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Il sole in sella
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Il sole in sella

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About this ebook

Per molti la boxe è uno sport che rappresenta la metafora della vita: si colpisce, si è colpiti, si va al tappeto e ci si deve rialzare. Anche l'equitazione può essere vista in questo modo. Non importa quante volte sei sbalzato dalla sella, se vuoi continuare a correre, devi risalirci una volta in più. Qui però non sei solo a combattere: c'è il cavallo, fedele alleato dell'uomo dalla notte dei tempi. Nel rapporto con questo nobile animale, Giorgia troverà la forza di affrontare e superare i mille imprevisti che la vita le metterà davanti, per far rinascere la luce della speranza e per riaccendere "Il sole in sella".
LanguageItaliano
Release dateSep 20, 2020
ISBN9788832144703
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    Il sole in sella - Giorgia Antonelli

    Vincenzo

    I

    Là sotto

    Ero una di quelle bambine in fissa con le fiabe, innamorate delle storie di principesse, con le fate, gli incantesimi, il finale marcato da un bacio e l’inevitabile vissero tutti felici e contenti . Be’, vi sfido a trovare una bimba nata negli anni ’80 che non amasse tutto ciò. Per il resto, stavo tutto il giorno a giocare con amici e cugini, quasi sempre all’aria aperta, in un posto da noi rinominato là sotto: una porzione di cortile sotto casa di zia Grazia, la più anziana sorella delle nostre nonne.

    Non posso giurarlo , ma è probabile che a vessimo scelto quel luogo soprattutto per godere degli spuntini preparati da lei : pane con olio e sale, oppure pane e zucchero. Già, e chi se li scorda quei sapori, ormai legati come un a unica dolce suggestione di nostalgia al ricordo di quei giorni? Nel bel mezzo di una sessione di nascondino, qualcuno di noi bimbi usciva allo scoperto e gridava: «Z i’ , abbiamo fame!» e subito arrivava la merenda per tutti. Considerato il fatto che il nostro gruppo di giochi era abbastanza ampio, la povera donna era costretta ogni pomeriggio a consumare almeno un filone di pane per sfamarci.

    Per lo più eravamo fra cugini, a parte due o tre amici che abitavano lì intorno, cresciuti insieme e iscritti tutti nella stessa scuola ma in sezioni diverse. Nel periodo di massimo splendore, costituivamo una brigata di tredici o quattordici bambini di età compresa tra i sette e i quindici anni.

    Crescendo, avevamo poi sentito l’esigenza di darci un nome. Eravamo stati ispirati da un filmaccio uscito in quegli anni o poco prima, intitolato Ci hai rotto papà , dove c’erano questi ragazzini, raccolti in una banda, che si facevano chiamare gli Intoccabili. Noi, però, per non essere banali, o presi da una leggera vertigine di immodestia, avevamo optato per qualcosa di più altisonante: eravamo i Magnifici. Un gruppo assai esclusivo, nel quale erano ammessi soltanto cugini degni di partecipare allo stupido rito d’iniziazione previsto dal cerimoniale: passarci una gomma da masticare di bocca in bocca . Si partiva dal più grande, Mirko, che scartava il chewing-gum e lo masticava per primo, fino ad arrivare al membro più piccolo del clan, ossia mia sorella, la quale, poverina, doveva ficcarsi in bocca la cicca già sbavata da tutti gli altri. Io ero tra le prime e mi andava di lusso.

    Andavamo in giro a far scherzi e danni ovunque.

    I nostri genitori, a loro volta cugini di primo grado o fratelli, erano molto uniti e spesso organizzavano vacanze insieme o cene. Fantastico per noi Magnifici! Il gruppo poteva così riunirsi con frequenza regolare e impostare dei piani articolati di azione, per congegnare scherzi sempre più arditi ed emozionanti. Il capo era mio cugino Mirko, il nostro Toro Seduto, il carismatico condottiero, che avremmo seguito in ogni impresa, lo sciamano cui ci saremmo affidati per ogni nostro problema.

