Generazione perduta
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Generazione perduta - Gianluca Malato
Generazione perduta
di
Gianluca Malato
(c) Copyright Gianluca Malato 2020
Immagine di copertina: Warren Wong su Unsplash
Grafica di copertina: Gianluca Malato
Editing: Plesio Editore
Impaginazione: Gianluca Malato
Questo romanzo è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a persone, luoghi o avvenimenti realmente esistenti è puramente casuale
PROLOGO
Nella Capitale la sera è fredda e buia.
Stefano procede a passo claudicante verso il cornicione del palazzo. La ferita alla coscia gli brucia ancora, forse si sta infettando. Il coltello aveva inciso la pelle quanto bastava per tracciare una sagoma di sangue, ma ora la ferita continua a bruciare.
Il palazzo più alto che conosci è l'unica cosa a cui sta pensando. Non c'è altro nella sua testa. Non c'è spazio neanche per la paura.
La vista gli si appanna, il respiro si fa pesante.
Il palazzo più alto…
Si avvicina al parapetto. L'aria fredda lo investe come una doccia gelata.
Le luci delle macchine sciamano giù, piccole e lontane. Suoni indistinti di clacson, grida e motori rombanti si mescolano in un amalgama confuso e amorfo.
Guarda giù e ha una vertigine. No, non può farcela.
Prende il telefonino e apre Instagram, poi apre la chat con Akira89.
«Non ce la faccio. È alto. Ho paura» riesce a digitare nonostante le dita gli tremino per il freddo.
La risposta non si fa attendere, come se Akira89 fosse lì in attesa.
«Sei un perdente se non lo fai» è la replica secca. «Dopo tutto ciò che hai fatto, tanto vale arrivare alla fine.»
Stefano sospira e riflette. Ha solo diciassette anni. Vale davvero la pena?
«Io non ne sono più tanto sicuro» digita anche grazie al correttore automatico.
«Fammi vedere dove sei.»
Stefano trema come una bestia. Lo smog gli entra nelle narici e il vento gli spinge la polvere negli occhi.
«Ma come faccio, scusa?»
La risposta è perentoria. «Quando il curatore ti dice cosa fare tu la fai e basta. Non lo hai ancora imparato?»
Stefano sente i morsi del senso di colpa stritolargli lo stomaco.
«Scusa.»
Qualche secondo di attesa, poi la un nuovo messaggio. «Fai una foto e mandamela qui in privato.»
Stefano punta la fotocamera del telefonino verso la città sotto di sé e scatta un'istantanea in alta definizione. Non è neanche tanto sicuro che sia venuta bene, ma la manda lo stesso.
«Bene. Ci sei quasi. Adesso oscilla in avanti e lasciati cadere nel vuoto.»
Stefano sente la paura attanagliargli le viscere come una tagliola per lupi. Non vuole cadere, non vuole morire.
«Fallo adesso» aggiunge Akira89. Niente punteggiatura, niente emoticon.
Quel tizio potrebbe anche non esistere, per quanto ne sa Stefano. Eppure deve trovare il coraggio di farlo. Non ha senso essere arrivati fino a quel punto per poi fermarsi.
Sì, sarebbe morto, ma che importava? La sua vita non vale più niente. È questo ciò che gli ha detto il curatore sin dall'inizio. La sua vita non vale niente e lui deve fare solo quello che gli dice quel fantasma su Instagram.
Guarda giù un'ultima volta e pensa ai suoi genitori. Vede la madre piangere, la sorellina piccola che ha bisogno di latte e nessuno che ha i soldi per comprarlo.
Una lacrima gli scende sul volto. Poi, come Indiana Jones, estende la gamba e fa un passo nel vuoto.
Ma la realtà non è come il film. Non c'è il ponte invisibile a fermare la sua caduta nell'abisso.
L'accelerazione che sente è fortissima. Cadere da una grande altezza è una sensazione unica e indescrivibile. Gli bastano pochi secondi per raggiungere una velocità spaventosa.
Il suolo si avvicina sempre di più, il vento sulla faccia è irresistibile. Non riesce più a tenere gli occhi aperti.
Le palpebre si serrano e lui non sa più quando si sfracellerà.
Il cuore pompa adrenalina come un mantice furioso.
Infine, l'impatto.
Tutte le ossa si rompono contemporaneamente con uno schiocco sordo. Un dolore lancinante all'addome segnala che gli organi interni si sono spappolati come scarafaggi sotto la pantofola di una casalinga.
