Sguardi a Venezia
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Book preview
Sguardi a Venezia - Laura Delpino
info@youcanprint.it
Introduzione
Vi è mai capitato di riflettere sulla parola sguardo?
Questa parola così comune nel nostro vocabolario, nel nostro quotidiano.
Una parola, che non appartiene solamente ad un’azione, ad un’attività che parte dai nostri occhi.
Sarebbe offensivo, riduttivo, definirlo solo un movimento degli occhi
.
Il nostro sguardo è molto di più.
Lui ha svariati significati, che parlano di rabbia, d’amore, di timidezza, di dolore.
Nella nostra vita, incontreremo sguardi perduti, sguardi amorevoli, sguardi che abbracciano, che trafiggono, che pietrificano, sguardi spenti, falsi, invidiosi, sguardi dubbiosi, severi, fuggenti, sguardi lontano, sguardi che ci faranno innamorare, che accenderanno desideri, che ci emozioneranno, sguardi che ci toglieranno il fiato.
Ho sempre sentito dire che gli occhi sono lo specchio dell’anima
.
I nostri occhi, i nostri sguardi dicono parecchio di più delle parole.
A chi non è capitato di non trovare l’espressione giusta per esprimere ciò che voleva dire?
E’ qui, che entra in gioco lo sguardo.
Lui, così silenzioso, educato, diplomatico. Colui che fa capire ciò che stiamo provando in quel preciso momento ma non riusciamo ad esporre.
Questo libro sarà dedicato a lui, a colui che ha fatto nascere un amore privo di parole ma ricco di sentimento.
Sin da bambina, il mio sogno più grande, era quello di diventare un insegnante.
Mia madre, mi racconta tutt’oggi, che appena ho avuto la prima coscienza
di ciò che volevo fare da adulta, la risposta era sempre stata la solita: l'insegnante.
Ho sempre amato studiare, fortunatamente, senza neppure troppi sforzi.
Ero una ragazzina curiosa, e questo mi portava a cercare ogni risposta a qualsiasi argomento fosse di mio interesse.
Durante il mio percorso scolastico, ho trovato Maestre, Professori, Docenti che hanno sempre compreso la mia voglia di sapere, assecondandomi, spendendo il loro prezioso tempo a spiegarmi cose che a volte erano fuori programma scolastico.
Partecipavo attivamente a tutti i progetti che la scuola proponeva. Aiutavo attivamente la biblioteca, e quando serviva, davo ripetizioni a chi aveva necessità, ovviamente tutto questo a titolo gratuito.
Insomma, la scuola era la mia seconda famiglia, la mia seconda casa.
Mi laureai a 24 anni in Sociologia con il massimo dei voti.
Amai subito questa scienza che si occupava di vicende di vita, dell’organizzazione sociale.
Iniziò da quel momento il conseguimento per l’abilitazione all’insegnamento.
Fui inserita nelle graduatorie dove ebbi incarichi come supplente.
Ebbi mansioni con bambini e ragazzi diversamente abili, un ruolo di grande responsabilità.
Stare accanto a persone con patologie più o meno gravi, comportava il mettersi in gioco giornalmente, cercare metodologie a volte diverse da quelle che ci erano state insegnate.
A volte mi sentivo, più che un’insegnante, una persona che doveva essere in grado di trasmettere non insegnamenti appresi dai libri, ma punti di riferimento per un percorso di crescita di quei meravigliosi individui.
Ogni volta che assegnavano una supplenza di quel genere, per me era motivo di gioia immensa, grande emozione, accompagnata tuttavia anche dal timore di sbagliare.
Però, il mio atteggiamento positivo, di continua ricerca, di curiosità che sin da bambina mi aveva accompagnato, servì a farmi crescere sia a livello culturale che umano.
Ricevevo complimenti dai colleghi e dai genitori degli studenti per essere riuscita a concludere in positivo gli obbiettivi prefissati.
Nei bambini e nei ragazzi riuscivo a valorizzare il confronto interpersonale, fargli vedere con occhi diversi, la loro disabilità e soprattutto rimettevo in movimento le risorse di cui questi esseri umani erano dotati.
Il rapporto che si instaurava tra noi era basato sul dialogo, sulla fiducia, sulla dolcezza, sulla serenità e, se si riesce in questo, il nostro cuore esulta di felicità.