    A un certo punto ci aveva assalito la mania di rubare gli stemmi dalle automobili. Tra i più ambiti: il leoncino della Peugeot, la stella a tre punte coronata della Mercedes e il rarissimo felino rampante della Jaguar.

    Sbagliatissimo, ragazzi: non fate mai niente del genere! Posso assicurarvi che si tratta di un passatempo tanto stupido quanto rischioso. Ma che volete farci?

    Noi Magnifici eravamo tanto stupidi quanto sprezzanti del pericolo, e non c’era auto che potesse sfuggirci.

    Che cosa ce ne facevamo poi, di quegli stemmi? Niente.

    Nessuno fra noi si era mai preoccupato della gratuità del gesto e delle conseguenze cui saremmo potuti andare incontro. Un giorno mio padre trovò il nostro bustone pien o di stemmi e si arrabbiò moltissimo, anche se, conoscendolo, posso dire che in un secondo momento si sarà fatto una grassa risata. Smettemmo, almeno per un po’.

    Non so dire per quale motivo mi lanciassi in imprese così poco nobili. In fondo ero una bambina timida.

    Ok, no. Diciamo che ero timida a livelli patologici e solo quando riuscivo a stringere amicizia, a fidarmi sul serio di chi mi stava accanto, lasciavo che si esprimesse la mia vivacità. A quel punto, però, sapevo trasformarmi in una bimba simpatica e spigliata, sino a sfiorare vertici di sgarbata e sfacciata sicurezza.

    La cifra particolare del mio carattere, in ogni caso, era un’altra: ero una sognatrice. Mi piaceva immaginarmi principessa della mia vita. Cosa voglio dire?

    Fatemi pensare... devo trovare le parole adatte per spiegare bene il concetto. Ok, ci sono. Vedevo e vedo tanti cartoni animati, leggevo e leggo moltissimo e, da sempre, sono riuscita a immedesimarmi nelle storie. Be’, ora non mi capita più così spesso; cioè, lo faccio ancora, ma con minor enfasi e con maggior disillusione. Tornando a noi, da piccola credevo che mi sarebbe stato concesso il privilegio di scegliermi la mia storia: un giorno sarei diventata protagonista di una fiaba inventata da me . Ero convinta che, a furia di sperare, certe illusioni si sarebbero concretizzate. E magari, per alcune persone privilegiate è davvero così che funziona, non saprei. So soltanto che in un mondo giusto a tutti dovrebbe essere data l’opportunità di diventare protagonisti del la propria vita .

    Sognavo dunque cosa sarei diventata e cosa sarei potuta diventare. Due cose che non sempre coincidevano: da accanita sognatrice, spesso immaginavo scenari davvero impossibili, e così ero costretta ad abbassare la posta, a sognare cioè qualcosa di più verosimile. Quel grano di buon senso, che resiste da qualche parte nel fondo della mia coscienza, mi riportava alla realtà, consigliandomi di concentrarmi con la fantasia su qualcosa di più fattibile.

    Con gli anni non sono cambiata poi molto.

    Alle medie ero ancora la solita ragazzina timida, ma avevo imparato a sfruttare l’immaginazione in contesto scolastico, a convogliare la mia voglia di storie, la mia sete di fantasia sul materiale offerto dai libri di testo.

    Leggevo tanto e di tutto, dai manga alla letteratura classica per ragazzi, ed ero in grado di cogliere il significato fondamentale in ogni storia assegnata dai professori. Ero anche bravina nella lettura ad alta voce e sapevo interpretare le poesie. Oh, me la cavavo così bene che fui scelta per far parte del teatro. Ragazzi, ero al settimo cielo, perché, g uarda caso, uno dei miei tanti sogni era proprio quello di essere un’attrice. Perciò accettai, dimentica della mia tremenda timidezza, un fattore di insicurezza che avrebbe potuto mettermi in difficoltà. Mi fu assegnato un ruolo secondario, diciamo pure da comparsa, ma ne fui comunque lieta.