Sente i pantaloni farsi caldi per l'urina che non riesce a trattenere.
Urla umane, suoni di passi intorno a lui. Tutto si fa confuso e distorto.
Lo smartphone è andato in pezzi tra le sue mani e questo gli dà un'insolita sensazione di libertà. Finalmente è uscito da quel gioco macabro, finalmente è libero.
Con il suo ultimo pensiero visualizza un'ultima volta il simbolo che ha dato vita a quell'incubo, quell'orrido emblema che si è inciso sulla coscia poco prima.
Un'enorme balena dai contorni bluastri.
Poi, il nulla.
PARTE PRIMA
L'ago mi fa un male bestia. Quasi mi sembra che quello stronzo del tatuatore ci stia godendo a fare piano per farmi soffrire.
Trattengo il dolore come un eroe dei fumetti. Ma quanto cazzo ci vuole a disegnare un teschio?
Intorno a me ci sono tutti i ragazzi, in questo studio all'Esquilino. Maurizio mi guarda e sorride a metà tra il soddisfatto e il sadico. Che cazzo ha da ridere? Io qua sto a farmi bucare la pelle da uno che sembra Capitan Uncino e lui ride.
Alla mia destra c'è Daniele, che ha già fatto il tatuaggio e ha un'espressione rilassata. Alla mia sinistra, Armando guarda terrorizzato la figura che si forma sulla mia pelle con gli occhi atterriti e la bocca semichiusa, come se guardasse un procione mentre viene scuoiato vivo.
Sa che dopo tocca a lui ed è terrorizzato.
Capitan Uncino sta disegnando il simbolo dell'euro al posto degli occhi del teschio. Un euro per occhio. Ma quanto fa male, Dio Cristo benedetto!
Stringo i denti e mi mordo il labbro. E sbrigati, stronzo!
«Finito» annuncia finalmente guardandomi la spalla, soddisfatto.
Tiro un sospiro come se far uscire l'aria avesse il potere di placare il dolore. Brucia come l'inferno, porco cazzo.
Lo stronzo guarda il suo capolavoro.
«Niente male» si compiace. «Che ne dici, Maury?»
«Ottimo lavoro, come sempre» replica il capo sollevando i pollici.
Tutti applaudono, ma mi sembra che acclamino il tizio per la sua opera, invece di me per il mio coraggio.
Mi mette il cellophane e mi dà i consigli di rito. Niente sole, niente acqua di mare e altre puttanate. Questo teschio bastardo non me lo toglierò più di dosso. Non lo avrei mai fatto. Neanche per un milione di euro. Io odio i tatuaggi e anche i miei genitori li odiano. Ma si sa, quando il capo ordina…
Anch'io mi farei i cazzi miei se fossi ricco sfondato e mio padre facesse il notaio ai Parioli.
Per fortuna, è un disegno abbastanza piccolo e non si noterà molto.
«Tocca a te, Armando» ordina Maurizio senza celare un sorrisetto soddisfatto sul volto. Non riesco a capire se sogghigna perché sa già come reagirà Armando o perché è solo uno stronzo.
Armando trema come una foglia. È spaventatissimo. Il tatuatore lo nota e lo osserva serafico.
Continuo a credere che ci goda davvero a far soffrire la gente.
Il mio tatuaggio brucia ancora. Vorrei massaggiarlo, ma preferisco non toccarlo.
Il ronzio della macchinetta di Capitan Uncino riempie l'aria. Poi, l'ago tocca la pelle di Armando.
Dapprima ha uno scatto, poi comincia a trattenere le contorsioni e il suo viso diventa una smorfia di dolore.
«A quanto pare, qualcuno non resiste a un po' di dolore» commenta Maurizio, crudele.
«Pare di sì» lo asseconda il tizio.
«Se vuoi, ci fermiamo» propone Maurizio ad Armando con un tono conciliante che puzza di presa in giro lontano un chilometro.
«No» riesce a dire Armando come se si trattenesse per non esplodere. Sa benissimo che se si fermasse, la sua virilità verrebbe meno agli occhi di Maurizio, che da quel giorno non perderebbe più un'occasione per smerdarlo come una bestia. Perciò resiste a quella tortura, come Rambo quando era prigioniero dei Vietcong.
Distolgo lo sguardo. Non ce la faccio a vedere Armando contorcersi per il dolore mentre il capo e il suo aguzzino godono come dei matti.
Il