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La vita nascosta del tempo presente
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La vita nascosta del tempo presente

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La libertà dell’artista, la brutalità delle fabbriche della morte del Terzo Reich, la paura del terrorismo a Tel Aviv.
Tre storie, tre vite distanti nel tempo e nello spazio, destinate a confluire fino all’inevitabile  ricongiungimento finale.

di Mariano Lamberti
Max è un pittore omosessuale che sogna una vita d’artista ma lavora come impiegato. Massimo  è un giovane soldato italiano che dopo l’armistizio del ‘43 viene catturato dai nazisti e mandato a Dachau.
Federica è la sorella di Max e vive Tel Aviv con Zac, da cui ha avuto una figlia, Sky.
Per seguire i suoi sogni d’artista,  Max  decide di  licenziarsi, iniziando così una tormentata vita da bohemienne. Massimo a Dachau subisce umilianti punizioni e torture disumane, alle quali, però, riesce a sopravvivere. Il rapporto tra Federica e Zac è destinato a rompersi e la donna fugge da Israele con la figlia.
 
La libertà dell’artista; la brutalità delle fabbriche della morte del Terzo Reich; la scintillante vita di Tel Aviv  che nasconde, però, la paura del terrorismo sono i temi sottesi alle storie dei tre protagonisti.
Tre storie, tre vite distanti nel tempo e nello spazio, destinate a confluire fino all’inevitabile  ricongiungimento finale.
LanguageItaliano
Release dateSep 8, 2020
ISBN9788833284637
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    La vita nascosta del tempo presente - Mariano Lamberti

    Copertina

    Il tempo sommerso

    Grecia, settembre 1943

    Massimo ha diciott’anni quando firma per partire per il fronte. Suo padre, contrariato, tra le lacrime gli grida dietro: «Vai a morire, vai!»

    Strattonato e insultato dalle belve naziste, ora è lui a piangere per avergli disobbedito. Da un giorno all’altro i tedeschi sono diventati i loro nemici; durante la campagna in Grecia è stato arrestato insieme ad altri soldati e poi chiuso in una caserma.

    Al quinto giorno vengono portati alla stazione ferroviaria di Atene e messi in fila insieme dei civili, donne e bambini. Sentono una voce dal forte accento tedesco uscire da un megafono, chiedere se hanno voglia di tornare in Italia e abbracciare i loro cari.

    Basta che entrino nella Wehrmacht per collaborare.

    Nessuno si muove, nessuno si offre.

    Un gruppo di soldati tedeschi li prende a calci per farli salire sul treno, come si fa con il bestiame al pascolo quando si allontana dal gregge: sessanta persone per vagone e due borracce d’acqua in tutto. I vagoni vengono chiusi con catenacci e attorno viene messo del filo spinato.

    Due soli due tappi d’acqua al giorno per ciascuno – uno la mattina, uno la sera – per tenere la bocca umida; qualcuno si arrampica fino al soffitto per raccogliere i residui di brina. Quando si fermano nelle stazioni per fare rifornimento, i soldati tedeschi strappano loro le borracce dalle mani e le riempiono d’acqua. Tornati al vagone, glie le svuotano davanti, e così la sete aumenta.

    Durante il viaggio le donne provano vergogna a liberare il corpo lì, sul pavimento. Massimo prende una scarpa, approfitta del rumore del treno per picchiare duro su una parte di legno già scheggiata e riesce a fare un buco sul pavimento. Poi appende una mantellina per dare un po’ di riservatezza.

    Dopo tre giorni il cibo, quel poco che sono riusciti a portarsi dietro, è finito.

    Di notte non si dorme. I neonati piangono tutto il tempo, disperati perché le madri non hanno più latte.

    Giunti a Monaco, dopo due settimane chiusi nei vagoni, molti di loro sono morti di fame e disidratazione: i sopravvissuti vengono portati a Ingolstadt e messi a lavorare in una fabbrica che costruisce i panzer, Tiger 1 e Tiger 2.

    A Ingolstadt ci sono due militari tedeschi, giovani e pallidi, che insegnano come costruire i telai dei carri armati. Parlano in tedesco e mostrano una sola volta come fare. Bisogna imparare subito.

    Se uno sbaglia, gli fanno saltare il pasto: una ciotola di brodo con un pezzo di pane nero a pranzo, una patata bollita con il riso la sera.

    Si lavora dalla mattina alle sette fino alla sera alle sette. A volte ci sono i turni di notte, perché la fabbrica deve essere sempre in funzione: la Germania ha bisogno di armamenti.

