La voce degli anziani nel tempo dell’epidemia
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La voce degli anziani nel tempo dell’epidemia - Pietro Enzo Vigorelli
dell’assistenza.
PRIMA PARTE: Le parole degli
anziani
Il peggio della tempesta è già passato. I 100 giorni più funesti, tra febbraio e maggio 2020, sono stati vissuti in modi molto differenti. C’è stato chi viveva nelle Regioni più colpite oppure in quelle che temevano l’arrivo del contagio; alcuni operatori lavoravano sul campo mentre altri erano in quarantena, oppure ammalati. Nel mondo civile giovani e vecchi avevano rischi e timori diversi; c’è chi ha continuato a recarsi sul luogo di lavoro, chi è restato bloccato in casa, chi in una località di villeggiatura; chi è morto, chi ha saputo a distanza della morte del proprio genitore, del marito, della moglie; chi ha sentito parlare dei morti solo in televisione e si è commosso nel vedere i camion militari portare le bare dei morti di Bergamo in cimiteri lontani.
Ciascuno ha avuto una sua propria esperienza ma le immagini della televisione e i continui talkshow si sono imposti con tanta forza da creare dei vissuti collettivi, come se tutti avessero vissuto la stessa quotidianità.
Nelle pagine che seguono vedremo invece piccoli scenari, aneddoti, ascolteremo la voce di singole persone che ci restituiranno spaccati parziali ma veritieri di quello che è successo.
Capitolo 1: Parole come pepite
Alberto Besana
Quando si entra in ambulanza per fortuna non si sa quanto tempo si rimarrà soli. Nel mio caso sono stati 70 giorni, con vari trasferimenti: PS, medicina, Covid, pneumologia, cardiologia, ancora medicina, riabilitazione.
Incontravo solo figure bianche di cui attraverso una fessura vedevo solo gli occhi, coperti dagli occhiali, attraverso una visiera. Ero circondato da maschere senza sorriso. L’unico contatto col mondo l’avevo attraverso la tv e il telefono.
Ho scoperto l’importanza non solo delle parole ma anche dei gesti: gli occhi spenti sono sostituiti da una carezza sulla testa o su una gamba.
Piccole cose mi dimostravano che non ero completamente solo e servivano per alleviare la noia, per interrompere la monotonia in cui non potevo fare niente di quello che ero abituato a fare.
Dovevo concentrarmi per godere dei pochi istanti in cui mi trovavo insieme a un infermiere: anche con una semplice parola le maschere bianche mi potevano tranquillizzare, alleviare dal peso, magari anche farmi sorridere. Oppure condannare.
Spesso ripensavo alle battute degli infermieri, anche banali, ma che mi facevano sentire meno solo. Le aspettavo speranzoso.
Primo esempio
IO: (al momento del pranzo) Manca solo la torta!
INFERMIERA 1: (ammiccante) Magari con lo champagne…
INFERMIERA 2: (incazzata, fuori dalla porta, rivolgendosi all’infermiera 3) Pensa che il numero 12 pretende anche la torta.
Secondo esempio
IO: (alla prima colazione) Vorrei un panino col salame.
INFERMIERA: E con Riesling dell’Oltrepò.
Parole come pepite
• Bravo (molto motivante, anche per piccole cose, come eseguire il comando Alza il dito!).
• Caro , tesoro, amore.
• Pannolone? (seguito dalla mia orgogliosa risposta: NO!).
• Coraggio, che ne usciamo tutti! (detto da un’infermiera dopo un mio moto di sconforto; tutti era riferito anche agli infermieri stessi).
• Il tampone è positivo (parole che mi facevano sprofondare nello sconforto).
• Il tampone è negativo (le parole più belle che ricordo).
• Se siete felici voi, sono felice anch’io.
• Verrà trasferito (comunicazione frequente, seguita dalla mia risposta Dalla padella nella brace…)
• Ti dico grazie per la pazienza. Soffriamo anche noi. (dopo un prelievo di sangue tormentatissimo, su vene introvabili).
Capitolo 2: Dalla finestra
Sante Migliaccio
È da tre mesi che non vedo mio padre e oggi mi permettono di salutarlo dal balcone.
Esordisce così Concetta (nome di fantasia). Possiamo immaginarla emozionata, carica di aspettativa per quell’incontro tanto atteso, piena di tutto il desiderio di abbracciare il padre, di fargli sapere che non si è dimenticata di lui, che gli vuole bene e gli sarà sempre vicina qualsiasi cosa accada.
Non vuole perdersi nulla di quel momento e vorrebbe filmarlo col cellulare ma la luce è troppo forte e lo schermo del cellulare non si vede bene. Un educatore che la conosce l’aiuta a impostare correttamente la ripresa.
Calogero (nome di fantasia) è in carrozzina e viene accompagnato dall’educatrice sul balcone che si affaccia sul giardino, dove lo sta aspettando Concetta. Lui si trova al terzo piano, sembra non aver capito bene cosa lo aspetta, appena esce si guarda intorno stranito, quell’ambiente per lui è nuovo e non vedendoci molto bene fa fatica a mettere a fuoco cosa gli sta intorno.
