Lettere ad un santo: Karol Wojtyla, amico mio
By Rita Coruzzi and Alberto Melloni
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Una storia detta con pudore e innocenza, nella quale si riconosceranno in tanti che in quella stagione hanno vissuto la loro prima giovinezza e ritroveranno i sentimenti di quegli anni.
dalla prefazione di Alberto Melloni
La storia della mia corrispondenza con Karol Wojtyla è quasi incredibile, io avevo quindici anni, ero una ragazzina e mai prima di allora avrei pensato di intrattenere un dialogo epistolare con un papa. Ma a volte nella vita capitano cose davvero strane, a me ne sono accadute molte e la mia “amicizia” con un grande pontefice è una di queste.
Quello che mi spinse a scrivere la prima lettera all’allora Santo Padre Giovanni Paolo II, fu il desiderio di comunicargli la mia guarigione spirituale avvenuta a Lourdes pochi mesi prima. Davanti alla grotta di Massabielle avevo capito che la mia condizione di disabile che mi costringeva a stare sulla sedia a rotelle non era una maledizione come avevo sempre pensato, o un segno dell’abbandono di Dio, ma al contrario era un’opportunità per fare al meglio la Sua volontà. Capii in modo chiaro che i progetti del Signore quasi sempre non sono quelli degli uomini e hanno il potere si stravolgere le vite e portarle a diventare migliori, anche quando sembra inconcepibile.
Avevo molta voglia di annunciare a tutti che il Signore aveva operato in me meraviglie, avevo capito che la mia sofferenza poteva servire, se offerta, a tante persone, ai peccatori ma anche ai credenti, a chi soffriva come me e più di me, e soprattutto alla Santa Madre Chiesa. Papa Giovanni Paolo II era già molto malato e provato dalla malattia che lo stava letteralmente consumando, però andava avanti comunque. Mi chiedevo perché doveva interessarsi a una ragazza come tante altre quando lui era un uomo tanto importante che aveva il peso della chiesa universale sulle spalle.
dall’introduzione dell’autrice
Rita Coruzzi nata il 2 giugno 1986 a Reggio Emilia, dove tuttora risiede. Affetta da tetraparesi, in conseguenza di un intervento chirurgico andato male, dall’età di dieci anni è sulla sedia a rotelle. Della sua esistenza ha fatto una battaglia quotidiana per dimostrare che non ci si deve arrendere mai e che è sempre possibile trovare in sé la forza interiore per affrontare qualsiasi prova. Ha pubblicato diversi libri dedicati alla sua storia e alla sua scelta di fede, ha vinto il Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti, dil Premio Internazionale Stefano Zangheri e il Premio Internazionale Città di Cattolica.
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Lettere ad un santo - Rita Coruzzi
Rita Coruzzi
Lettere ad un santo
Karol Wojtyla, amico mio
prefazione
Alberto Melloni
Edizioni San Lorenzo
© Edizioni San Lorenzo
Proprietà letteraria riservata
Edizioni San Lorenzo
®
via Gandhi, 18a/b
42123 Reggio Emilia - C.P. 181
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Prima Edizione ottobre 2020
Stampato per conto di Edizioni San Lorenzo
su carte e con inchiostri ecologici
da Centro Stampa SLE - Reggio Emilia
progetto grafico: StudioForte - Reggio Emilia
"Alla Preside e amica Lorena Mussini, grazie per essere entrata nella mia vita e per essere diventata una presenza costante e un riferimento per me. Ammiro la tua forza, il tuo coraggio e l’entusiasmo che metti in ogni cosa che fai. Conoscerti mi ha ridato speranza per il mondo della scuola,
finchè ci saranno persone come te a guidare i giovani nel futuro,
i buoni sentimenti che portano a fare follie
come scrivere ai papi saranno ancora presenti
e i sogni ancora possibili."
