Il diario del silenzio: Storie reali di quarantena
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About this ebook
Il ricovero dal punto di vista dei pazienti, la corsa di infermieri e medici nei reparti Covid, gli imprenditori che chiudono l'azienda e altri che cercano di sopravvivere: la didattica a distanza, lo smart working, i parenti che salutano i loro cari da dietro uno schermo. La spiritualità, la fede, il silenzio che avvolge le città.
Attraverso i luoghi e le date i racconti intrecciano storie reali individuali con eventi storici accaduti durante i mesi della quarantena.
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Il diario del silenzio - Martina Vaggi
Martina Vaggi
Il diario del silenzio
Storie reali di quarantena
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Indice dei contenuti
Il diario del silenzio
Prefazione
Incipit
Capitolo 1 - L'inizio
La prima zona rossa
Quel treno per Firenze
Non scambiamoci il segno di pace
L’azienda verrà chiusa all’alba
I turni da 24 ore
S.O.S. Servizio trasporto animali
Il nord Italia si è fermato
L’ospedale è stato dichiarato bruciato
Il nuovo reparto Covid
Primo turno in un reparto Covid
Se scende lui scendo anche io
Il compito di un medico
Restate tutti a casa, non uscite dalle vostre abitazioni…
L’assalto ai supermercati
Il turno peggiore
La foto della nipotina
Mio padre è morto da solo
La signora T.
La didattica a distanza
La dura realtà
Per chi suona la campana
Ti sorridono gli occhi
Il migliore amico dell’uomo
L’imprenditore, il paese, la campana
Le sagome
Papà è tornato a casa
Non avete ancora fede?
Capitolo 2 - Resistere
Finché la quarantena non ci separi
Mia nonna
L’instancabile lavoro degli intermediari fiscali
Il prete volontario
Da oggi la farmacia lavorerà a battenti chiusi
Il servizio a domicilio
La gara di salto alla corda
Come nel Decameron
di Boccaccio
La tua famiglia è sempre con te
Oggi vogliamo imparare a disegnare un cuore
L’unico cosciente in terapia intensiva
Lavorare in smart working
Un amore, una multa e… la convivenza
Il vostro affezionato ottico di via Roma
I problemi di un genitore, i problemi di un figlio
Esprimi un desiderio
La ballerina
Un uomo è tornato a casa vivo
L’approccio al webinar
Il ritorno in reparto
L’ultimo addio dallo schermo
Il tampone e la quarantena sorvegliata
Oggi andiamo (virtualmente) in gita ad Aosta
La solitudine dell’abbandono
Capitolo 3 - La riapertura
La parrucchiera
L’amore a distanza
Il silenzio di Milano
Tirare avanti
Quel senso di nulla
La corsa ai campi da tennis
L’ultimo esame all’università
Ti sposerò l’anno che viene
In mezzo a noi c’era il virus ma non era reale
Punto di ritorno
La parte più umana di noi
Il silenzio
Postfazione
Ringraziamenti
Il diario del silenzio
Storie reali di quarantena
Martina Vaggi
A chi non è sopravvissuto e ha trovato la pace.
A tutti gli operatori sanitari, che hanno combattuto la bestia,
cercando di domarla.
A chi ha vissuto la malattia e il disagio
economico
ed è stato disposto a raccontarmelo.
Questo libro è dedicato a voi.
A mia nonna Adele, che leggeva libri
fino a quando la candela non si
consumava.
La sua fiamma è sempre viva
nel mio cuore.
Prefazione
Ho trascorso due mesi a cercare persone che avessero vissuto esperienze. Le ho trovate, le ho ascoltate, le ho custodite dentro di me. Ogni loro esperienza io l’ho vissuta attraverso i loro occhi. Mi sono immersa completamente nella loro vita attraverso le loro parole.Tutto quello che loro mi raccontavano io lo assorbivo, diventava come inchiostro sulla mia pelle.E io ho usato quell’inchiostro per scrivere di loro.
