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Dante, Commedia: Una decodifica in prosa narrativa
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Ebook442 pages14 hours

Dante, Commedia: Una decodifica in prosa narrativa

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Ha senso “tradurre” Dante, ossia l’autore di un poema scritto in una lingua “futura” che sfrutta ogni forma di linguaggio ammissibile da un uomo del XIV secolo? Dopo un ventennio di riflessione e di commercio col testo, e soprattutto dopo aver constatato che anche i lettori più colti della Commedia (esclusi ovviamente i dantisti e gli appassionati competenti) hanno un’idea quantomeno vaga del poema, l’autore di questa decodifica ha pensato che una versione in prosa, nella totale fedeltà al testo dantesco, possa agevolarne la comprensione, per tentare poi, in seguito, una lettura dell’opera originale.     

... A questo punto, però, la suprema visione si dissolse con la mia fantasia, e io avvertii ogni mio desiderio e ogni mia volontà confluire di nuovo nell’implacabile moto uniforme dell’universo, implacabimen- te regolato dall’amore che governa il sole e le altre stelle. (Paradiso, Canto XXXIII)    
LanguageItaliano
Release dateSep 23, 2020
ISBN9791220205009
Dante, Commedia: Una decodifica in prosa narrativa

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    Dante, Commedia - Alessandro Nava

    Alessandro Nava

    Dante, Commedia

    Una decodifica in prosa narrativa

    UUID: 00f02955-2baa-45cf-9f11-5afd55fd9068

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Tradire Dante

    INFERNO

    Canto I

    Canto II

    Canto III

    Canto IV

    Canto V

    Canto VI

    Canto VII

    Canto VIII

    Canto IX

    Canto X

    Canto XI

    Canto XII

    Canto XIII

    Canto XIV

    Canto XV

    Canto XVI

    Canto XVII

    Canto XVIII

    Canto XIX

    Canto XX

    Canto XXI

    Canto XXII

    Canto XXIII

    Canto XXIV

    Canto XXV

    Canto XXVI

    Canto XXVII

    Canto XXVIII

    Canto XXIX

    Canto XXX

    Canto XXXI

    Canto XXXII

    Canto XXXIII

    Canto XXXIV

    PURGATORIO

    Canto I

    Canto II

    Canto III

    Canto IV

    Canto V

    Canto VI

    Canto VII

    Canto VIII

    Canto IX

    Canto X

    Canto XI

    Canto XII

    Canto XIII

    Canto XIV

    Canto XV

    Canto XVI

    Canto XVII

    Canto XVIII

    Canto XIX

    Canto XX

    Canto XXI

    Canto XXII

    Canto XXIII

    Canto XXIV

    Canto XXV

    Canto XXVI

    Canto XXVII

    Canto XXVIII

    Canto XXIX

    Canto XXX

    Canto XXXI

    Canto XXXII

    Canto XXXII

    PARADISO

    Canto I

    Canto II

    Canto III

    Canto IV

    Canto V

    Canto VI

    Canto VII

    Canto VIII

    Canto IX

    Canto X

    Canto XI

    Canto XII

    Canto XIII

    Canto XIV

    Canto XV

    Canto XVI

    Canto XVII

    Canto XVIII

    Canto XIX

    Canto XX

    Canto XXI

    Canto XXII

    Canto XXIII

    Canto XXIV

    Canto XXV

    Canto XXVI

    Canto XXVII

    Canto XXVIII

    Canto XXIX

    Canto XXX

    Canto XXXI

    Canto XXXII

    Canto XXXIII

    Nota

    Tradire Dante

    Prefazione

    In merito alla Divina Commedia, così si esprimevano due grandi della letteratura francese: Voltaire e Flaubert, a un secolo di distanza l’uno dall’altro.

    " Gli Italiani la chiamano divina: ma è una divinità occulta; pochi intendono i suoi oracoli; la sua fama si manterrà sempre perché nessuno la legge."

    " Quest’opera è stata fatta per un tempo e non per tutti i tempi. Peggio per noi che l’intendiamo meno, tanto peggio per essa che non si fa intendere."