PREFAZIONE
Quello che è capitato a Rita Coruzzi ed è raccontato in queste pagine è una traccia lieve e commovente di una evoluzione del papato e del rapporto fra i fedeli e il papa.
Prima del 1870 il pontefice – anzi il Romano Pontefice – era una fonte remota di carattere dottrinale e disciplinare verso il quale provare tutto tranne che sentimenti e con il quale mostrare atteggiamenti e non certo sviluppare rapporti. Poi, con la perdita del potere temporale, il papa è diventato oggetto di vera devozione: l’immagine del vecchio prigioniero in Vaticano
ha mobilitato le coscienze e creato una spiritualità che prima non esisteva. Se ancora nella Roma di Pio IX era normale incontrare il papa a passeggio per la città eterna, dopo era necessario andare da lui, in folle piccole come i cortili del palazzo apostolico o nel chiuso delle sale e della Basilica, gli unici spazi dove si affacciava. Poi la fine della questione romana ha saldato quella devozione al papa con riti più ampi: la basilica è diventata una platea, fino alle manifestazioni del cattolicesimo organizzato di età pacelliana e la recita dell’Angelus domenicale, un rito d’incontro perfettamente che tiene in equilibrio la distanza siderale fra il selciato e la finestra, e la vicinanza fra questi due estremi. Poi venne il concilio e il postconcilio e in quello il papa venuto dalla Polonia: che portava una fisicità nuova in quella devozione rendendola contatto globale e la sua cattedra, una cattedra planetaria, in volo per motivi diversi da quelli che avevano ispirato Gianlorenzo Bernini nel 1656.
Così la devozione è diventata contatto fisico ed epistolare: con una grande cura da parte della segreteria del papa nel riscontrare la corrispondenza che a fiumi arrivava nell’Appartamento del papa. E così Rita Coruzzi ha potuto avviare un dialogo diretto e indiretto con Giovanni Paolo II di cui offre in queste pagine un racconto toccante. Non si tratta del rapporto fra una fan e una celebrity né della cronaca di come un divo mondiale ammalia chi ne sfiora l’aura: è la storia di un riconoscere e di un sentirsi riconosciuti, e se la si vuol dire con la massima che da Alphonse Karr arriva a Yves Congar, amare ed essere amati
. Una storia detta con pudore e innocenza, nella quale si riconosceranno in tanti che in quella stagione hanno vissuto la loro prima giovinezza e ritroveranno i sentimenti di quegli anni.
Alberto Melloni
Capitolo I
La storia della mia corrispondenza con Karol Wojtyla è quasi incredibile, io avevo quindici anni, ero una ragazzina e mai prima di allora avrei pensato di intrattenere un dialogo epistolare con un papa. Ma a volte nella vita capitano cose davvero strane, a me ne sono accadute molte e la mia amicizia
con un grande pontefice è una di queste.
Quello che mi spinse a scrivere la prima lettera all’allora Santo Padre Giovanni Paolo II, fu il desiderio di comunicargli la mia guarigione spirituale avvenuta a Lourdes pochi mesi prima. Davanti alla grotta di Massabielle avevo capito che la mia condizione di disabile che mi costringeva a stare sulla sedia a rotelle non era una maledizione come avevo sempre pensato, o un segno dell’abbandono di Dio, ma al contrario era un’opportunità per fare al meglio la Sua volontà. Capii in modo chiaro che i progetti del Signore quasi sempre non sono quelli degli uomini e hanno il potere si stravolgere le vite e portarle a diventare migliori, anche quando sembra inconcepibile. Del resto è dallo scandalo della croce, la morte più ignominiosa di cui si potesse morire, che è scaturita la resurrezione, la vittoria sulla morte, l’apertura alla vita eterna.