    Proprio in quei giorni, tra la seconda e la terza media, la mia vita andò incontro al primo, enorme cambiamento. In meglio? In peggio? Un po’ tutte e due le cose.

    Mio padre, idraulico da sempre, era riuscito a superare alcuni test e a farsi assumere presso una ditta abbastanza conosciuta. Posto fisso assicurato. E tutto questo grazie a me, come ancora si racconta in famiglia.

    V i spiego subito il motivo.

    Un giorno chiamarono a casa. Sapete, correvano i primi ‘ 90, e le comunicazioni erano ancora dominate dai numeri fissi. E, insomma, risposi a questa telefonata: il dottor qualcosa della ditta tal dei tali, per la quale il mio papà aveva fatto domanda, cercava urgentemente il signor…

    C apii subito che doveva trattarsi di qualcosa di importante, così sfoderai all’istante l’eloquio raffinato da studentessa modello delle medie inferiori e tutta la maestria drammatica conquistata attraverso la mia mirabolante carriera attoriale; all’attivo, come abbiamo detto, una sola recita scolastica come comparsa. Gli dissi che mio padre non era in casa in quel momento, ma che, qualora avessero voluto lasciarmi un messaggio per lui, avrei di sicuro registrato il tutto su carta e lo avrei fatto ricontattare non appena fosse rincasato. Niente di che, eppure la mia prontezza colpì il mio interlocutore . Così, quando mio padre lo ricontattò, il dottor qualcosa ci tenne a dirgli che ero una figlia assai educata, gentile e precisa.

    Papà entrò fisso nella nuova azienda, senza però smettere di darsi da fare con i suoi secondi lavoretti. Non so se è conveniente dirlo, dato che che il suo impegno lo conduceva a muoversi spesso al limite della legalità, ma di base lui aggiustava PC e modificava le Play Station, business al tempo parecchio in voga. Io ero contentissima dei suoi secondi lavori, perché in quelle occasioni, quando veniva cioè chiamato per qualche intervento, mi portava sempre con lui e così passava più tempo con me.

    Mamma era un generale, severa e seriosa; papà era il burlone di casa: giocava con noi e faceva scherzi, e poi era un genio in matematica, ci aiutava con i compiti, quindi per noi era un mito!

    Anche mia sorella Fabiana, che in genere è sempre stata poco espansiva in famiglia, in quei giorni stravedeva per lui. Più avanti magari avrò modo di approfondire la questione. Per ora accontentatevi di sapere che Fabiana è sempre stata una ribelle, un animo indipendente, e quindi non amava stare troppo in famiglia : aveva bisogno di dire no a prescindere, credo che sia stata la prima parola che abbia imparato a dire, e si era ritagliata presto il ruolo da bastian contrario. Io studiavo, parlavo delle mie cose ai miei genitori, stavo sempre attaccata a papà; lei invece pensava a sfidare la società, a infrangere le regole e a farsi crescere i dreadlocks. Be’, forse a quei tempi no, era ancora troppo piccola; ma poi sarebbero arrivati anche quelli.

    Insomma, mio padre era un tipo speciale, pieno di entusiasmi e che non si dava per vinto. Pareva uno in grado di arrivare ovunque. Era intelligente, a volte acuto; di sicuro non colto ma animato da indubbie doti intellettuali e da un’incredibile enfasi intuitiva. Amava lo sport, il calcio in particolare.

