scivolare lentamente in tondo, volgendo fluidamente la canna corta in direzione di Vit'ka. «E' lo stesso... – pensò questi. – Pare che sia tornato». Cioè, gli era comunque riuscito ritardare di qualche ora l'avanzata dei fascisti.

    Da dietro l'angolo della casa di Sviderskij saltò fuori un soldato tedesco e si gettò verso il carro armato, intendendo evidentemente nascondersi dietro la corazza per portarsi più vicino alla torre. Vit'ka lo prese facilmente di mira e lo colpì. Il fascista si piegò in due e poi, prendendosi con le mani il ventre e il fianco, crollò sul lastrico, gridando forte e agitando le mani. Solo il mitra, volatogli via dal collo, ruotando e tintinnando sul lastricato caldo, andò avanti ancora qualche metro, fino al cordolo spaccato dall'esplosione.

    – Schu-ultz! – prese a urlare da dietro il nascondiglio un altro soldato tedesco e balzò in strada. Prese il ferito per il colletto e lentamente lo trascinò di nuovo dietro l'angolo.

    «Bel bersaglio... – pensò Vit'ka. – Si sarebbe potuto sparare a entrambi, se non fosse stato per il carro armato». Prese una granata per ogni mano, strappò l'anello coi denti e le scagliò entrambe sotto il cingolo destro del carro armato.

    Due potenti esplosioni ad alcuni metri dalla torre schizzarono pungentemente terra calda e schegge metalliche nella finestra distrutta – in modo tale che egli stesso fece appena in tempo a chinarsi e strapparono il cingolo dalle ruote. Il carro armato prese a girare bruscamente. La struttura di ferro da molte tonnellate spiaccicò per strada con un biascichio alcuni fascisti che si erano nascosti dietro la sua corazza. Ma all'equipaggio riuscì comunque riprendere il controllo e fermare il carro armato nel momento in cui la sua canna guardava in direzione della torre. Lo sparo colpì forte. Il carro armato oscillò lentamente indietro, sferragliando sulle pietre con le ruote spogliate.

    Vit'ka socchiuse gli occhi, ma sentì solo come la torre era stata fortemente scossa in basso. Evidentemente il proiettile si era conficcato nel muro all'altezza del pianterreno. I gruppi verdi scuri diradatisi, coperti dal carro armato, andavano di nuovo avanti lentamente, ma caparbiamente. Il ragazzino respirò sollevato e cominciò ad irrorare di piombo la via.

    Solo che non sapeva

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