    Per quanto irritanti per il tono con cui sono espresse, una parte di verità quelle due sentenze tuttavia la contengono, e lo dimostra il fatto che oggi chi tenta di leggere il poema dantesco è condizionato soprattutto dall’avere o meno eseguito una seria esegesi dell’intero testo: senza questo esercizio preventivo, una lettura che dia autentico piacere, sostenuta dalla piena intelligenza della poesia, è impossibile per definizione, e la visione d’insieme che ne risulta può essere paragonata a quella di un’immagine riflessa da uno specchio andato in mille pezzi e di cui tanti pezzi mancano. Anche un lettore mediamente colto, padrone della lingua e a conoscenza delle misure metriche della nostra poesia, in prima lettura si viene a trovare, come accadde a Dante stesso, in una selva oscura, smarrito di fronte alla struttura prosodica e linguistica di cui è composta la Commedia, ovvero un poema vecchio di sette secoli, criptico per scelta, vigilato da intere legioni di latinismi, germanismi, provenzalismi, toscanismi, lemmi dell’antico siciliano. 3 Cantiche composte da 33 Canti, ognuno di essi ordito con terzine a rima concatenata che non vanno oltre i 150 versi per Canto; vari strati di interpretazione possibile (almeno 4); una decisa volontà di parlare per allusioni, rimandi, allegorie. È un poema, come giustamente sintetizza Anna Maria Chiavacci Leonardi culturalmente remoto: lingua, tradizione letteraria, situazione storica, convinzioni filosofiche e teologiche, tutto ciò che forma il tessuto culturale del testo fa parte di un mondo a noi per lo più estraneo.

    In queste condizioni, sempre in prima lettura, è forse più semplice, con qualche rudimento, intendere una lingua straniera che non la Divina Commedia. In tal modo, noi Italiani, che parliamo italiano grazie a Dante, non siamo quasi più in grado di leggerlo. Certo, per accedere al poema esiste una secolare tradizione di commenti, da Iacomo della Lana e da Jacopo Alighieri, contemporanei di Dante, a Marcello Craveri e a Vittorio Sermonti, contemporanei nostri. Ma i commenti stessi, che generalmente occupano uno spazio che è decine di volte più esteso di quello del testo poetico, il più delle volte sono molto impegnativi, richiedono un’attenzione e una disciplina intertestuale costante. Dal Trecento ad oggi sono stati, solo in lingua italiana, più di 70 i commenti di un certo rilievo realizzati: fanno dunque parte di un itinerario critico che è lungo settecento anni, possiedono una storia che si intreccia direttamente con lo sviluppo della lingua e della letteratura italiane, non meno che con quello delle fonti del nostra storia; riflettono posizioni critiche e addirittura fideistiche spesso antitetiche: insomma, impongono un esercizio che mette a dura prova chiunque, e soprattutto che presuppone la continua interruzione della lettura, cosa, questa, che mina in profondità tanta parte di quella visione d’insieme che, invece, è l’unica a poterci restituire Dante e la sua epoca.

    Per ovviare parzialmente a questo esiste naturalmente anche una tradizione che si basa sulla parafrasi, ovvero sulle traduzioni in prosa del testo poetico, ma questa tradizione, nel costante tentativo di restituirci interamente la lettera del verso dantesco e spiegarlo (oppressa, peraltro, da un timore reverenziale che sfiora il fondamentalismo religioso), finisce per accogliere in sé faglie evidenti del commento stesso, dilatando in tal modo la narrazione e, il più delle volte, rischiando di apparire impervia quanto l’originale. Si può far di meglio? Anzi, vale la pena far di meglio? O meglio ancora: ha senso tradurre Dante, ossia l’autore di un poema scritto in una lingua futura che sfrutta ogni forma di linguaggio ammissibile da un uomo del XIV secolo? Dopo un ventennio di riflessione e di commercio col testo, e soprattutto dopo aver constatato che anche i lettori più colti della Commedia (esclusi ovviamente i dantisti e gli appassionati competenti) hanno un’idea quantomeno vaga del poema (più o meno quella di coloro che credono di conoscere il melodramma di Verdi per via del fatto di aver sentito il coro di Nabucco e un preludio di Traviata), ho pensato che una versione in prosa possa rappresentare un buon viatico per tentare poi, in seguito, una lettura dell’originale. Per cui, umilmente, ho provato. In che modo? Primo, rispettando strettamente l’originale, ovvero evitando il più possibile un commento interlineare fuso col risultato poetico; secondo, adottando un verso libero impaginato in prosa, che rendesse intelligibile in prima battuta la progressione narrativa del Canto; terzo, perseguendo la tensione narrativa che in Dante è sempre operante, anche laddove il verso si coagula attorno a digressioni astronomiche, a perifrasi liriche, a risvolti teologici e filosofici. Risultato? Non spetta a me dirlo. Posso solo sostenere che, rileggendo la decodifica che è venuta fuori, ritengo che in tal modo sia quantomeno possibile leggere la Commedia in maniera tale da comprenderla subito, quasi senza nessun apparato critico e, soprattutto, senza dover interrompere continuamente la lettura. Ho osato troppo? È possibile. Mi chiedo però se non sia peggio non capire Dante nell’insieme, o conoscerne sempre e solo quei due o tre canti che in genere vengono recitati durante pubbliche letture: ovvero Paolo e Francesca, Ugolino, Ulisse, l’invocazione alla Vergine, lacerti che, per quanto magnifici, non danno conto degli innumerevoli personaggi che si incontrano nel viaggio oltremondano, e soprattutto del pensiero che sta alla base di questo capolavoro dell’arte occidentale.