    Ve l’ho detto? Sono romana e romanista: in famiglia eravamo tutti tifosi della Roma; andavamo allo stadio di tanto in tanto e a papà piaceva coinvolgermi nella sua passione. Quindi, oltre a essere una tifosa accanita, giocavo a pallone con i miei cugini e chiacchieravo di calcio con loro. Conoscevo a memoria la formazione della Roma e dimostravo anche un certo fiuto come talent scout: già nel 1993 avevo apprezzato le doti di un giovane attaccante della Primavera aggregato alla prima squadra; quel ragazzo era Francesco Totti. E, che lo dico a fare, ne ero sul serio innamorata. Sì, mi immaginavo sposata con lui e con almeno tre figli. Vi avevo già detto, mi pare, qualcosa a proposito della mia fervida immaginazione, dunque non prendetemi per matta.

    Un giorno mio padre annunciò: «Stasera andiamo a una cena organizzata dai tifosi della Roma. C’è anche un calciatore, non un titolare ma comunque un giocatore tesserato.»

    Un giocatore, vi rendete conto? Ero sicura: quel calciatore sarebbe stato Totti. E così cominciai a immaginarmi l’incontro, cosa ci saremmo detti, in che modo e quando ci saremmo guardati... ero emozionatissima, giuro.

    Purtroppo però il giocatore in questione non era il mio bel Totti. All’inizio ci rimasi un po’ male, lo confesso, ma presto mi lasciai distrarre dalla bella atmosfera dell’evento. Papà fece divertire tutti; quel giocatore (il non-Totti) era un ragazzo alla mano, simpaticissimo e anche bello. Amava i bambini e ci stette molto dietro, inventando un sacco di giochi carini per coinvolgerci. Be’, come andò a finire? Mio padre strinse amicizia con questo ragazzo e cominciò a frequentarlo.

    Da quel momento in poi cambiò tutto: cene, uscite, risate, posti riservati in tribuna, gite in posti splendidi... A me non sembrava vero. Era un sogno? Se lo era, non volevo svegliarmi. Sapevo che il bello doveva ancora arrivare. Era come se per la nostra famiglia si fossero aperti nuovi orizzonti. Eravamo stati invitati a partecipare a una realtà dorata e piena di scintillanti distrazioni.

    Intanto crescevo, ma solo di età, perché a livello fisico sembravo ancora una bambina di undici anni, anche se in realtà ne avevo già quattordici. In seguito mio padre conobbe un altro giocatore, molto più importante del primo: un difensore titolare. Come successe? Lo volete proprio sapere? Gli sturò il water intasato. Mio padre era un idraulico, no?

    Anche in quell’occasione papà riuscì subito a conquistarsi la fiducia e la simpatia di quel calciatore. Passata neppure una settimana, i due sembravano già amici per la pelle. Il difensore aveva tre figli, due maschi e una femmina, tutti più piccoli di me ma quasi coetanei di mia sorella (giusto per farvi orientare meglio nella mia vita: mia sorella ha sei anni in meno di me). Così, mentre loro quattro, cioè Fabiana e i tre marmocchi del calciatore, passavano il tempo a giocare insieme ai videogame, io tentavo di mischiarmi ai grandi e me ne stavo lì per ore ad ascoltare i loro discorsi. Nel giro di pochi mesi anche mia mamma divenne molto amica della moglie del famoso giocatore, e ciò condusse quasi a una simbiosi delle due famiglie: ormai stavamo sempre insieme.

    Andavamo ogni domenica allo stadio poi negli spogliatoi. Oh, dico sul serio, ero senza parole. Mi sentivo davvero fortunata.

    Papà si trovava bene in quell ’ambiente, così gli venne in mente di riciclarsi procuratore. Da un certo punto di vista, anche mio padre è sempre stato un sognatore (avrò ereditato il bernoccolo della fantasia da lui, no?), in più sentiva di poter mettere in campo buone doti manageriali. Così ben presto ci fu l’annuncio. Lo ricordo benissimo. Ci riunì a tavola (piccola nota nostalgica: all’epoca in famiglia ancora si parlava e ci si confrontava) e ci disse così: «Ho due possibilità: tenere il mio posto fisso, o provare questo nuovo lavoro da procuratore sportivo. Nel primo caso, avremmo la sicurezza del mio stipendio da idraulico. Nel secondo, potremmo guadagnare molto di più, ma non ci sarebbe più certezza per gli anni futuri. Che mi dite? Che si fa?»