Avevo molta voglia di annunciare a tutti che il Signore aveva operato in me meraviglie, avevo capito che la mia sofferenza poteva servire, se offerta, a tante persone, ai peccatori ma anche ai credenti, a chi soffriva come me e più di me, e soprattutto alla Santa Madre Chiesa. Papa Giovanni Paolo II era già molto malato e provato dalla malattia che lo stava letteralmente consumando, però continuava ad essere un esempio per tutti, portava avanti l’universale ministero a cui era stato chiamato e non aveva paura di mostrarsi debole, fragile, non più aitante e robusto come quando era salito al soglio pontificio. Sopportava la malattia con grande dignità e faceva di lei uno strumento per avvicinare credenti e non alla figura di Cristo, di cui il simbolo è proprio la croce. Quindi io avevo deciso di offrire la mia condizione e la sofferenza che da essa ne derivava a lui, per lui, perché continuasse a essere la persona straordinaria che era, nonostante tutti gli ostacoli che la vita terrena metteva sul suo cammino. Inoltre speravo di imparare da lui a non vergognarmi della mia condizione, a sentirmi libera nel manifestarla senza provare disagio o imbarazzo. Pensavo che il nostro potesse essere uno scambio vicendevole proficuo soprattutto per me, anche se avevo ben poche speranze che il Santo Padre rispondesse alla mia lettera. Mi chiedevo perché doveva interessarsi a una ragazza come tante altre quando lui era un uomo tanto importante che aveva il peso della chiesa universale sulle spalle.
Fui molto indecisa se scrivergli o no, non volevo né cadere nel ridicolo né peccare di presunzione, pensando che la mia conversione interiore potesse interessare il papa. Tuttavia mi rendevo conto che lui era il modello più adatto a cui io potevo ispirarmi. Mi serviva un amico, un padre, un fratello che comprendesse il significato di essere intrappolata in un fisico che non funziona come gli altri, ma che in tale trappola sorprendentemente avessi visto la vera essenza di Dio e ciò che Lui era stato per me anche nei periodi più bui, quando l’avevo allontanato e accusato di avermi tradito e abbandonato, perché non aveva fatto nulla per impedire al mio corpo di ammalarsi e di dover stare sulla sedia a rotelle.
Decisi di scrivergli dopo aver ascoltato l’omelia di un sacerdote che risuonò in me come la risposta alle mie preghiere e alla mia domanda se potevo comunicare a una personalità come Karol Wojtyla la mia gioia di essere risorta. Nell’omelia il sacerdote disse accaloratamente quanto sarebbe stato bello che anche i giovani scrivessero al papa e gli comunicassero la loro personale esperienza di fede, meglio ancora se ci fosse stato qualcuno disposto a offrire le proprie sofferenze per il suo pontificato e per la sua persona. Disse che bisognava guardare alla figura del sommo pontefice in maniera meno ufficiale e più umana, anche lui era un uomo bisognoso di attenzioni e di affetto nella quotidianità, pur essendo il vicario di Cristo. Queste parole mi fecero decidere, erano giunte come risposta alle mie domande, erano la cancellazione dei miei dubbi. Improvvisamente capii che non dovevo aver paura di scrivergli e che dovevo relazionarmi a lui semplicemente come a un altro essere umano, pur trattandolo con il rispetto e la devozione che la sua carica comportava.
Improvvisamente non mi importò nemmeno se mi avrebbe risposto o meno, io ne ero consapevole, non ero che una goccia nell’oceano, la mia lettera poteva venire dimenticata, ammassata con altre migliaia scritte da persone che avevano bisogno quanto e sicuramente più di me. Solo una cosa sapevo di sicuro, non ero speciale, non ero la moglie di un capo di stato, non ero un governante, non ero un ingranaggio importante della chiesa, ma semplicemente una pecorella che era stata smarrita per quattro anni e che ora aveva trovato la strada per tornare a casa. E una volta tornata, non aveva trovato il portone chiuso o persone ostili, ma porte spalancate, sorrisi calorosi, abbracci fraterni e voleva condividere tale gioia con