Martina
Incipit
Presagio
Milano, Lombardia, 31 gennaio 2020
C’era qualcosa nell’aria. Enea lo sentiva. Se l’era sentito fin da quel mattino, quando aveva messo le gambe fuori dal letto del suo bilocale sui Navigli. Aveva appoggiato i piedi sulle piastrelle fredde di camera sua e mosso quei due passi che separavano il suo letto dal minuscolo balcone: lì si era affacciato. Aveva guardato i Navigli che si estendevano sotto di lui e l’aveva sentito. Quel qualcosa. Come un pizzicore dietro la nuca, o un dubbio che non riesci a toglierti.
Nel pomeriggio impegni di lavoro l’avevano portato nei pressi del Duomo. Di fronte alla cattedrale, come spesso accadeva, si era fermato un momento per ammirarla.
Il sole che filtrava dalle vaste nuvole ne toccava le alte guglie, cospargendo di alone dorato il resto della monumentale facciata. Era davvero bellissima. Giornata strana, eh?
Enea voltò la testa di scatto verso la fonte di quella voce: un passante in giacca e cravatta si era fermato accanto a lui, ad ammirare la cattedrale.
Come, scusi?
Il passante, probabilmente un uomo d’affari, gli indicò il cielo che s’intravedeva dietro le guglie del Duomo con un gesto noncurante della mano: Ha visto che nuvoloni stanno arrivando?
Oh!
Enea non ci aveva fatto caso, tanto era incantato dalla cattedrale maestosa. Guardò dove l’uomo gli aveva indicato, i suoi occhi grigi che scrutavano il cielo: effettivamente, il cielo in lontananza stava pian piano diventando sempre più scuro. In quel punto le nuvole si erano addensate e avanzavano, minacciose.
Non ci avevo fatto caso
rispose Enea, per nulla impressionato.
Già
gli fece eco l’uomo d’affari, gli occhi azzurro ghiaccio che brillavano, cupi: Arriva una tempesta. Speriamo non faccia molti danni.
Enea guardò altrove, già annoiato da quella conversazione. Scostò i capelli color carota dalla fronte, distolse lo sguardo dal cielo e lo puntò verso le persone che si accalcavano nella piazza. Doveva essere appena arrivato un treno, perché molte persone stavano risalendo le scale della metro.
Uomini alti, magri, robusti: donne bionde, more, pelle chiara, scura o gialla. La cosa bella di Milano era proprio questa: ci trovavi di tutto. Persone di qualunque etnia, rango sociale, preferenze sessuali. Per Enea questo miscuglio di mondi e di vita era sempre stata una vera e propria boccata d’aria fresca. Era cresciuto in un piccolo paese non molto lontano, dove vigeva una mentalità molto chiusa: da lì era scappato non appena aveva potuto.
In questo miscuglio di etnie e colori di pelle diversa, quella predominante sembrava essere quella orientale. Cinesi, giapponesi, coreani: erano sempre in buon numero. Proprio un paio stavano risalendo le scale in quel momento: una giovane coppia che si teneva per mano, accompagnati, subito dopo, da una coppia più anziana. Tutta la famigliola indossava la mascherina a proteggere naso e bocca.
La indossano sempre, vero?
un sussurro gli giunse all’orecchio. Enea sussultò: ancora quella voce! L’uomo d’affari non se n’era ancora andato, come aveva pensato, o meglio, sperato. Era ancora lì, accanto a lui. Doveva aver seguito il suo sguardo, non c’erano dubbi. Anche lui ora stava osservando la famigliola che si stava posizionando davanti alla cattedrale per la classica foto di rito. Mentre l’uomo d’affari scuoteva il capo, qualcosa attirò l’attenzione di Enea.
Una persona stava risalendo le scale. Sulla bocca teneva una sciarpa che la copriva fin sopra il naso, lasciando intravedere solo gli occhi.
Che strano.
La donna con il volto semicoperto venne verso di lui a passo svelto e lo superò. Enea la seguì con lo sguardo per un attimo. Il lungo foulard rosso che portava attorno al volto ricadeva all’indietro, ondeggiando al ritmo dei suoi passi veloci, lasciando una scia scarlatta dietro di sé.
Dopo quelli che gli parvero minuti, Enea distolse lo sguardo dalla donna che si stava allontanando e tornò a guardare le scale della metro. A quel punto, sussultò per la seconda volta in breve tempo.