    Quanto si deve dunque essere fedeli a Dante, quanto si può lavorare sulla Commedia senza alterarne spirito e lettera? Riduciamo la risposta a una percentuale: novantotto per cento. E quel due? Che accade con l’esercizio arbitrario di quel due? È semplice, quel due per cento serve solo come tolleranza operativa, senza la quale trasferire in prosa il ritmo delle terzine diventa impossibile, pena il ridicolo, o quantomeno un pallido calco, la cui lettura dà lo stesso piacere di quella di un referto catastale.

    Dante poi — sarà bene non dimenticarlo — è la prima vittima della cattedrale che ha progettato ed eretto, il primo che deve rispettare struttura, planimetrie e volumi della sua costruzione. Chiunque legga il poema può infatti capire che la narrazione della Commedia è letteralmente dominata da due elementi: il ritmo metrico dall’endecasillabo e la rima concatenata delle terzine: e che per mantenere l’uno e l’altra il poeta è costretto a riempire e svuotare continuamente l’endecasillabo stesso, rimuovendo o inserendo termini che poi aprono ai commentatori spericolati territori ermeneutici. Difatti, più che sotto la sferza della ritorsione divina, Dante (e chi legge) era sotto la sferza della rima, la quale non concede, per cadere perfetta, altra via che non sia quella della licenza poetica o il ricorso alla più visionaria fantasia.

    Lavorare senza quell’assillo che il poeta si è imposto, e che ha dato tra i versi più alti prodotti dalla nostra civiltà, è, insieme, semplice e particolarmente insidioso. Una versificazione in prosa richiede infatti una ritmica interna, un colore e una tensione narrativa che impongono a loro volta l’osservanza di una serie di regole non meno ferree di quelle dantesche. Le terzine, spesso, esauriscono un frammento narrativo o un pensiero in se stesse; altre volte si incatenano alle successive e continuano entrambi. Il travaso del racconto in una forma poetica diversa dall’originale richiede dunque un uso piuttosto intenso di avverbi e congiunzioni, che saldino il tessuto sintattico in modo tale da dare continuità al tutto, per non creare insomma quei buchi che alla lettura del verso dantesco non avverti ma in un verso in prosa sì, e anche troppo.

    La bibliografia dantesca credo sia seconda solo a quella relativa a Gesù Cristo: non se ne vedono i confini; ma a differenza dell’esegesi neotestamentaria, la critica dantesca è non solo immensa ma emozionante e bella. Molte pagine scritte dai dantologi si possono annoverare infatti tra le più straordinarie della nostra letteratura, e l’impegno che vi è profuso è in genere appassionante, frutto di una vita letteralmente consacrata a Dante. Si va da Jacopo Alighieri, figlio del poeta, che commentò l’Inferno nel decennio successivo alla morte del padre, a Emilio Pasquini e Antonio Quaglio, la cui edizione della Commedia è del 1987. Personalmente non ho mai, nella versione che offro dal poema, optato per un’interpretazione accessoria o alternativa a quella dei dantisti: innumerevoli sono infatti i luoghi della Commedia sui quali permangono pesanti dubbi ermeneutici, in genere non risolti. In tutti questi casi mi sono semplicemente riferito all’interpretazione corrente, poiché quello che mi sono imposto durante l’intero lavoro è stato unicamente l’impegno di trasporre in italiano corrente il racconto dantesco, illuminandone il più possibile la struttura narrativa, diciamo pure romanzesca, senza la quale l’intera architettura del poema collassa su un enciclopedismo non migliore né peggiore di quello di Severino Boezio o di Isidoro di Siviglia. Non è un caso che le pagine più amate di Dante, quelle che gli hanno consentito di traversare i secoli, non siano quelle rifatte sui calchi tomistici sparsi nell’intera Commedia, ma risiedono nella potenza evocativa consegnata agli episodi e ai personaggi più toccanti, lirici e commoventi del ‘romanzo’. Di Dante oggi sapremmo poco se di lui sopravvivesse solo la poesia religiosa, che comunque impregna di sé tanti versi del poema. Al contrario, egli è sopravvissuto per i vertici emozionali della sua umanità fatta poesia, e per il fatto che tale poesia non si eleva nel cielo terso degli eroi, ma erompe dal fango delle passioni umane, delle manie, delle ossessioni, delle malvagità, delle generosità, delle abnegazioni di quei suoi personaggi cavati dalla pancia sventata e colorata del suo Trecento; dal fatto di aver inserito come asse portante della sua visione oltremondana non tanto la figura di una dea irraggiungibile nel mito o di una santa straziata dal martirio, ma quella di una ragazza fiorentina morta poco più che tale, probabilmente bellissima, che gli ha toccato cuore e sensi nell’adolescenza, e il cui ricordo lo ha accompagnato per un trentennio, sublimandosi poi, attraverso la poesia, in quello di una creatura celeste seconda sola alla Vergine Maria. Ecco, è questo che ho cercato soprattutto di fare: evidenziare, partendo dal vertice lirico della versificazione, quella trama, quei personaggi, quei sentimenti che il meccanismo prosodico delle terzine e la dimensione del pensiero teologico rendono non facili da individuare con immediatezza.