    Forse lui si aspettava che ci pensassimo un po’ su... Macché! Nemmeno mezzo minuto e già avevamo deciso: volevamo che facesse il procuratore, ovvio!

    Fu una vera e propria rivoluzione. Macchina nuova, cene tre volte a settimana al ristorante, regali a destra e a manca, vestiti belli e firmati per tutti. Cominciammo a vivere una vita da piccole star, a frequentare feste alla moda, a cambiare abitudini. Sembrava tutto bello e possibile, anche se io non ero di molte pretese: le mie vere pretese arrivarono dopo.

    II

    A trotto di Penna

    La mia svolta esistenziale avvenne d’estate, quella tra il primo e il secondo liceo. Ci eravamo spostati, come succedeva ogni anno, in vacanza al mare, con tutta la famiglia allargata: nonni, zii e cugine.

    Ho sempre avuto uno splendido rapporto con la famiglia di mio padre. Ero legatissima alle mie zie e ai miei nonni e stavo sempre attaccata alle mie cugine. Io e Marianna, la figlia della sorella più grande del mio papà, zia Mara, abbiamo quattro anni di differenza, ma siamo sempre state unite come sorelle. Dovete sapere che quell’estate Marianna, non so per quale motivo, aveva cominciato a manifestare interesse per l’equitazione: aveva voglia di imparare ad andare a cavallo. Così una mattina papà fece l’errore più grande della sua vita: quello di accompagnarci in un maneggio.

    E sapete cosa? All’entrata dei maneggi dovrebbero affiggere un cartello con su scritto: lasciate ogni speranza o voi che entrate. Perché è così, cavolo; una volta varcata quella soglia, è la fine. Diventa come una droga.

    Non aveva nulla di speciale, quel maneggio. Era un posto essenziale, arrangiato con materiali economici e organizzato alla meno peggio in piccoli spazi. Ricordo ancora che avevo il piede fratturato. Mi ero fatta male pochi giorni prima, in un’uscita con gli amici di classe al Big Gym, una specie di palestra a Roma dove, pagando un unico biglietto d’ingresso, ci si poteva dilettare in qualsiasi sport. Proprio lì, per una storta presa mentre giocavamo a basket, mi ero rotta il metatarso destro. Ok, sto divagando.

    Dicevo: avevo il piede rotto e quindi mi era impossibile salire a cavallo. Quel limite non mi creava però particolari problemi; può suonare paradossale, eppure ero contenta di poter contare su una scusa per non mettermi alla prova. Ero una tipa riflessiva, diciamo pure paurosa. Cosicché me ne stetti in disparte a guardare mia sorella che usciva insieme a mia cugina Marianna, che da quell’anno sarebbe diventata Dia (poi racconterò anche questa) in passeggiata a cavallo per il bosco e poi in spiaggia. Con loro c’erano anche mio papà, mio zio, il papà di Marianna.

    Tornammo al maneggio anche nei giorni seguenti.

    Ci divertivamo un mondo tra pranzetti e chiacchierate all’aperto. E quando gli altri cavalcavano, io mi avvicinavo alle stalle, per ammirare da vicino i cavalli, soprattutto i più giovani. Ogni tanto mi prendevo cura della cavalla che montava mia sorella. Uno splendido esemplare, alto un metro e settantacinque al garrese, che poi sarebbe la gobbetta alla base del collo, razza Persano: una razza in via d’estinzione e con un passato militare. Era stata riformata dall’esercito, come ben dichiarava un tatuaggio impresso sulla coscia: E.I. R, così c’era scritto.

    Una vera delizia, quella cavalla: amabile e intelligente. Cominciavo già a volerle bene; ma per un’amante degli animali come me non

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