Un gruppo di cinque/sei persone stava risalendo le scale. Tutti portavano la mascherina sul volto. Nessuno di loro, però, era cinese, giapponese o coreano.
Davvero strano.
Si girò per assistere alla pronta reazione dell’uomo d’affari, solo che l’uomo non c’era più. Enea si guardò attorno, sbigottito, pensando forse di scorgerlo dall’altra parte della piazza, intento ad allontanarsi. Invece, di lui non c’era traccia, come se fosse svanito nel nulla.
Tornò allora a voltarsi verso la scala e questa volta rimase atterrito da ciò che vide: un folto gruppo di persone stava risalendo le scale e venendo verso di lui.
Tutte indossavano la mascherina.
Il gruppo aumentava man mano che le persone si riversavano nella piazza. Tutti loro incedevano con passo svelto, frettoloso, senza guardarsi intorno. Procedevano rapidi, come degli automi.
Andavano a formare una mandria che ingrossava le fila nel suo incedere, man mano che sempre più persone risalivano le scale della metro. Tutti avevano gli occhi sbarrati, lo sguardo fisso davanti a loro, come se non vedessero nient’altro attorno. Lo stesso tipo di sguardo che si ha quando si sta vivendo un incubo da svegli.
La folla avanzava verso di lui, costringendolo ad indietreggiare. Più lui indietreggiava, più loro avanzavano, fino a quando, Enea ne venne travolto. Si sentiva soffocare in quel vortice di corpi, il petto schiacciato, le braccia intrappolate: aprì la bocca per urlare e a quel punto... la sveglia suonò. Enea si svegliò di soprassalto. Si guardò attorno, impaurito, sudato. Vide il cellulare lì accanto, con lo schermo che s’illuminava ad ogni suono emesso dalla sveglia: a quel rumore si univa una voce maschile che proveniva dalla radio, appoggiata accanto al telefono. Enea l’ascoltava sempre prima di andare a dormire: evidentemente la scorsa notte si era dimenticato di spegnerla.
In quel momento la voce del giornalista stava snocciolando le news del giorno:
" ...che ieri, 30 gennaio, alle ore 22.00 sono stati trovati i primi due casi di persone positive al Coronavirus in Italia. Si tratta di due turisti cinesi che ora sono ricoverati a Roma...".
Capitolo 1 - L'inizio
La prima zona rossa
Codogno, Lombardia, 21 febbraio 2020
Michele era un bambino di nove anni abbastanza sveglio. Sapeva che mamma non voleva che tornasse a casa tardi la sera, quando usciva a giocare a palla e così lui non lo faceva. Per anticipare l’orario di rientro, quel giorno decise di uscire di casa presto.
Stava cercando freneticamente la sua palla preferita, in cucina, tra le cianfrusaglie della mamma buttate alla rinfusa sotto il lavandino. Nella sua disperata ricerca, inavvertitamente pestò l’orecchio marrone a Jago, il suo cane. Jago era un labrador di dieci anni: con l’avanzare dell’età, spesso si sdraiava sul pavimento della cucina e non si alzava per molte ore.
Michele alzò il piede dall’orecchio calpestato e guardò il suo cagnolone. Jago tirò su il muso per un attimo, guardandolo di sbieco e poi tornò a sonnecchiare in quel primo pomeriggio di pioggia.
Michele lo oltrepassò e continuò la ricerca della sua palla. Attraversò la cucina quasi correndo, proprio mentre il televisore accesso dava a gran voce l’annuncio di un’edizione straordinaria. Non era la prima che Michele sentiva: in quei giorni, in realtà, era un continuo susseguirsi di edizioni straordinarie. Il cronista stava parlando da una città in Lombardia dove stava piovendo.
" ...Si tratta del primo caso di Coronavirus sul territorio nazionale, un uomo di trentotto anni, il paziente uno, è stato ricoverato qui, a pochi chilometri da..."
Michele passò oltre la tv senza fermarsi, mentre la voce del cronista si affievoliva alle sue spalle, per poi scomparire del tutto una volta che ebbe messo piede in corridoio.