    In proposito devo però aggiungere che, così come non ho mai inserito chiose occulte che aprissero la via a nuove interpretazioni, non ho nemmeno contrabbandato nel testo modi di dire o lemmi che siano estranei all’italiano di Dante, ovvero termini non ancora prodotti dall’evoluzione della nostra lingua nel Trecento. Faccio alcuni esempi del modo con cui ho voluto condurre questa rivisitazione del capolavoro dantesco.

    Nell’ottavo Canto dell’Inferno Dante si scontra con Filippo Argenti. Si capisce subito che siamo di fronte a una brutta storia tra fiorentini imbestialiti, che non fa certo onore all’Alighieri poeta ma è scusabile se guardiamo all’Alighieri pellegrino, che chissà cosa mai covava contro quel suo concittadino. Ebbene, quando lo vede emergere dal pantano dello Stige gli dice paro paro: S’i vegno, non rimango; ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto? Immaginate quest’attacco con l’accento toscano, la sincope ritmica, il disprezzo di cui è intriso. Nessuna traduzione letterale potrebbe rendergli giustizia. Due oneste traduzioni effettuate in anni ancora recenti danno: Se io vengo qui non resto! Ma tu chi sei, che sei così bruttato dal fango?/Se io vengo non è per rimanere; ma tu chi sei che sei così imbruttito? In entrambi i casi si rientra in quella forma lessicale ed espressiva che nega a Dante qualunque violenza stilistica e costringe la lingua della Commedia entro quella giudiziosa forma di moderazione estetica ed emozionale che la Commedia stessa nega continuamente. Io ho tradotto: Se vengo, sta’ certo che qui non resto. E tu chi sei, che fai così schifo? Questo mi sembrava ci fosse in quelle righe proditorie e piene di fango.

    A ridosso delle bolge (nelle altre due Cantiche la lingua si fa ben più castigata) Dante si lascia andare. Scambi di battute e lemmi tratti dal vernacolo più sozzo emergono di continuo: castigarne la natura con una versione italiana smagliante e sorvegliata significa demolire quelle terzine stridenti sulle quali la dantistica si è mossa come su tritume di vetro. Io ho però tradotto così come Dante detta. Tuttavia, più di una volta mi sono trovato a dover fare delle scelte inevitabili. Ecco, tra i tanti, un esempio.

    Canto XXI (tra i più surreali e comici della Commedia), verso 72. Virgilio va incontro ai diavoli che fanno la posta ai barattieri. Quelli arrivano come mastini sguinzagliati per fargli la festa, ma il Duca, imperioso, li ferma. L’endecasillabo originale detta: " ma el gridò: Nessun di voi sia fello!" Ora, Dante aveva il non facile compito di suggellare quel comando di Virgilio con una rima in ello (c’erano già poverello e ponticello). La traduzione corretta sarebbe dunque: " Nessuno di voi sia traditore!", ossia un latinismo medievale ( fello, fellonis). In qualunque caso è una frase che, trasferita in un contesto narrativo in prosa, non ha alcun senso, per quanto già il Buti — ovvero ai tempi di Dante — si industriasse a sostenere che fello vuol dire male intenzionato, o, come sembrerebbe da altri luoghi del poema, malvagio. Si poteva dunque tradurre con qualcosa di simile a " Nessuna violenza!" Ma i diavoli stanno facendo il loro mestieraccio, non tradiscono nessuno, violenti lo sono d’ufficio e che siano male intenzionati lo capisce chiunque. In quanto a ricondurre fello direttamente a malvagio non mi pare proprio il caso: Non siate malvagi!, più che imperioso è ridicolo se detto a dei demoni, se non addirittura patetico. Come regolarsi, dunque — e, attenzione, nel tradurre il poema questo mi è capitato centinaia di volte, anche se con sfumature molto diverse — come riaggiustare quel fello che non dovrebbe essere traditore ma malvagio, e a Dante serve solo per far rima? Io sono andato all’intenzione prima di Virgilio che, vedendosi quella canea diabolica piombargli addosso, dopo il fello in questione, continua dicendo pressappoco che sarà bene che dal gruppo diavolesco si faccia avanti qualcuno, poiché lui qualcosa da dire ce l’ha, eccome. Poi si vedrà se andranno usati o meno gli uncini. Non mi restava quindi che un comando diverso, sicuramente più attagliato all’occasione: ovvero Non un passo avanti!, che di fatto è quello che vuole il Duca: arrestare il gruppo infernale poi parlamentare. È arbitrario, è ovvio: ma drammaturgicamente ha senso e non è comico.

