rimettersi in gioco con la bellezza: In cammino con sant’Agostino al tempo del covid-19
By Luca Raspi
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About this ebook
Lo scopo è quello di portare le donne a riflettere su quanto di bello rappresentano e quanto bello è il loro cuore, è provare a capire come siamo fatte per imparare a volerci bene, a non incolparci di cose che non esistono e che spesso sono frutto di una mancanza di conoscenza del nostro intimo.
Cercheremo di recuperare tutti quegli aspetti del nostro essere donna che possono renderci più armoniche, più amabili e quindi più amate.
Un detto rabbinico dice che Dio dopo aver creato tutto ed aver visto la Creazione ha detto: «Ho bisogno di una madre che mi aiuti” e ha creato la donna!
Il primo che ha colto la necessità di una presenza femminile è stato dunque il Signore!
La pandemia del covid-19 ha costretto l’uomo contemporaneo a fermarsi. Fermarsi è il solo modo per smettere di vedere distrattamente e iniziare a guardare la bellezza della creazione. Alla sosta deve seguire una ripartenza, con nuove forze interiori, che possono trovare nutrimento grazie all’incontro con figure significative del pensiero filosofico.
L’autore, intessendo un dialogo con Sant’Agostino, propone, attraverso l’itinerario speculativo ed esistenziale di questo pensatore, una via per rimettersi in gioco nella vita dopo il dolore e il non senso lasciati dalla pandemia: a partire dalla bellezza del cosmo, si considererà la bellezza dell’uomo per poi giungere a riflettere sulla bellezza del Creatore.
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rimettersi in gioco con la bellezza - Luca Raspi
Luca Raspi
Rimettersi in gioco
con la bellezza
In cammino con sant’Agostino
al tempo del covid-19
introduzione
Andrea Dall’Asta
Edizioni San Lorenzo
© Edizioni San Lorenzo
Proprietà letteraria riservata
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stampati su carta ecologica certificata
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Finito di stampare nel mese di maggio 2020
da Centro Stampa San Lorenzo per conto dell’editore
su carta BioTop
Introduzione
Che cosa è la bellezza? Che cosa intendiamo per bello? Di certo, il «bello» è un concetto che oggi rimanda alla sfera della soggettività, per cui sembra difficilmente universalizzabile. Quante volte abbiamo sperimentato la difficoltà di condividere con gli altri il nostro giudizio su un oggetto, per noi bello, ritenuto invece dagli altri insignificante, se non brutto? O viceversa? Non solo, il suo significato è variato nel corso del tempo, accogliendo una sedimentazione di stratificazioni, d’influssi, provenienti da diverse culture, da differenti orientamenti filosofici.
Di fatto, dal punto di vista dell’estetica, la cultura occidentale è profondamente segnata dalla filosofia greca. Il bello, che sorge come da un caos abissale, si presenta come armonia, ordine, proporzione, simmetria.
Per Pitagora, attraverso un sistema di numeri, la bellezza si rivela nella perfetta articolazione delle parti, secondo un modello che imita l’ordine cosmologico dei cieli. È un bello oggettivo che si fonda sulla triade dei trascendentali del bello, vero, buono. Il bello si manifesta come luminosità, folgorazione, è splendido a vedersi, fa uscire da se stessi ed è guidato dall’eros, da un desiderio che ci guida dalla bellezza sensibile al mondo intellegibile, fino a condurci alla visione della bellezza assoluta, momento definitivo e conclusivo dell’on autentico, accadimento improvviso, rivelazione gratuita, contemplazione dell’unità del reale, visione immediata del pensiero.
Il legame bello-vero-buono diventerà la fonte ispiratrice della cultura occidentale. L’ordine cosmico sarà alla base della rivelazione della bellezza in Occidente, praticamente sino al XX secolo. Dalle forme greche a quelle romane, da quelle rinascimentali a quelle neo-classiche, tranne forse la parentesi barocca alla ricerca di nuove e inedite forme armoniche, il punto di riferimento è stata la Grecia, interpretata da ogni epoca nel desiderio di rivivere nel presente quella mitica età dell’oro che il mondo classico aveva incarnato in tutto il suo fulgore.
In ogni caso, la bellezza è sempre stata concepita in relazione alla trascendenza. Che si tratti di un ordine cosmologico o teologico, il bello rinvia infatti a un assoluto originario, a un mondo trascendente, interpretato da Plotino come casa del Padre o da Agostino come patria celeste, ultima destinazione, meta finale dell’uomo. Di fatto, a partire dalla teologia agostiniana, il cristianesimo porrà come sorgente di questa armonia Dio stesso, fonte da cui scaturisce ogni bellezza. La bellezza è una porta che si apre al senso dell’esistenza e invita a superare quella soglia perché contempliamo l’Infinito.