    Tra loro ci sono anche una ventina di ragazze polacche, dai diciassette ai ventiquattro anni, rapite per fabbricare bombe con le loro mani piccole e delicate.

    Durante la notte, un filo spinato con la corrente divide il reparto maschile da quello femminile.

    Insieme ad altri due prigionieri, Massimo riesce a sopravvivere un anno in quella fabbrica. La fatica è tanta, i turni massacranti.

    Dimagrisce e i vestiti gli vanno sempre più larghi.

    Non avrebbe mai immaginato che il lavoro potesse dare così tanta sofferenza, che la fatica potesse degradare tanto un essere umano.

    Roma, primi mesi del 2000

    Quando Max entrò nell’ufficio di Angelika, una piccola stanza quadrata, nuda ed essenziale come il suo viso tedesco, la donna aveva un’espressione grave e lo sguardo fisso sullo schermo del computer. Con un minimo movimento della testa simile a un comando indicò la sedia vuota davanti alla sua scrivania. Distolse il viso dallo schermo e si levò gli occhiali con un gesto solenne; la sua espressione rimase seria.

    «Max, ieri è successa una cosa molto grave.»

    «Cioè?» disse Max, preoccupato.

    «Dalla mensa avevo portato con me una mela, perché volevo mangiarla verso le cinque.»

    L’orario fu precisato con teutonica pedanteria.

    «Avevo lasciato la mela qui, sul tavolo. Ricordo benissimo, poi, però, è improvvisamente sparita.»

    «E io cosa c’entro?» domandò Max, candido.

    Angelika sospirò guardando nel vuoto, per poi posare su Max il suo sguardo carico di accusa.

    «Ieri eri solo tu di turno, e i tecnici qui non si azzardano a entrare… Quindi…»

    «Quindi cosa?» ripeté Max, sbalordito.

    «Quindi non puoi essere stato che tu!»

    Quel Tu risuonò nella stanza come uno sparo.

    Max era incredulo e offeso, ma si sentiva anche terribilmente in colpa, perché la mela l’aveva davvero mangiata lui. L’aveva addentata così, senza pensare alle conseguenze del gesto, come quando si attraversa la strada con la testa per aria.

    L’accento tedesco, l’aria severa della donna, lo fecero sentire terribilmente in pericolo. Avrebbe voluto confessare, poi ricordò che era solo una mela e ammettendo il crimine avrebbe aggravato la sua posizione. Disse tra sé vaffanculo a quella nuvola bionda della sua capo.

    «Angelika, mi dispiace, davvero non so che cosa dire. La mela, però, non l’ho rubata io.»

    La nuvola bionda non replicò. Si limitò a guardarlo negli occhi per capire se stesse dicendo la verità. Dentro di sé sentiva che Max stava mentendo.

    «Va bene, puoi andare, ma sappi che sono terribilmente delusa.»

    «Lo so, capisco ma…»

    Max uscì in silenzio dalla stanza, indeciso se tornare indietro e confessare, magari con un sorriso, ma capì che era troppo tardi. Non restava che continuare a mentire.

    Adamo perse il paradiso per una mela, ma il posto dove lui lavorava non era propriamente il paradiso.

    Hot Television era una TV tedesca che trasmetteva 24 ore su 24 televendite, 12 ore live e 12 ore repliche; la sua sede era nel cuore del capitalismo europeo, Monaco di Baviera, e da un paio di anni aveva aperto una filiale a Roma.

    Da quando lavorava alla Hot, quello della mela era stato il primo attrito serio con Angelika: mai nulla di rilevante era accaduto tra loro. Docili consigli, osservazioni pacate, ammirate e sottilmente controllanti il suo operato. Nulla di più.

    Tutte la mattine Angelika lo accoglieva al baretto fuori dagli studi con il suo Grüß Gott, il ciao della Germania del sud, che risuonava come un codice affettuoso, una cameratesca vezzosità in cui concentrava le sue ingenue, insopportabili speranze di imprenditore fanaticamente assertivo. Quel Grüß Gott alle fine suonava come un Andiamo a lavorare, mettiamoci in pista, facciamogli vedere chi siamo.

    Max si era diplomato già da qualche anno come scenografo nella scuola statale più prestigiosa del paese ed era stato uno dei primi a essere chiamato a lavorare con loro.

    Il colloquio fu rapido e formale. I tedeschi, ansiosi di assumerlo, scuotevano la testa ammirati dal fatto che avesse studiato con gli scenografi di Visconti e Pasolini, pur ammettendo di non aver visto un solo film di quei geni. Fare lo scenografo È solo un lavoro, un ripiego artistico, aveva precisato Max, altero, con l’atteggiamento di chi ha dalla parte del manico il coltello dell’indifferenza ai soldi: la sua unica, vera missione nella vita era diventare un pittore famoso, famoso almeno come Lucian Freud.