    Altro problema di ardua soluzione è stato quello di rendere in prosa quelle terzine che in genere aprono un canto, e che Dante affida spesso a digressioni mitologiche o astronomiche: nel primo caso per rendere tangibile un suo stato d’animo o una situazione contingente; nel secondo per offrirci coordinate geografiche o temporali con le quali orientarci a nostra volta. Uno su tutti (che uso come esempio) è l’inizio del XV del Purgatorio, dove il poeta impiega la bellezza di ventuno endecasillabi, ovvero sette terzine, per dirci che lì dove si trova è il crepuscolo e che la luce di un angelo lo abbaglia. Nonostante i tentativi di nobilitare questo incipit da parte dei dantisti, esso resta un guazzabuglio di brutti versi, fondamentalmente insensato e tautologico, e perdipiù gravato da una definizione del sole ( della spera che sempre a guisa di fanciullo scherza) che da sette secoli fa ammattire gli esegeti. Non entro in merito a tale argomento perché non ho il diritto e tantomeno gli strumenti per aggiungere qualcosa al già universalmente detto. Aggiungo solo che in questo unico e rarissimo caso, per non produrre una parafrasi in prosa che rasentasse il comico o fosse farraginosa quanto l’originale, ho compattato il senso e mi sono limitato a entrare nel canto dicendo l’essenziale: ovvero che era il crepuscolo e, oltre alla luce del sole, un abbaglio aggiuntivo e insostenibile feriva gli occhi del pellegrino. Tutto qui. Devo però sottolineare che si tratta di un caso eccezionale, poiché in genere, e per tutto il poema, non ho fatto altro che riversare in prosa il più fedelmente possibile quanto nei versi danteschi c’è dalla bellezza di settecento anni.

    Ecco, con questi pochi esempi ho cercato di dare un’idea di come ho proceduto in questa decodifica dantesca. Quindi, nessun tentativo di produrre qualcosa che spieghi Dante: a questo, la dantistica pensa ogni giorno. Dunque, solo un’illustrazione narrativa di una poesia di fatto intraducibile, che da sette secoli ha fatto — e fa — la nostra storia nazionale. E non solo quella.

    NOTA: Trattandosi di una parafrasi fedelissima del poema, non ho ritenuto in nessun caso di dover inserire schemi riassuntivi dei vari Canti, biografie dei personaggi citati da Dante, strutture dei vari regni dell’oltretomba e tutti quegli apparati che sono imprescindibili in un’edizione commentata, a una qualunque delle quali invito il lettore a rivolgersi per chiarire ogni dubbio e curiosità che possa insorgere in lui.

    INFERNO

    Canto I

    Al culmine della mia vita mortale capii di essere avvolto da un’oscura foresta e di aver smarrito in essa qualunque via d’uscita. Non so dire come fosse questa selvaggia e barbara selva, la cui immagine mi agghiaccia quanto il pensiero della morte. In essa tuttavia avrei trovato le ragioni per redimere me stesso, e perciò devo raccontare quello che vi accadde.

    Non so come vi fossi entrato, tanto la mia coscienza era ottenebrata dall’errore che mi aveva allontanato dalla verità. So soltanto che a un certo punto compresi di essere arrivato ai limiti di un colle, sui confini di quell’abisso che mi aveva sconvolto dal terrore: un colle dorato dai primi raggi del sole. Allora si placò in me la paura che aveva invaso il mio sangue in quella notte d’angoscia, e come colui che, scampato a un naufragio, senza più fiato, fissa le onde nere che volevano inghiottirlo, così l’anima mia, che ancora fuggiva, si volse a fissare il limite oltre il quale nessuno può sopravvivere.

    Nondimeno, quando ebbi un po’ riposato, ripresi con fatica a risalire il pendio solitario del colle. Ed ecco, proprio su quel principio d’erta, che un’agile lonza maculata mi sbarra la strada, ferma davanti ai miei occhi, intesa a impedirmi di continuare, al punto che temetti di dover tornare indietro. Era quel momento primaverile dell’alba in cui il sole sorge con l’Ariete, il momento in cui Dio, con un gesto d’amore, generò l’universo, e questo mi rinfrancò un poco, ma non al punto da sottrarmi all’angoscia che mi colpì quando, insieme alla fiera dalla pelle screziata, mi parve che il sembiante di un leone mi venisse contro con la criniera aperta e una rabbiosa fame, tale da far rabbrividire l’aria intorno a me. Poi, col leone, ecco una lupa, così macilenta da apparire dilaniata da tutte le brame umane ch’essa stessa può generare; e la sua visione mi oppresse al punto che, di fronte all’orrore che mi ingenerava, credetti di perdere le forze per rimontare il colle.