In questo contesto, in cui il tema della bellezza tesse un filo rosso tra i diversi momenti della storia dell’Occidente, si inserisce il bel libro di Luca Raspi, soffermandosi su un momento centrale di questa avvincente storia della bellezza: le riflessioni di Agostino d’Ippona. In un lungo percorso, in una continua e stretta relazione tra cammino esistenziale dell’Ipponate e speculazioni filosofiche e teologiche, Luca Raspi indaga il concetto di pulchritudo, partendo da un interrogativo centrale: in che modo è possibile «fare emergere la riflessione metafisica sulla bellezza nella struttura del creato, dalle realtà sensibili a quelle intellegibili, da quelle temporali a quelle eterne?».
L’autore è ben consapevole che ogni ascesa estetica non può fare a meno di un viaggio dell’uomo verso se stesso, verso Cristo, e infine, verso la Trinità. Con grande passione e competenza, Luca Raspi intraprende questo difficile percorso, dalle cose create al creatore, dagli esseri del mondo all’Essere che li fonda, citando Agostino stesso: «La terra è di una bellezza straordinaria; ma ha il suo artefice. Meravigliosi prodigi sono quelli dei semi e delle piante che nascono, ma sono cose che hanno il loro creatore. Contemplo la grandezza del mare che mi sta intorno, mi stupisco, ammiro; cerco l’autore. Levo gli occhi al cielo e alla bellezza delle stelle; ammiro lo splendore del sole capace di illuminare il giorno, e la luna che dirada le tenebre notturne. Sono meravigliose queste cose, degne di lode, anzi di stupore […]»¹.
Giustamente, in questa lettura della filosofia agostiniana, tiene fermo un punto centrale necessario per comprendere il significato più profondo della bellezza. Se infatti il pensiero moderno, per definire il concetto di estetica, si riferisce a quella disciplina che studia il bello determinandone i caratteri nella natura e nell’arte, per il mondo classico la bellezza è considerata come elemento costitutivo dell’essere, insieme al vero e al buono, facendo parte della metafisica.
In questo continuo soffermarsi sulla necessità di pensare alla bellezza non semplicemente come a un prodotto dell’arte, ma a un aspetto costitutivo dell’essere, il testo di Luca Raspi lancia a ciascuno di noi un invito, perché ci lasciamo mettere in gioco dal «bello», affinché guardiamo le cose con uno sguardo diverso, non in termini di «consumo», come oggi siamo soliti fare, ma perché facciamo emergere quel desiderio di Dio inscritto nel più profondo della nostra vita. Occorre quindi riscoprire quella «bellezza tanto antica e tanto nuova», come proposta coraggiosa per vivere nella bontà e nella verità. La bellezza di un’esistenza… vera.
Andrea Dall’Asta S.J.
CAPITOLO I
Fermarsi a guardare:
riconoscere il bello per rimettersi in gioco
1.1: Fermarsi a pensare
Alla fine di febbraio 2020, quel virus dal nome ridondante corona virus
, che si sapeva avesse colpito una popolosa regione della Cina e che sembrava così distante da noi, ha fatto irruzione in Italia, nel cuore del vecchio continente. Da quei giorni, l’occidente è entrato in un vortice di sofferenza e paura che, in poche settimane, ha fatto crollare le granitiche certezze antropologiche e gnoseologiche che erano diventate il codice genetico del patrimonio culturale dell’uomo contemporaneo. In pochi giorni l’umanità si è ritrovata in uno stato emotivo, cognitivo e comportamentale di difficile definizione e comprensione. Ora dopo ora, veniva coniato un nuovo vocabolario per identificare i vissuti di un’umanità costretta a fare i conti con la propria costitutiva fragilità. Il corona virus
è diventato il problema globale. Miliardi di soggettività hanno fatto i conti con il proprio vissuto psicologico. È stato un confronto nuovo con la paura di essere davvero quel che si è: creature fragili in cammino verso l’eternità.
Chiusa nelle proprie abitazioni per circa due mesi, l’umanità contemporanea ha realizzato che il cambiamento portato dall’epidemia nelle vite degli abitanti del villaggio globale è stato dirompente, repentino e capace di lasciare segni indelebili nell’intelligenza e nel cuore di tutti.
Le conseguenze immediatamente visibili della pandemia sono stati i cambiamenti inaspettati nello stile di vita, che, in fase di piena emergenza, ha cominciato a mutare radicalmente. Una situazione dai connotati estremamente negativi, i cui risvolti non sono ancora compresi del tutto, ma che tuttavia potrebbe essere un’occasione per immaginare reazioni resilienti nell’oggi e prospettive positive per il domani.
