La donna che pensava di essere triste
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La donna che pensava di essere triste - Marita Bartolazzi
quisiscrivemale
LA DONNA CHE PENSAVA DI ESSERE TRISTE
Marita Bartolazzi
La donna che pensava di essere triste
di Marita Bartolazzi
Collana quisiscrivemale
© 2017 - Edizioni Exòrma
Via Fabrizio Luscino 73 - Roma
Tutti i diritti riservati
www.exormaedizioni.com
Progetto editoriale Orfeo Pagnani
Impaginazione omgrafica, roma
ISBN 978-88-98848-60-7
Ai parlamenti
PARERI DI GATTO
C’era una donna che pensava di essere triste. La sua tristezza aveva forma di tondi e di losanghe e, attraverso quelle losanghe e quei tondi, lei la guardava come fosse un panorama, o uno scorcio di paesaggio da sbirciare dall’alto. La donna pensava che quella tristezza fosse molto intonata alla tenue sfumatura crema e al soffice color grigio dell’ambiente circostante.
Quando pensava di essere triste la donna si rendeva conto di essere più amabile, dolcemente disponibile verso ciò che la circondava, perciò pensava che la tristezza le facesse bene.
Sovente ne riordinava le forme, le disponeva in pile come maglioni, le incastrava le une nelle altre come un tangram di tristezza, le spolverava. A volte ci parlava anche: – Lo vedete come sono triste? Lo vedete? – diceva a quelle pile.
Un giorno decise di far cucire tutte assieme le forme della sua tristezza e iniziò a cercare chi potesse farlo: ci teneva fosse un lavoro preciso. «Magari – pensava – potrei farne una coperta in cui avvolgermi». Passeggiando in una zona della città dove non era mai stata, vide un piccolo negozio che esponeva abiti, stoffe e numerosi, antichi ferri da stiro. Entrata si trovò circondata da imploranti giacche imbastite con lunghi punti bianchi, piccole vetrine ricolme di forbici, o traboccanti di ditali e rocchetti di filo di ogni colore, perfino di aghi di ogni foggia. Fra i ritagli di stoffa sedeva un uomo elegante, con fili di tutti i colori appiccicati alla lana blu della giacca, del panciotto, alla seta della cravatta, al panno grigio dei pantaloni e perfino ai calzini. Un piccolo monticello di fili era poi impigliato nei lacci delle scarpe nere, molto lucide.
– Devo fare un museo – diceva l’uomo. – Devo fare un museo.
– Buongiorno – disse la donna che pensava di essere triste. – Lei mi potrebbe cucire una coperta?
– Devo fare un museo – disse l’uomo.
– E dove lo deve fare questo museo? – chiese lei.
– Nella tristezza, che è il mio paese – rispose lui.
– Allora siamo dello stesso paese. Io invece devo fare una coperta.
– Guardi che il mio è un paese molto speciale perché assomiglia a un cappello poggiato su di una collina verde. Che dico? A un cappello? A una corona. E lì sorgerà il mio museo e tutti quelli che vedranno la mia collezione di ferri da stiro si ricorderanno di me.
– Lei non mi pare proprio del paese della tristezza – disse la donna.
– Vuole che non sappia di che paese sono? – chiese l’uomo seccato. – Ora le mostro la delibera del sindaco.
– Volentieri, mi interessa moltissimo – disse la donna che pensava di essere triste. E pensò: «Faticoso questo sarto».
Tuttavia lesse la delibera, saltandone solo qualche punto, così dovette convenire che venivano proprio dallo stesso paese. A dire il vero anche lei lo ricordava come un cappello color biscotto – non certo come una corona, figuriamoci! – poggiato su una collina verde. Perché il paese è di quelli che si vedono da lontano, come ce ne sono tanti, con tre campanili svettanti che lo rendono riconoscibile.
La donna che pensava di essere triste non sapeva se chiedere al sarto di cucirle la coperta e non sapeva nemmeno più se il suo era il paese della tristezza. Quel sarto esagitato le aveva fatto venire mille dubbi. Così chiese consiglio al gatto del sarto che se ne stava acciambellato su un mucchietto di ritagli di stoffa. Lui fece la gobba, sbadigliò srotolando una minuscola lingua rosa e si strofinò sulla gamba del tavolo da lavoro: questo fu il suo contributo.