Nel frattempo, continuavo a studiare, a tenermi aggiornata, partecipando ai concorsi.
Dopo sei anni, finalmente, riuscii ad avere l’assegnazione di una cattedra nella scuola superiore di Venezia, dove abitavo ed ero nata.
Finalmente ora potevo pensare a me stessa, a cercare una mia indipendenza, una casa dove andare a vivere da sola, e magari anche ad un fidanzato che ad oggi non avevo ancora incontrato.
Il mio carattere pacato, mi permetteva di mantenere un ottimo rapporto con i colleghi. I ragazzi vedendomi giovane mi trattavano come una di loro, e ogni tanto stando al loro gioco, ridacchiavo e facevo battute. Loro così, mi permettevano di entrare nelle loro vite. Il rapporto con i genitori era cordiale, costruttivo, insomma non potevo sperare in qualcosa di meglio.
Trovai persino una casetta vicino all’istituto, in un vicolo che dava su uno dei mille canali della laguna.
Entrando si accedeva direttamente in una saletta con angolo cottura. Nel solito spazio, era stata ricavata una stanza dove vi era un microscopico bagno. Una scala portava al soppalco dove vi era una camera matrimoniale.
Il sottoscala era stato attrezzato ad armadio.
Una piccola
casetta bomboniera, che aveva comunque tutto ciò che serviva.
Dalla stanza da letto, una finestra dava su un corso d’acqua, che scorreva placida.
La aprii.
Sin da bambina i miei occhi vedevano e vivevano Venezia, come un luogo magico, fatto di tramonti mozzafiato, di canali silenziosi tra le case.
Venezia, una città unica al mondo che regala sensazioni contrastanti.
Romantica, pittoresca, coinvolgente, ma nel solito momento malinconica.
Quante volte mi è stato chiesto com’era vivere a Venezia.
Rispondevo e rispondo tutt’ora, che nessuna descrizione nessun parere sarebbe stato così esaustivo da far comprendere la gioia che avevo nel vivere in quella città straordinaria.
Venezia va vissuta, vista in prima persona per cogliere a pieno tutte le sue sfumature.
Chiusi la finestra e mi resi conto di essermi commossa.
Quel canale aveva rievocato nella mia mente, ricordi d’infanzia ormai passati, ma sempre vivi nel mio cuore.
Ora vivevo uno splendido presente e riesaminando gli anni passati potevo definirmi realmente fortunata.
Ogni volta che entravo in classe avevo come la sensazione che fosse una prima volta
.
Possedevo entusiasmo, nuove idee per le lezioni, lavoravo con creatività cercando di non annoiare mai gli alunni.
Certo, il lavoro da insegnante non era dei più semplici, nonostante fossi con ragazzi senza disabilità.
Ci si imbatteva in individui talvolta complicati, con situazioni alle loro spalle non facili, e la loro rabbia, angoscia, numerose volte esplodeva in classe.
Stava a noi insegnanti cercare, con i giusti modi, di ristabilire un equilibrio.
Neppure vivere certi episodi mi aveva demoralizzato, anzi mi spronavano a insegnare ai ragazzi a spostare lo sguardo più in là, oltre il marcio che loro vedevano in quel momento. Dovevano superare, andare oltre l’apparenza, aprirsi un nuovo varco per trovare il buono che ancora poteva dare ad essi la vita.
Stare in mezzo a loro, ogni giorno, per me era fonte di nuove scoperte.
Mi confrontavo con le loro idee, i vari punti di vista e questo mi permetteva di crescere ogni giorno di più.
Vedevo passare generazioni intere, e finito il ciclo scolastico, in ognuno dei nostri cuori, rimanevano ricordi ineliminabili.
Arrivò persino l’amore della mia vita!
Conobbi uno psicologo infantile Luca,che mensilmente veniva al nostro istituto, in supporto a ragazzi con problematiche di socializzazione: rifiuto a frequentare la scuola, comportamenti oppositivi.
Fu subito amore.
La sensibilità, l’amore verso il prossimo, la dolcezza ci accomunavano.
Dopo il lavoro facevamo lunghe passeggiate e le mete a noi preferite, erano le librerie.
Vicino a Campo Santa Maria Formosa ce n’era una in