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Pizzo e merletti
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Pizzo e merletti

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Romance - racconto lungo (55 pagine) - Giovanni non può resistere a questa donna che gli fa perdere la testa e lo travolge con il suo stile di vita. Sullo sfondo la città illegale ma anche generosa, con improvvisi scrosci di milioni di baci.

Furibondo per problemi legati al suo lavoro di piccolo commerciante, Giovanni presta poco attenzione alle donne della sua famiglia. Al contrario si interessa agli avvenimenti incalzanti che pressano l’orbita familiare delle sue fragili clienti e lui, in quanto uomo, se ne sente responsabile. La sua uscita di scena da quello che credeva il suo tiepido nido familiare non è indolore, eppure necessario per aprirsi a una vita meno stagnante che però richiede molto coraggio. Ma è solo dopo avere incontrato l’amore che il negozio finirà di essere un confortevole prolungamento di se stesso. Sogna di poter ricominciare con questa donna che gli fa perdere la testa e lo travolge con il suo stile di vita.

Francesca Rosaria Riso (Trecase 1961) si aggiudica il podio di vari concorsi letterari. Ha scritto per riviste letterarie ed editori: Historica, Delos, Apollo, Scrittori per sempre, Gio.ca. ecc. Una sua storia sarà scelta per il seguito di un celebre film italiano.
LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateSep 15, 2020
ISBN9788825412970
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    Pizzo e merletti - Francesca Rosaria Riso

    italiano.

    Capitolo 1

    Pigio sul telecomando senza riuscire a focalizzare le immagini che scorrono al ritmo del mio pollice.

    – Mi ascolti? – domanda, quasi a un palmo. È scocciata, la pelle emaciata, il fisico scosso da chissà quale devastante malattia. Lei è così, non regge e scarica su me.

    Mi alzo, lasciando la cena nel piatto e apro con delicatezza la porta della camera. Le farfalline che pendono dal soffitto si muovono nel leggero spostamento d’aria. Lucrezia continua a scrivere nel suo quaderno liceale. Mi siedo al bordo del letto e aspetto che mi inquadri. Non lo fa, però mi rivolge la parola.

    – Ho sentito mentre te lo diceva. È capitato.

    – Cosa? Sai che non ti manca niente…

    – Non farmi la predica – dice, alzandosi e lanciando lontano la penna. – E poi cosa ne sai di quello che mi manca?

    La rabbia comincia a montarmi, mi alzo a mia volta e l’afferro per le braccia.

    – Ma cazzo ti manca?

    Lucrezia apre un cassetto e mi porge dei soldi, quelli che stavano in cassa, mi dice. Li conto e li metto in tasca.

    – Questa è la tua parte?

    – Questo è tutto, non li abbiamo ancora divisi. Nella cassa c’erano seicentocinquanta euro.

    Esco nel buio. La rabbia blocca il flusso di pensieri che premono accalcati in una confusione quasi tangibile. L’insegna del market è spenta, ma oltre le vetrate c’è ancora luce. Busso, sbirciando. Antonio viene ad aprire manualmente le porte scorrevoli per poi tornare a chiuderle a chiave. Mi fa uno strano effetto entrare dopo la chiusura, i frigoriferi sono stati coperti con una stuoia termica, sul banco degli affettati è calato una specie di telo.

    – Ti chiedo scusa a nome di mia figlia. Non so cosa le sia successo. Lo sai come sono i ragazzi, credi di crescerli in un modo e invece ti si rivoltano contro.

    – Non ti angustiare, ho figli anch’io. È stata la cassiera a riconoscerla, dai vestiti e dal modo di muoversi. Dopo nel video ho visto quando sono entrati a volto scoperto e si sono fermati nella corsia della pasta per mettere i passamontagna.

    Penso che sia stata proprio una cretina. Ora ho solo voglia di uscire da questo posto. Infilo la mano in tasca e gli porgo le banconote. Antonio le soppesa.

    – Cosa sono?

    – Ti ringrazio per averci avvertito e non averla denunciata. Non succederà più.