    Come chi, con volontà e impegno, acquista ricchezze e d’un tratto, cosciente che sta perdendo tutto, si affligge e dispera, così mi sentii io alla vista di quell’insaziata bestia che venendomi incontro, poco a poco, mi stava sospingendo di nuovo verso i confini della selva. Tuttavia, mentre precipitavo verso l’ombra dell’abisso, d’improvviso mi si parò davanti la fievole figura di qualcuno che sembrava muto da secoli.

    Abbi pietà di me, gli gridai in quel deserto, chiunque tu sia, spettro o uomo.

    Lo sono stato, un uomo, rispose, ora non più. Venni al mondo da genitori lombardi, entrambi mantovani, negli anni di Cesare, che tuttavia non conobbi a fondo. Vissi però sotto il grande Augusto, ai tempi delle false divinità pagane, e fui poeta. Scrissi di Enea, saggio figlio di Anchise, che fuggì dalla distruzione della superba rocca di Troia. Ma tu perché ti maceri in tale tormento? Perché non sali il colle che è sede di gioia e di pace?

    Dunque tu sei Virgilio, la fonte da cui sgorga quel gran fiume di poesia? dissi stupito e reverente. Mi giustifichi ai tuoi occhi lo studio profondo e l’amore che ho sempre avuto per la tua opera. Luce di poesia, tu sei stato il mio maestro, colui da cui ho tratto lo stile tragico che sin qui mi ha fatto onore. Ora però guarda la lupa da cui fuggo, salvami da lei e dall’angoscia che mi fa tremare le vene e i polsi.

    Se vuoi sopravvivere a questo luogo di tormento, disse quando mi vide piangere, dovrai prendere un’altra via, poiché questa bestia che ti terrorizza è implacabile, e finirebbe per ucciderti. È dominata da una natura così malvagia ed empia che la sua smodata cupidigia la rende insaziabile: dopo il pasto ha più fame di quanta non ne avesse prima. Molte sono le bestie a cui si accoppia, e molte lo saranno in futuro, finché non verrà un levriero che non la strazierà. Esso non sarà avido di terre o di tesori, ma di saggezza, amore, virtù, e le sue origini saranno nobili. Sarà la salvezza di questa miserabile Italia per cui si immolarono, lacerati di ferite, la vergine Camilla, Eurialo, Niso, Turno. Costui la stanerà di città in città, finché non l’avrà scagliata negli inferi da cui Lucifero in origine la trasse. Per questo ritengo sia meglio che tu mi segua. Se vuoi, ti farò da guida, ti trarrò da qui per condurti all’Inferno, dove udrai grida senza speranza, vedrai le anime dolenti di antichi spiriti che ululano la propria dannazione; conoscerai poi coloro che stanno in Purgatorio, purificati dalle fiamme, fatti felici dalla speranza di poter salire un giorno in Paradiso, al quale, se vorrai ascendere, provvederà un’anima ben più degna di me, alla quale ti affiderò, abbandonandoti a lei. Dio non ammette infatti che io varchi le mura della Sua città, poiché nacqui prima della venuta di Cristo. Egli impera in tutto l’universo, ma è lì che ha la Sua città, lì che ha il Suo trono. Oh, felice colui che Egli ammette lassù!

    Poeta, gli dissi, per quel Dio che non hai conosciuto, affinché io possa fuggire da questo male e dalla dannazione eterna, ti prego, portami dove ritieni che io debba andare, conducimi dove potrò vedere la porta del Paradiso e i dannati degli inferi.

    Allora lui si mosse, e io lo seguii.

    Canto II

    Il giorno declinava e il cielo imbruniva, sollevando gli uomini dai loro affanni, e io soltanto mi apprestavo a sostenere i perigli di quel cammino e di quell’angoscia che evocherò dalla mia memoria intatta. O Muse, o sublimi intelligenze ispiratrici, o mente, che in te hai scolpito quel che vidi, suggella qui la tua grandezza.