Si è intravisto la possibilità di mettere in discussione quel modus vivendi, che nelle società occidentali è stato ritenuto, fino a ieri, scontato e normale, ma che, ora, mostra tutta la sua precaria inconsistenza. Quando l’emergenza sarà conclusa, non sarà possibile un ritorno al futuro
prospettato fino a qualche mese prima dell’irrompere del covid-19: la quotidianità subirà modifiche importanti, non solo nel vivere l’ordinarietà dello scorrere del tempo, ma anche nel prendere una coscienza nuova e condivisa circa l’esistenza e l’esistente. La pandemia ha seminato sofferenza e morte, ma può anche aver posto in essere le premesse di una nuova vita. La più illustre vittima della pandemia credo che possa essere identificata nel crepuscolo del senso di onnipotenza che ha dominato l’uomo postmoderno, ovvero la sua convinzione, fondata sulla chimerica idea che lo sviluppo economico e tecnologico non potessero avere limiti. Per troppo tempo si è ritenuto erroneamente che lo sviluppo, avvolto da un’egida utilitaristica e tecnocratica, potesse travalicare qualsiasi limite. Proprio questo pensiero distorto dall’onnipotenza è stato piegato dalla realtà, che ha messo in luce quelle fragilità che non è dato superare, non per una sorta di asfittico imperativo categorico, ma perché il limite è intrinsecamente embricato in tutto ciò che è soggetto al divenire.
La Storia può aiutarci a rileggere la nuova situazione di vita che il covid-19 ha portato nel nostro tempo: i momenti emergenziali e di ricostruzione hanno sempre offerto, accanto a effetti tragici e drammatici, possibilità inaspettate di rinascite umane culturali e spirituali. Proprio quando la quotidianità e le sue certezze accidentali, che non riguardano cioè la sostanza delle cose, ma si limitano ad essere accessorie, crollano, l’uomo tende a riscoprire l’essenziale. Questa pericolosa quanto inattesa epidemia, pur nella sua drammatica fenomenologia, richiama il genere umano a ciò che davvero conta e che, troppe volte, gli uomini e le donne nel nostro tempo hanno dimenticato: l’essenziale.
In che cosa potrebbe consistere la riscoperta dell’essenziale? Riscoprire l’essenziale potrebbe voler dire incontrare la realtà dove si è e riscoprire la bellezza del dono dell’esistenza, un dono, che merita di essere riletto e compreso. Tutto questo è possibile grazie alla capacità umana di contemplare e problematizzare tutti quegli aspetti apparentemente semplici dell’esperienza sensibile, che la frenesia dell’uomo contemporaneo stava rischiando di non cogliere più.
In quest’ora in cui tutto galleggia nel mare incerto del forse
, che rende certamente le esistenze costrette a misurarsi con la precarietà e con il conseguente avvertire, spesso in modo insopportabile, la difficoltà di trovare punti fermi su cui reperire certezze, può emergere la consolazione del sapere che è possibile ritrovare il bandolo della matassa, ovvero ciò che sostiene l’essere persona umana: il pensiero.
Occorre riscoprire un pensiero meditante impastato di gratuità, che il mondo contemporaneo aveva messo da parte. Il pensiero globalizzato finalizzato all’utile aveva lasciato a pochi soggetti, troppo spesso guardati con sospetto e marginalizzati con l’etichetta di utopisti, la possibilità di gustare la bellezza di ricercare il senso dell’esistente, senza altro scopo se non la gioia della contemplazione in se stessa, che gusta la bellezza di ciò che è.
Ciascun individuo è stato interpellato nel profondo dall’esperienza funesta del covid-19. Nella vicissitudine dell’isolamento e dei nuovi stili di vita che si sono necessariamente imposti, l’uomo ha innanzi a sé la possibilità di riappropriarsi in pieno della propria umanita, ovvero di quella comune densità ontologica che lo rende un’entità unica e irripetibile nella propria irrevocabile dignità di persona. Questa coscienza permette una rilettura dei fenomeni che hanno caratterizzato il nostro tempo appiattendo il pensiero, non in ultimo la globalizzazione, che pareva aver livellato la bellezza delle differenze.
La globalizzazione, oggetto di tante discussioni e riflessioni, ha messo in luce ora, il rovescio della medaglia che ne costituisce l’essenza; un rovescio che non era mai apparso, in quanto tenuto lontano dalla vista comune dagli interessi economici, che hanno reso globali le logiche malate del denaro e hanno dimenticato l’umano. Se esiste un villaggio globale non è perché per molto tempo sono venuti meno i confini spazio temporali, ma perché esiste un’umanità che condivide le fragilità e le potenzialità che ogni soggetto porta con sé in quel cammino meraviglioso, bello e impegnativo che si chiama vita.
Dopo la pandemia e suoi nefasti esiti fatti di vite interrotte e affetti spezzati, il terreno comune su cui tutti gli esseri umani avranno la possibilità di incontrarsi non saranno né i mercati né la realtà virtuale, ma ciò per cui ciascuna persona "è" nell’unicità del suo esserci nel mondo, ovvero, un’esistenza pensata e condivisa. Il pensiero, infatti, è che ci distingue da ogni altro ente in