I suoi passi veloci si arrestarono quando ebbe raggiunto la porta del salotto, sul lato sinistro del corridoio. Stava quasi per entrare quando... eccola! Proprio lì, accanto alla scala, giaceva la sua palla. Michele la raggiunse e la prese sotto braccio: era un pallone nuovo di zecca, color giallo acceso, il suo preferito in assoluto. Attraversò l’atrio di corsa, fiondandosi fuori casa, giusto in tempo per rispondere al richiamo di sua madre con un Torno presto, mamma! Promesso!
Sua mamma gli stava urlando qualcosa che Michele non riuscì a capire: suonava come un avvertimento o un divieto, ma lui non si soffermò più di tanto a coglierne le parole esatte.
Mamma lo faceva uscire a giocare con la palla da solo, a patto che rimanesse nei pressi di casa, in quel quartiere tranquillo dove loro abitavano, a Codogno. La loro casa a due piani era situata nella periferia, al confine con la campagna. Capitava raramente che mamma gli impedisse di uscire.
Ultimamente, però, Michele l’aveva vista molto preoccupata, tesa: in quei giorni in casa la tv era sempre accesa, le notizie che si susseguivano portavano agitazione, scompiglio. Papà guardava spesso fuori dalla finestra, discostando le tende con nervosismo.
Michele non riusciva a capire. Per il momento, comunque, aveva deciso di non badarci. Giunto in giardino, con la mano libera spinse la porta del cancelletto e uscì in strada.
La palla venne lanciata in avanti, atterrò con uno schizzo sull’asfalto bagnato e rotolò per alcuni metri. Michele la rincorse per il vialetto.
La pioggia picchiettava sui suoi capelli rossi, bagnandogli leggermente gli abiti. Michele non ci badò e continuò a spingere in avanti la sua palla. Amava correre sotto la pioggia.
La palla viaggiò per le strade, per i prati, per poi finire nelle stradine di campagna che confinavano con la periferia del suo quartiere. Ogni volta che rallentava la sua corsa era lui a darle un calcio e a sospingerla ancora in avanti. Continuò a rotolare così per alcuni metri, fino alla strada asfaltata che portava al confine.
Oltre quello, Michele non andava mai. Il confine per lui era un limite da non superare: di solito era fino a lì che lui arrivava per poi tornare indietro, verso casa.
Michele calciò con più potenza, ora. La palla rotolò in avanti e si arrestò, con un sonoro tonf. Michele guardò davanti a sé: una transenna, posizionata a fianco del palo con l’insegna CODOGNO
, delimitava la strada. Era la prima volta che vedeva quella strada sbarrata. Non puoi stare qui.
Una voce profonda lo portò a voltarsi verso destra. Al fianco dell’insegna, dall’altra parte della transenna, c’era un uomo grande e grosso, vestito con una divisa militare verde. L’uomo reggeva tra le mani una paletta con un grosso cerchio colorato di rosso al centro. Michele aveva già visto quell’arnese in qualche film di poliziotti che amava guardare il suo papà: era una paletta che serviva a fermare le persone che viaggiavano in macchina.
Il militare lo guardò, aspettandosi una risposta. Aveva il volto coperto da una mascherina, come di quelle che Michele vedeva sempre nel telefilm con i medici che guardava la mamma.
Michele si fece piccolo piccolo davanti a lui e deglutì: non amava molto gli estranei, gli mettevano inquietudine.
C’è in vigore la quarantena. Mi dispiace ma te ne devi tornare a casa
continuò il militare, la sua voce perentoria aveva un tono marcato di comando.
Michele adocchiò la sua palla rimasta lì, a terra, per poi alzare lo sguardo spaurito verso l’uomo. Il militare seguì il suo sguardo, poi i suoi occhi tornarono a posarsi sul suo volto: È tua?
gli chiese, il tono più addolcito, ora.
Michele annuì, timoroso. A quel punto fece inconsciamente un passo in avanti, allungandosi per prenderla, ma...
Fermo!
Michele sobbalzò, di nuovo.
Non ti avvicinare. La prendo io
disse il militare e, con un solo gesto fluido, raccolse la palla da terra e la lanciò al bambino.
Michele la prese e fece subito, istintivamente, un passo indietro.
Da ora in avanti, non avvicinarti alle persone. Non è più consentito. Hai capito?
il militare parlò scandendo bene le parole, quasi come se Michele non ci sentisse bene.