La donna era molto incerta a quel punto: desiderava andarsene fuori nell’aria grigia e non sentire più il sarto cianciare del suo museo, voleva la sua coperta di tristezza, sperava anche di sentire il parere del gatto e di riuscire a esaminare un po’ meglio qualcuno di quei bellissimi ferri. Si rendeva conto che chiedere al sarto dei ferri avrebbe innescato una conversazione dall’esito incerto.
In quel momento entrò una cliente per ritirare un abito così lei poté guardare i ferri con tranquillità.
E proprio allora il gatto disse fra sé e sé, a mezza bocca:
Chi sa dire di avere il cuore spezzato non lo ha.
Chi dice di essere triste non lo è davvero.
Le parole sono un recinto
e un recinto è un confine che definisce.
Solo le cose senza nome e parole sono vere.
«Non è poi così scemo questo gatto», pensò la donna e, dopo essersi fatta dare un biglietto da visita dal sarto, se ne andò pensierosa.
Sul tram la donna che pensava di essere triste si lasciò cullare dai suoi pensieri: erano il luogo più confortevole che conoscesse così non scese alla sua fermata e dovette fare un lungo pezzo a piedi nello scuro della sera appena rischiarata da qualche vetrina. Un filo la tirava, un filo simile a quello dei giochi che si riavvolgono. Quando entrò nell’ingresso buio della sua casa si sedette nella poltrona a dondolo e decise di rileggere le lettere che aveva ricevuto di recente. Lettere molto significative per lei. Pensava che quelle lettere l’avrebbero fatta piangere dolcemente, ricordandole le cose perdute. Quando lesse la prima pensò che era affettuosa ma vuota, così la seconda e la terza. Cercò di ricordare in quali date avesse ricevuto quelle che l’avevano più commossa ma anche quelle sembravano solo graziosi contenitori.
La donna, un po’ sconcertata, decise di bere qualcosa per prendere tempo e assimilare la sorpresa. Pensò: «Solo il tè è adatto alla tristezza». Poi però bevve un succo di mirtillo perché le piaceva il colore scuro e denso. Tamburellò pensierosa sul tavolinetto lì accanto, poi se ne andò a dormire. La coperta sul letto era a quadrati bianchi e grigi e lei se la tirò fin sotto il mento chiedendosi se potesse essere quella la coperta di tristezza. Era forse possibile che l’avesse sempre avuta sul letto?
Mentre si addormentava la tristezza non le parve più una cosa tanto importante, tuttavia le dispiaceva rinunciarvi così si disse: «be’, ci penserò meglio domani». E poi: «devo ricordarmi di comperare il sale grosso».
SOGNI I
La donna che pensava di essere triste spingeva il carrello fra gli scaffali del supermercato dei sogni cercando con attenzione cosa mettere nel suo carrello fatto di fili di ragnatela. Era attratta da un sogno che vedeva in lontananza: due gemelli si contendevano un lungo palo di bambù a cui era appesa la gabbia di un uccello. Era un bel sogno. Molto chiaro e luminoso. Passò accanto a quello dei due amanti intenti a lasciarsi. Fra di loro, in un cesto, le cose che rimanevano da dire: frasi rimaste lì chissà da quando. I due si dicevano l’un l’altro: «Quando le avremo dette tutte il destino si compirà e ciò che si deve spezzare si spezzerà. Del resto le frasi sono rimaste a stagionare abbastanza a lungo».
La donna che pensava di essere triste sapeva che una delle cose dette dal gatto sarebbe stata adatta alla circostanza ma, pur avendola sulla punta della lingua, non riusciva a formularla. L’avrebbe voluta dire ai due amanti che le sembravano molto tristi ma alla fine rinunciò pensando che il gatto l’avrebbe detta certo meglio, e passò oltre.
Proprio mentre ammirava un sogno con un grande sombrero colorato un bambino le andò incontro, un bambino dall’aria molto seria, vestito in una foggia desueta: con calzoncini corti grigi e un piccolo gilet di lana su una camicetta bianca. Il bambino, che si chiamava Michele, le disse che no, non si era perso nel supermercato, era lì perché era suo figlio. Sembrava un bambino molto assennato e giudizioso così la donna che pensava di essere triste lo prese per mano superando con un sguardo di desiderio il sogno col sombrero.