A Freud saremmo piaciuti
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di Nadia Lattanzi
Questo non è un romanzo e neppure un racconto. Questo libro contiene dodici storie apparentemente slegate tra loro. Dodici “cronache” forse fastidiose, qualcuna bella, qualcun’altra strampalata, altre colorate di magia. Tutte, però, sarebbero piaciute a Freud…
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A Freud saremmo piaciuti - Nadia Lattanzi
Freud
Cesare
La via è affollata: gente che viene, ragazzini che corrono.
Ma non è giorno di scuola, oggi? E poi, cacchio! Di quel colloquio non mi hanno fatto sapere più niente! È mai possibile che uno debba pregare per lavorare? E poi, fra un po’ scade pure il canone della televisione... Magari la guardassi, quella scatola! Vabbè, diciamo che siamo a fine mese, quindi Giovanni prenderà lo stipendio. Forse non tutto e subito, per carità, ma intanto l’affitto lo paghiamo. Poi c’è la bolletta della luce… Quella, ho l’impressione che non possa aspettare. Acc... Sam, non mi passare davanti che poi finisce che casco! Come quella volta che eravamo in Via del Corso. Ti ricordi, Sam? Una folla di stranieri sudati e con i panini in mano, un caldo torrido e tu che vedi una fontanella e decidi di correre. Che tipo! Mi si allaccia il guinzaglio alla caviglia e patapunfete! Una figura! E la giapponesina, la metà di me, che tenta di raccogliermi! Ho ca i’
?
Un uomo dai capelli bianchi, sdentato e col viso rugoso, mi guarda dall’alto, sullo sfondo di un cielo plumbeo e di qualche testa riccioluta di bambino che non è andato a scuola.
Sebbene non sia un gigante, mi sovrasta, e la sua voce si tramuta in un: «Come stai?»
«B… bene… credo…» borbotto. Che diavolo è successo? penso.
«Beh, nun sembrerebbe, stai stesa su via Tuscolana!»
La voce mi desta, ricordandomi dove mi trovo.
«Che, devo da chiama’ l’ambulanza o ce la famo da soli?»
Mi alzo sui gomiti, con le sue mani nodose che mi aiutano in questa non facile operazione.
Come cavolo ho fatto a capitombolare a terra come una fessa? Forse perché ho lo zaino e poi le borse e anche Sam che mi trotterella intorno. O forse perché… Già. O forse perché...
«Niente ambulanza, ce la faccio. Sì, sì, sto bene!»
Guadagno la posizione da bipede. Sam salta come una rana in uno stagno, felice di vedermi in piedi. Guardo l’omino che cerca di radunare la mia spesa, sparsa sul marciapiede. Raccogliere pomodori e zucchine su via Tuscolana è una scena talmente buffa che in un’altra occasione ci avrei riso su. Solo che sono io l’oggetto dello scherno. E non c’è niente da ridere.
Eccolo lì. Piccolo ma con grandi vene azzurre che cercano di rimanere attaccate alle ossa sotto un sottile strato di pelle. Schiena curva da lavoratore dipendente da una vita. Jeans del mercato rionale non proprio all’ultimo grido. E...
«Signori’? Dopo che m’hai fatto la lastra te va de veni’ con me a pia’ ‘n caffè? Te girava la testa, me sa!» La sua è più un’osservazione che una domanda e, senza aspettare la mia risposta, si dirige, buste in mano, verso il bar. Sam guarda ora me, ora lui. Aspetta che io faccia qualcosa, o almeno, che salvi il suo pranzo.
«Sì, credo…» rispondo titubante.
Ma mi avrà sentita? Io l’apparecchio acustico non l’ho visto. Giuro!
Entriamo nel bar che ha assistito al mio tracollo e con fare cavalleresco l’omino gentile molla giù il mio pranzo e qualche cena e mi porge una sedia. Un corale «Ciao Cesare!» saluta il suo ingresso al bar.
Al ragazzo dietro al bancone dice: «Du’ caffè! Boni me riccomanno, che sta regazzetta c’avuto ‘n calo de pressione!» Il giovanotto sorride in mezzo ai brufoli e a un accenno di barba.
Cesare mette le buste cariche di verdure sotto il tavolino e Sam annusa le sue mani; lui gli regala una strizzata di orecchie. Aspetta che l’imberbe barista prepari i due caffè, prende le due tazzine con mani così tremolanti che dubito del loro arrivo a destinazione e poi si accomoda davanti a me. Sceglie con cura due bustine di zucchero e le versa nel liquido miracoloso. Mescola con cura e poi mi passa il mio. Si vede che per lui si tratta di un rito e con quei gesti sembra dire: Calma, prendiamoci tempo. Mi guarda negli occhi e sorride. Una fila di non denti apre il sipario su un’anima troppo vissuta. Su una vita di lavoro, di cose che non si sa come dire, perché gli studi, chi l’ha fatti? Su un tempo che è ormai troppo perché chi ci stava a fianco è andato a fare un viaggio. Su dei figli che hanno un lavoro importante e dunque poco tempo per un caffè. Ci guardiamo in silenzio, col rumore delle tazzine che escono dalla lavastoviglie e un panino che diffonde un odore di hamburger e cipolle. Il telefono che squilla. E poi: «Scusa, che mi dai un pacchetto di Marlboro?» da un ragazzetto con troppi piercing.