Sì
ebbe la forza di rispondere lui, in maniera flebile. Poi si voltò e corse via.
Michele non capiva il perché di tutto questo. Correva a perdifiato lungo la strada del ritorno, sapendo che, una volta arrivato a casa, la mamma gli avrebbe spiegato tutto e allora lui avrebbe capito. Allora non si sarebbe più spinto fino al limite del confine per giocare e non avrebbe più dovuto rivedere quell’uomo vestito di verde con il volto coperto e il tono di comando.
Quel treno per Firenze
Stazione di Milano Rogoredo, 24 febbraio 2020
Mascherine. Mascherine chirurgiche ovunque. Passeggeri con mascherine, controllore con mascherina e andatura frettolosa, che passava tra i corridoi. Erano le ventidue e trenta di una giornata alquanto strana: a Milano sembrava che, improvvisamente, fosse scoppiata una qualche epidemia tale per cui tutti dovessero indossare forzatamente la propria mascherina personale.
" Ed io che non sono nemmeno riuscita a trovarne una" fu quello che pensò Beatrice, una volta salita sul treno e occupato il posto segnato sul suo biglietto. Sedeva lì, a fianco alle sue tre compagne di viaggio, che sembrano tutte talmente indaffarate da non preoccuparsi per l’esplosione di mascherine che vorticava loro attorno: una dormiva, l’altra leggeva, seduta placidamente sulla sua comoda poltrona, mentre l’altra guardava distrattamente fuori dal finestrino.
Beatrice si spostò una ciocca di capelli ricci dietro l’orecchio come faceva ogni volta che si perdeva tra i suoi pensieri. Aveva passato tutto il giorno precedente alla disperata ricerca di una mascherina da potersi portare per il viaggio ma non era riuscita a trovarne neanche una: su internet tutti i siti consultati le davano come sold out e in farmacia neanche l’ombra.
I milanesi, a quanto pare, sembravano essersi mossi molto prima di loro quattro, semplici ragazze che venivano dal paese. Beatrice sbuffò, poi diede un’altra veloce occhiata intorno a sé. L’uomo di fronte a lei, seduto due file più avanti, teneva aperto un giornale tra le mani, senza realmente leggerlo: gli occhi erano fissi sulla stessa riga da minuti interi, mentre ogni tanto lo sguardo scrutava i passeggeri attorno. Alla sua destra, una donna molto elegante sedeva ritta, sull’attenti, mentre con il tacco a spillo batteva nervosamente sulla pavimentazione.
Beatrice volse la testa all’indietro ad osservare le persone sedute, immobili: era un gruppo di cinesi o coreani. Tre ragazzi giovani, che sedevano impettiti, le mani giunte davanti a loro, appoggiate sul tavolino. Il volto coperto dalla mascherina chirurgica non dava la possibilità di interpretare le loro espressioni, ma i loro occhi saettavano a destra e sinistra senza tregua.
L’intero treno sembrava essere in preda ad una psicosi di gruppo. L’aria era impregnata di paura. Anche Beatrice e le sue amiche avevano sentito le notizie passate alla tv nei giorni precedenti. Solo il giorno appena trascorso, la sua amica Manuela, che ora sedeva placidamente davanti a lei a guardare fuori dal finestrino, le aveva rimproverato il fatto di aver pensato di non partire per Firenze per via delle notizie continue sul proliferarsi dei malati di Covid-19.
Ma insomma, Bea, non ti sembra di esagerare un po’?
le aveva detto il giorno prima al telefono, in risposta al dubbio espresso da Beatrice sul fatto di partire per la meta prenotata mesi prima. Alla fine non sta succedendo nulla qui, da noi. Bah... Io parto. Vedi un po’ tu che fare.
E così Beatrice si era arrabbiata. Aveva stretto saldamente il telefono tra le mani dicendo: Stavo parlando semplicemente di avere più coscienza civica, tutto qui. Potremmo essere anche noi delle potenziali positive al virus e così facendo, non stiamo facendo altro se non diffonderlo.
Detto questo, aveva buttato giù il telefono ed era andata a fare le valigie. E così si era