Breve storia filosofica della voce
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Breve storia filosofica della voce - Laura De Luca
voce.
L’ALBA DELLA VOCE
Una voce non può trascinare la lingua e le labbra che le diedero le ali. Da sola, deve cercare l’etere.
(Khalil Gibran)
Quando fu che il mugugno quasi animale, appena significativo, si mutò in voce? E che cosa fece davvero la differenza? Quando, esattamente, il suono informe divenne voce? Che cosa lo snaturò (o lo elevò) a tal punto? Forse, solo l’umanità. La voce è la veste civile del grugnito, del verso, dell’urlo. È dunque l’umanità il solo crinale della voce? È dunque la voce il solo differenziale fra uomo e bestia?
Se le teorie evoluzionistiche hanno ragione, forse l’animale divenne uomo quando inventò (in senso etimologico: trovò) la voce e la produsse: un suono articolato sorretto e diretto da un’intenzione certa. La voce: suono armonico animato da un pensiero con la vocazione a essere comunicato. Voce, vocazione… Suoni significativi benché privi di sfumature ne producevano anche dinosauri, forse, e cani, e orsi e mammuth, a meno di non considerare voci anche il ruggito, l’ululato, il barrito, il pigolio. In realtà nessun lupo ha mai detto «No», nessuna scimmia ha mai mormorato «Bello».
La voce è umanità, valore, qualità, numero, espressione, colore, calore, desiderio. Fu voce quando l’uomo disse: «Ancora» …
La voce esce dalla bocca. La voce fu da subito contigua al cibo, al nutrirsi come al dissetarsi. E al respirare. La voce è sopravvivenza. Forse la prima voce sarà risuonata nel fondo di una caverna, riecheggiando sopra pareti umide e incrostate: «Dammi» (a proposito di un pezzo di carne arrostita o di un pomo succoso).
Per far entrare vita in forma di cibo, dovette uscire vita in forma di suono. Almeno una volta deve essere accaduto: la prima. In natura nulla si crea e nulla si distrugge. E poi, fu più o meno per sempre: il piccolo alla madre, il padrone allo schiavo, il forte al debole, il re al suddito, il maschio alla femmina, la femmina al maschio, il maschio al maschio. E via nei secoli e nei millenni, fino a oggi: «Dammi».
Anche la voce è cibo. E della mia voce possono nutrirsi gli altri… La voce è bisogno, fame. Ma, nella caverna, per esprimere quel bisogno di carne arrostita, sarebbe bastato anche soltanto un gesto e un grugnito. Perché invece arrivò la voce? Forse perché l’uomo era già capace di percepirsi sulla soglia tra due mondi: dentro e fuori, io e non-io, caverna di se stesso, soglia di un pensiero. La voce è un ponte, promette un guado altrimenti invalicabile. La voce è il parapetto affacciato sullo sprofondo, la porta sospesa su un’intenzione, l’estrema differenziazione di quell’unico bisogno animale, dell’unico istinto di sopravvivenza. Può chiudere, oppure spalancare. Mostrare oppure nascondere, sfumando e velando. L’uomo delle caverne non copriva solo il suo corpo massiccio e villoso di pelli di animali.
Non copriva solo di frasche e rami intrecciati il varco della sua spelonca. Cominciava a coprire il suo Dentro. Con la voce. Lo copriva per svelarlo, per decidere se, quando. Perché già sapeva di avere un Dentro. La voce è pudore.
«Ancora», le disse.
E lei, forse, gli rispose con la voce.
Un sì. Sì, perché la voce è fame, sopravvivenza, desiderio…
LA VOCE E LA FAME
Dire! Saper dire! Saper esistere attraverso la voce scritta e l’immagine intellettuale! Tutto questo è quanto vale la vita.
(Fernando Pessoa)
La voce può mordere, incidere, azzannare. Come il cibo, la voce abita la bocca, ma nella direzione contraria. Conosce il tepore del palato, la mollezza della lingua, l’incisività dei denti non per entrare nell’organismo, ma per uscirne… E come la mandibola consente ai denti di ghermire il cibo, così la voce azzarda di afferrare un concetto, si avventura a masticare emozioni, al solo fine di condurli alla luce, offrirli al mondo. La voce… vomita? Sì, vomita.
Così la voce spezza il misterioso pane dell’intimo e ne fa cibo, diventando essa stessa cibo, fino a darsi in pasto. La voce addenta perché altri si sfamino e addentino a loro volta: generoso paradosso. «È buono…»
La voce è fame, voracità, eucaristico contagio, fino a donazione di sé nel sacrificio di una parola, fino ad ammutolire nel silenzio, in attesa del riscontro di una conferma, di una risposta, di un’altra voce. «Sì, è buono…»
La voce è il mangiante e il mangiato contemporaneamente, l’andare e il venire, il parlare e il tacere, il rispondere e il domandare. È il cibo e l’affamato che coincidono nello stesso soggetto, in una indistinzione fra ricevere e dare e dire.
Così l’uomo della caverna scoprì di potersi lasciar divorare, esponendo la propria stessa carne fatta Logos all’orecchio altrui attraverso quel solo immateriale veicolo sonoro, portatore di intimità e di spudoratezza, generatore di incontro. La voce, pane dell’incontro. Il cavernicolo diede suono a un bisogno e quel bisogno ne fece riconoscere altri, mise in moto appetiti, vari tipi di fame, liberò sfumature parallele, infinitamente graduate dal sussurro all’urlo, di sé, degli altri, in un groviglio di rivendicazioni, affermazioni, domande, risposte, accettazioni, rifiuti, dinieghi, consensi, argomenti, discorsi…
Fu così che nacque Babele, confusione di lingue e di voci, fu così che nacque il sogno