Concetta appena lo vede inizia a chiamarlo, ma lui non sente bene, non capisce da dove arriva quella voce. Lei lo chiama più forte e più forte ancora
Papà! Papà! Papà! Papà!
Lei continua a chiamarlo ma lui non risponde e il grido si fa strozzato.
L’educatrice cerca di spiegare a Calogero che in giardino c’è sua figlia ma lui non riesce a vederla, si sente preso in giro, prevale il fastidio di essere in un luogo nuovo e chiede con insistenza di ritornare al suo solito posto.
La figlia non demorde, senza perdersi d’animo prova a usare un’espressione tipica del dialetto siciliano per invitare il papà a guardare giù dal balcone, espressione utilizzata quando, con l’ausilio di un grande cestino ancorato ad una corda, ci si passava dei piccoli oggetti da piano a piano. Niente da fare, l’idea è bella ma non sortisce l’effetto sperato.
L’educatrice decide di ridurre la distanza comunicativa utilizzando il suo cellulare e telefona a Concetta, in modo che Calogero possa sentire la sua voce direttamente nell’orecchio ma il papà, pur guardandosi intorno, non riesce a capire da dove arriva quella voce così familiare. Per non infastidirlo ulteriormente, si decide di chiudere l’incontro e il papà di Concetta ritorna nella sua stanza.
Gli educatori presenti alla scena (in giardino era in corso una riunione d’équipe) sono emotivamente coinvolti in questa situazione e manifestano alla figlia la loro partecipazione. Uno di loro le suggerisce di utilizzare brevi lettere (anche spedite via WhatsApp) da far leggere al papà per manifestargli il suo affetto e la sua vicinanza. La figlia accetta il consiglio e ringrazia.
Capitolo 3: Poche parole
Carlo Cacioppo
Un po’ della mia storia
Sono un medico, ormai da considerare anziano, oncologo per molti anni, con un primario e maestro che oltre alla chemioterapia insegnava la cura della sedia
: consiste nel sedersi al fianco del malato disposti ad ascoltarlo per il tempo che ci vuole.
In seguito con lui, andato in pensione, abbiamo aperto nel 2000 uno dei primi Hospice in Italia, gestito dalla Fondazione don Carlo Gnocchi.
In questa singolare, emozionante e appassionata esperienza, dove davvero la scienza medica si scontra con i propri limiti e deve fare i conti anche con la morte… quanto mi è servita la lezione della sedia, quando ascolto, relazione, accompagnamento e rispetto si rivelano importanti almeno quanto un buono, ragionevole e adeguato farmaco!
Poi è arrivata la pensione, pur mantenendo qualche attività professionale nell’ambito delle cure palliative.
Progetti e aspettative
Quando nelle prime drammatiche settimane del Coronavirus mi è stato chiesto di dare una mano in Ospedale ho pensato che non potevo negare il mio piccolo contributo nell’assistere soprattutto quei malati che non ce l’avrebbero fatta, partecipando con l’ascolto disponibile e attento al dramma, alla sofferenza e all’angoscia loro e delle loro famiglie e magari anche offrendo occasione per qualche parola tra operatori davvero soverchiati dalle molte cose da fare in fretta e subito, dalle preoccupazioni e dall’emergenza del momento.
Invece no, è successo poco, molto poco di tutto questo.
Un lavoro frenetico
Frenesia, concitazione, poco tempo per gli operatori e tanti, troppi malati contemporaneamente, manifestazioni patologiche mai viste prima, tanto ossigeno, tanti esami da fare e da ripetere.
E poi tutti impacciati da presidi e mezzi di protezione, doppie mascherine, doppi guanti, occhiali, visiere, tute e camicioni.
Il silenzio dei pazienti gravi
Pazienti piombati in una realtà ospedaliera di vera straordinaria emergenza, separati in tutta fretta dalla famiglia, spesso spauriti, isolati, distanziati da maschere e mascherine, scafandri, affogati nell’ossigeno, tanta tosse, senza fiato… ma anche, spesso, senza o con poche parole.
Quasi mai dolore, per fortuna, o almeno, quasi mai lamentato.
Scarsa consapevolezza e lucidità? Paura? Ipossia? Danno neurologico da virus? Forse che con la perdita dei sapori e degli odori si attenua anche la capacità di sentire e di esprimere le emozioni?
Mi sembra di aver potuto constatare in molti di questi malati una modesta percezione del rischio, una scarsa denuncia dei disturbi e delle sofferenze provocate dalla malattia e dei disagi di una ospedalizzazione così frettolosa ed emergenziale.
Davvero poche parole, poca voglia di parlare e di comunicare.
La Fase 2
Progressivamente l’emergenza si è attenuata, i pazienti sono arrivati meno gravi, sono quasi spariti gli scafandri, si è tornati a respirare tutti quanti e in tutti i sensi.
Adesso sto lavorando con pazienti che non presentano più i sintomi propri dell’infezione da Coronavirus e che rimangono in attesa dell’esito del tampone. Adesso viene fatto di routine a chi deve essere ricoverato, per essere poi avviato il più rapidamente possibile nel reparto adeguato: i negativi (la grandissima maggioranza) iniziano un