    Poeta che mi guidi, dissi io, guarda in me e giudica tu se la mia capacità è tale da affrontare l’Averno. Tu scrivi che Enea, col proprio corpo, andò nell’oltretomba. Ma se Dio fu con lui tanto generoso, ciò non può scandalizzare un uomo di senno, quando si pensa a quello che da Enea e dalle sue virtù doveva poi discendere, perché fu lui ad essere designato dall’Empireo come padre di Roma l’eccelsa e del suo impero: Roma e impero, in realtà, che furono decretate anche come culla della santa sede dove risiede il papato. Con tale discesa all’Averno, di cui tu gli attribuisci il privilegio, egli ebbe il presagio della sua vittoria e il presupposto della futura autorità papale. Fino al Terzo Cielo ascese poi lo strumento eletto da Dio, Paolo apostolo, per dare sostanza a quella fede che è il fondamento della salvezza. Ma io, perché debbo farlo, io? Chi me lo consente? Non sono Enea, Paolo non sono, e nessuno, io per primo, mi ritiene degno di tanto. Così, se mi lascio coinvolgere in questa avventura, temo che il mio viaggio nell’oltretomba mi superi, sia troppo. Ma tu sei saggio, e certamente comprendi meglio di me quanto fatico a dirti.

    Su quell’oscuro pendio, prevenendone tutti gli ostacoli, cercai di immaginare l’impresa verso cui mi stavo avviando, e mi sentii nello stato d’animo di chi cessa di volere ciò che poco prima ha deciso di sperimentare, e cambia idea sotto la sferza di una nuova riflessione, allontanando il proposito iniziale.

    Se ti ho capito, disse l’ombra di Virgilio, "la tua anima è lacerata da quella viltà che molto spesso impedisce all’uomo di compiere onorate imprese, così come un cavallo, ingannato da una falsa apparenza, si impenna. Dunque, di modo che tu ti possa liberare da questo timore, ecco, ti dirò perché sono venuto sin qui e quello che ascoltai quando, per la prima volta, sentii pietà per il tuo stato infelice. Io ero tra coloro che stanno sospesi tra dannazione e beatitudine, quando fui chiamato da una donna di tale bellezza e letizia da indurmi subito ad offrirle la mia obbedienza. La luce dei suoi occhi vinceva quelli di una stella e cominciò a parlarmi soavemente, dolcemente, con voce angelica: «O cortese anima mantovana, la cui fama dura ancora fra gli uomini e durerà quanto il mondo, ascoltami. Un vero amico — non uno di quelli che mutano secondo la fortuna — sul deserto pendio del colle è tanto smarrito da voler quasi tornare sui suoi passi per l’angoscia. Io ho timore che sia ormai al punto da rendere vano il mio soccorso, visto quanto ho saputo di lui nei cieli. Vai dunque, e aiutalo con la tua alta parola e con ciò che reputerai necessario per la sua salvezza. Sarà un conforto sapere che lo farai. Chi te lo chiede è Beatrice, che viene da un luogo a cui desidera tornare. Qui mi ha spinta amore, e amore ispira le mie parole. Quando sarò davanti al mio Signore ti loderò per quello che vorrai fare». E qui tacque. «O signora di quella virtù per cui l’uomo è superiore ad ogni essere che sta sotto il Cielo della Luna», le dissi allora io, «il tuo comando mi è tanto gradito che se ti stessi già obbedendo mi sembrerebbe pur sempre tardi. Sappi però che non hai bisogno di chiedermi altro. Dimmi solo perché non temi di scendere fino al centro dell’universo dal luogo sconfinato in cui brami di tornare».

    «Dato che vuoi sapere così in profondità perché non temo di abbassarmi sin qua», mi rispose, «te lo dirò in breve. Io ho paura solo di ciò che può recare danno agli altri. Nient’altro. Ma per grazia divina sono tale che la vostra miseria di peccatori non mi sfiora, così come non mi sfiorano le fiamme infernali. Una donna gentile, nell’Empireo, sentì tuttavia pietà per colui a cui ti mando, al punto da mitigare la giustizia divina nei suoi confronti. Essa chiamò dunque Lucia e le disse: «L’uomo che ti è devoto ha bisogno di te, e io te lo affido». Lucia, nemica di ogni crudeltà, si mosse a venne da me, dove siedo accanto alla biblica Rachele, e mi disse: «Beatrice, inno di gloria a Dio, perché non corri in soccorso a chi ti amò tanto, a colui che per te emerse dalla massa bruta? Non ne senti l’angoscia fatta pianto? Non vedi che la dannazione lo ghermisce sul vorticoso fiume delle passioni, più travolgente del mare in tempesta?». Mai nessuno fu più sollecito a sfruttare un vantaggio o fuggire da un danno di quanto non fossi io, dopo tali parole, a calarmi quaggiù dal mio scranno di beata per affidarmi alla tua nobile eloquenza, che onora te e coloro che da essa hanno tratto nutrimento». Questo mi disse Beatrice, e dopo questo mi guardò con gli occhi lucidi. E allora, così come lei voleva, io venni da te subito e, sulla scorciatoia per salire al colle, ti sottrassi alla fame di quella lupa. Che hai dunque? Perché, perché indugi? Perché covi in te tanta viltà? Perché non trovi in te stesso fiducia e coraggio di fronte alla cura celeste che hanno di te tre donne benedette, oltre alla garanzia che io ti offro per tale pellegrinaggio?"