Il caffè è buono. Lui lo tracanna come se fosse in astinenza da quella droga dei poveri. Cincischia con lo zucchero rimasto sul fondo della tazzina e continua a guardarmi. Io, imbarazzata e con un mal di schiena da primato, sorrido a mia volta. Gli occhi negli occhi e Sam adagiato sopra i suoi piedi. Per un attimo mi sembra che sia lui a fare la lastra a me, stavolta.
Abbasso lo sguardo sul tavolo e un pensiero mi alleggerisce il cuore...
Spingo indietro la sedia e insieme anche la mia ansia, faccio la conta delle mie cose e poi lo guardo di nuovo.
«Devo andare ora. Grazie di cuore», dico e per un istante torno a immergermi nei suoi occhi. Mi alzo per andare a pagare e la signora alla cassa – così obesa che mi viene il dubbio che forse ci vive, incastrata dietro alla cassa – mi ferma con un: «C’ha penzato già er sor Cesare.»
Lo guardo con gratitudine.
«Grazie Cesare, è veramente gentile! Arrivederci!»
Mi guarda con occhi dolci e mi risponde: «Arrivederci! Eh, regazzì?» Sorride. «Sto pupo che deve nasce, tiello!»
Sorrido.
Via Tuscolana è sempre affollata. Forse più di prima.
Ma sì, che aspetti anche l’abbonamento a mamma RAI. E magari al padrone di casa chiediamo se si può pagare un po’ meno per i primi tempi. E poi, alla fine, chissenefrega! Dove si mangia in due si mangia pure in tre, diceva sempre mia nonna. Magari ar Sor Cesare gli posso pure chiedere se, qualche volta, il pupo
ce lo tiene lui.
Continuo a sorridere.
Ramona
Era alta, con un bel paio di gambe che a malapena si reggevano sui tacchi che si ostinava a indossare. Il risultato era un incedere tremolante come un budino venuto male. Un po’ muscolose quelle gambe, questo sì, ma dritte. Indossava prevalentemente gonne strette e qualche volta dei jeans che mettevano in risalto il suo bel didietro. Eh, sì! La signorina Ramona non era bella, ma aveva un gran bel culo: alto, sodo, con due fossette sopra la schiena che sembravano sorridere a quel ben di Dio che c’era sotto.
Uno degli impiegati, il ragionier Silvio, più volte si era perso in fantasie su di lei, col risultato di dover lasciare l’ufficio per andare a cercare un po’ di sollievo in bagno. Appena tornava a sedersi, però, la signorina passava a consegnare le pratiche evase durante il pomeriggio e lui, di nuovo, si perdeva in quelle chiappe tonde come due mezze mele, immaginandone la consistenza, apprezzandone la forma, osservando il loro ondeggiare sulle cosce tornite. Non era bella la signorina Ramona, almeno non quanto il suo sedere prometteva. Il busto, arrotondato da qualche chilo di troppo, le spalle dritte e molto pronunciate, e le braccia eccessivamente lunghe, in qualche modo riportavano lo sguardo proprio al culo, che continuava a essere il punto focale dell’interesse maschile.
Durante il giro della posta che, in genere, si faceva al mattino, Ramona ondeggiava pericolosamente nei corridoi dell’ufficio con una pila di buste ordinatamente disposte su un carrello. Era stata assunta due mesi prima. In quel lasso di tempo, il ragionier Silvio aveva potuto apprezzare i suoi principali pregi: il posteriore e il fatto che fosse sorda.
Niente da dire: se quel culo parlava quando era in posizione di riposo, immaginate come urlava in movimento.
Il ragionier Silvio lo venerava quasi, e s’immaginava il filo sottilissimo di mutande che si trovava lì in mezzo. Incurante dei colleghi, con lo sguardo seguiva Ramona sino alla fine del corridoio, sognando sconcezze che neanche in adolescenza la sua fantasia aveva partorito. Spesso si alzava e andava a pedinare più da vicino quelle due chiappe sode, mentre un certo rigonfiamento dei pantaloni all’altezza dell’inguine denunciava il risveglio del suo amico intimo.
Le colleghe si mostravano infastidite da tale audacia ma, anziché prendersela col guardone, davano a Ramona la colpa di quelle attenzioni. La signorina, tuttavia, non si accorgeva degli sguardi insistenti dell’impiegato; non sapeva come e quanto il suo culo fosse pedinato, usato, guardato e vilipeso. Stando dietro di lei il ragionier Silvio si lasciava andare alle più perverse fantasie: vaneggiare ad alta voce in presenza dell’oggetto del suo desiderio lo eccitava a dismisura e una volta capitò persino che non riuscisse a fermare la mano, che si andò a posare sulle dolci colline. Si trovò di fronte il viso della signorina Ramona che, con un’espressione indecifrabile, chiedeva lumi sull’accaduto e prontamente si scusò!
La signorina, lungi dall’immaginare che in quel gesto c’era ben poco di casuale, accettò le scuse sfoderando un sorriso.
Figlia di padre italiano e di madre brasiliana, la non giovanissima neo-assunta era venuta in Italia a cercare fortuna e, ponendola la sua sordità in una categoria protetta, era stata ingaggiata in quell’ufficio con il compito di smistare la posta. Per quanto quel lavoro non richiedesse di comunicare con i colleghi, Ramona andava in giro per i corridoi con una lavagnetta sulla quale, in caso ce ne fosse stato bisogno, scrivere qualche breve frase.