    Faccio per avviarmi.

    – Aspetta. Nella cassa c’erano settemila euro. Dov’è il resto dei soldi.

    – Ti sbagli, Lucrezia mi ha detto che c’era questo nella cassa.

    – Ha detto bugie. Comunque mi devi in tutto settemila.

    È chiaro che si sta approfittando della situazione, non ho però molte scelte se voglio tutelare mia figlia. Prendo il libretto dal portafogli e stacco un assegno.

    Mi avvio a larghi passi verso casa. Lucrezia ora mi deve spiegazioni. Ho sbagliato con lei, troppo accondiscendente. Le abbiamo dato sempre tutto e subito. Ah, ma questo è stato un errore di Miranda, e io maledetto che l’ho sempre assecondata per tutelare la quiete familiare e dunque, ogni qualvolta si doveva prendere una decisione per Lucrezia, lei ha avuto sempre l’ultima parola. Ma ora basta. Da oggi si fa quel che dico io.

    Apro la porta sbattendola al muro, tanto per far capire chi comanda. Miranda corre ad affacciarsi nel corridoio, spaventata.

    Entro trafelato nella camera di Lucrezia.

    Mi blocco, vedendo un ragazzo di spalle e che, pur avendomi sentito arrivare non si gira. Lei è intenta a mettere roba in uno zaino.

    – Sai quanto ho dovuto dare a quello strozzino, eh? Settemila euro. Tutto per non farti denunciare e nemmeno è detto che non lo faccia – continuo.

    – Hai fatto una stronzata. Dovevi lasciarlo fare.

    – Li avremmo spesi ugualmente in avvocati.

    – C’è quello d’ufficio.

    – Così t’avrebbero dato trent’anni.

    – Vabbè, comunque sia, questi sono stati gli ultimi soldi che hai speso per me. Me ne vado.

    – Te ne vai? Tu da questa stanza non esci.

    Il cursore tirato della zip rafforza le ultime parole di Lucrezia.

    Il ragazzo a questo punto afferra uno spallaccio e si rigira verso la porta.

    – Questo chi è, il tuo complice?

    – Antico. Vedi de spostate – inveisce, con una cadenza borgatara.

    – Perché sennò che fai? – dico, piantandomi bene per terra e preparando i muscoli per assestargli un manrovescio.

    Il faccione di Miranda è quello che vedo appena riapro gli occhi. A questa distanza ravvicinata mette i brividi. Sono tutto un dolore.

    – Ce la fai ad alzarti o chiamo un’ambulanza? – Mi dice, corrugando le sopracciglia.

    – Non mi serve l’ospedale – rispondo, alzandomi.

    – Ti serve. Hai uno zigomo rientrato.

    Torno a casa all’alba dal pronto soccorso, con una prescrizione per una visita maxillo facciale da effettuarsi fra due mesi, nel frattempo mi hanno dato degli antidolorifici. Passo un paio d’ore allo specchio ad osservarmi, apro e chiudo la bocca, mi metto di profilo.

    – Che figlio di puttana – impreco, ogni tanto, indaffarato a entrare e uscire dalle stanze.

    Avvolgo una sciarpa e mi avvio al lavoro. La merceria non è poi tanto distante. Mi fermo nel solito bar per la colazione, insisto a sorseggiare un caffè. Poi desisto e mi avvio al negozio. Mentre accendo le luci interne e l’insegna, penso alle donne vittime di violenza che non denunciano, che dichiarano di essere cadute dalle scale. Penso che pure io, dietro consiglio di Miranda, al posto di polizia dell’ospedale, anche se non ho dichiarato cadute, ho detto che l’aggressore era uno sconosciuto. Adesso me ne vergogno. Sono indeciso se aspettare la pausa pranzo o andarci subito. Tiro giù la serranda. Con l’autobus arrivo fin davanti al commissariato. Una fila interminabile, prestampati da compilare e intanto penso alla mia clientela che va a spendere i propri soldi altrove, alla giornata persa e a quei settemila versati e che in qualche modo devo

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