    Come esili fiori, prostrati a terra con le corolle chiuse contro il notturno gelo, appena li rischiara il sole dell’alba tornano a drizzarsi sullo stelo, così accadde a me. D’un tratto mi sollevai dall’ambascia del mio stato e mi sentii soccorso da un nuovo coraggio, fatto di parole aperte e franche.

    Ecco, io sono di fronte alla pietà di colei che mi ha soccorso, e a te, anima gentile, che senza indugio le hai ubbidito! Con quello che mi hai detto hai talmente mutato il mio cuore verso tale viaggio che non posso non abbracciare quella mia prima intenzione. Vai, dunque, e che una sola volontà ci governi. Fammi da guida, da padre, da maestro.

    Così gli dissi. E quando lui si incamminò io lo seguii su quella via selvaggia e infernale.

    Canto III

    Io sono eterna e mi spalanco sul regno dell’infinito dolore,

    sulla città della sofferenza e della dannazione.

    Oltre il tempo mi eresse la giustizia della Trinità

    e nulla fu creato prima che io fossi.

    Lasciate ogni speranza voi che entrate.

    Scalpellate in caratteri scuri, tali erano le parole che vidi incise sopra una porta.

    Maestro, dissi allora, quello che leggo mi sgomenta.

    Qui sarà meglio lasciare ogni paura e ogni viltà, mi disse lui, che aveva ben capito il mio stato. Ecco, siam giunti dove ti ho detto che ti avrei portato, il luogo in cui vedrai le anime straziate che hanno perso la speranza di vedere Dio.

    Così dicendo mi prese per mano e mi sorrise. Poi, quando vide che mi ero un po’ rinfrancato, mi immerse in quel mondo oscuro e ignoto ai vivi.

    Lì, dalle tenebre, venivano sospiri, pianti, lamenti tali che mi gonfiarono subito gli occhi di pianto. Lingue di ogni genere, grottesche pronunce, parole di dolore, accenti d’ira, grida pungenti e represse lanciate tra percosse di mani creavano un tumulto che, come sabbia nella tormenta, sembra vorticare eternamente in quelle tenebre.

    Maestro, dissi con la mente attanagliata dall’orrore, cos’è quello che sento? Che gente è questa così schiantata dal dolore?

    Questa è la musica miseranda dalle anime sciagurate che passarono la vita senza mai scegliere tra il bene e il male. Sono confuse con quel maligno coro di Angeli che durante la ribellione di Lucifero non si opposero a Dio e neppure Lo sostennero, ma fecero parte a sé. I Cieli, affinché il loro splendore non venga intaccato, li hanno banditi, né li accoglie il fondo dell’inferno, considerato che le anime dannate potrebbero gloriarsi di aver attratto a sé quelle antiche creature.

    Che cosa, Maestro, è per loro tanto intollerabile da costringerli a urlare in tal modo?

    Te lo dico con due parole. Questi non hanno alcuna speranza di poter annullare totalmente il loro essere, e del resto la loro vita senza scopo è tanto vuota e miserabile da renderli invidiosi di qualsiasi altro destino. Nel mondo non hanno lasciato di sé alcun ricordo, e la misericordia e la giustizia divina sono indifferenti alla sorte che li attende. Ma ora basta parlare di loro. Guardali pure ma passa oltre.

    Osservai allora meglio, e vidi un vessillo sfrecciare tanto rapidamente da rendere inverosimile pensare di poterne arrestare la corsa. Dietro di esso si assiepava una massa tale di dannati che mai avrei immaginato che la morte tanta ne avesse annientata. In quella calca, tra i pochi che mi parve di riconoscere, vidi però l’anima di colui che per viltà fece il gran rifiuto, e allora fui certo di essere di fronte alla turba dei vili, repellenti a Dio quanto ai demoni. Questi sciagurati, che vissero come se fossero morti, erano nudi, crivellati dai pungiglioni di vespe e mosconi, coi volti putridi rigati di sangue e lacrime, che colavano ai loro piedi, dove un tappeto nauseabondo di vermi se ne nutriva.

    Maestro, dissi non appena, spinto l’occhio più in là, ebbi visto le rive di un fiume popolate da una moltitudine, la luce è debole, ma mi sembra di vedere gente che si accalca per varcare quelle acque. Chi sono?

    Lo saprai mi rispose quando saremo arrivati alla funesta riva dell’Acheronte.

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