    Così aveva cominciato a lavorare per loro nutrendo un’illusoria vita parallela: fare l’artista puro.

    Ogni volta che andava alle inaugurazioni nelle poche gallerie rimaste a Roma, nutrite da una borghesia sempre più micragnosa, usate come gioiellerie e con quadri esposti in vetrina come oggetti di lusso di artisti sopravvalutati o senza curriculum, opere anonime e pretenziose innaffiate con un vino bianco scadente offerto a celebrare la morte di qualsiasi volontà artistica, si scontrava con la realtà delle proprie ambizioni e sul suo volto calava un’atonia, un’assenza di colori, una sofferenza implosa, e scompariva nei suoi stessi vestiti posati con disaffezione sul manichino rabbioso delle sue velleità. Le poche uscite per questi vernissage, dove l’età media era rigorosamente bassa oppure vertiginosamente alta come un senile ritrovo di amici, finivano con Max ubriaco che si sfogava con il malcapitato di turno. Poi, triste, se ne tornava a casa e il giorno dopo lo aspettava un lavoro non alla sua altezza, frustrante per la sua mente così brillante e deregolamentata.

    «Voglio essere un artista socialmente affermato.»

    «Cioè, che vuol dire?» chiese Andrea.

    «Che la mia identità deve coincidere con quella di uno che dipinge.»

    «Sono queste le tue preoccupazioni? Essere socialmente riconosciuto?» lo punzecchiava Andrea.

    «Sì.»

    «Allora sei un fallito.»

    «?»

    «Se sei un artista, lo fai e basta.»

    Andrea era uno dei pochi amici con cui apriva le dighe della sua irrefrenabile lamentela, della sua impetuosa impotenza; un macigno al collo sul precipizio delle sue insicurezze.

    «Lo vedo, come ti rapporti con le gallerie.»

    «Cioè?»

    «Un misto di insicurezza e snobismo.»

    «Sono timido, è vero.»

    «Sei goffo, pietosamente collerico, come i bambini quando non vengono ascoltati.»

    «Adesso, per fare l’artista, dovrei andare dallo psicologo?»

    «Troppe aspettative, troppa ansia di riconoscimento. Non funziona così. La gente se ne accorge e ti evita.»

    «Cosa devo fare? Far finta di essere distaccato, fare lo stronzo socievole?»

    «Autoaffermarsi, questa è la chiave. Prenditelo da solo, ’sto diritto di dipingere.»

    Non era un dialogare, il loro, ma un duello all’ultimo paradosso, una bellicosa resa dei conti su chi avesse più oggettiva presa sul reale.

    «Voglio dipingere dei quadri e venderli, cosa c’è di male? Per tanti è così, perché per me no?»

    «Fallo e basta. Qualcuno li comprerà.»

    «Sì, e come campo?»

    «In maniera indigente.»

    «Tu lo faresti?»

    «No, ma che c’entra!»

    E così il sogno di una Boheme romana sfumava come la scia di un aereo nel cielo delle balzachiane illusioni perdute, nei chiacchiericci gialli di tabacco dei suoi colleghi cinematografari.

    Lui, che sognava di alzarsi la mattina, guardare il cielo e dipingere, di fatto non faceva quelle dannate pubbliche relazioni con le gallerie, quelle fottute colazioni nei vicoletti di Trastevere salutando gli autoctoni con algida cordialità per poi rifugiarsi nel suo loft dipinto a mano, con colori tenui così giusti, nel quartiere di san Lorenzo, vicino al pastificio Cerere, dove erano diventate delle star i vari Pizzi Cannella, Nunzio & Co, che avevano fatto scuola con il leggendario Toti Scialoia, insegnante di scenografia all’Accademia.

    No, non era successo a lui, almeno fino a quel momento, di essere la corteggiata star di qualche abile gallerista di quelli che contano, per pensare, ideare e creare opere originali, per ricalcare il fortunato percorso dei suoi predecessori; il suo percorso, come un segugio folle e ammaccato, aveva misteriosamente seguito altre tracce, un destino miserabile ai suoi occhi. Era diventato un paria del consenso, con le stimmate sbandierate del suo non riconoscersi nelle mode correnti.

    Andava a demoralizzarsi imbottigliato nel traffico della Cassia, tappata da automobili puzzolenti; negli umidi capannoni televisivi di Formello a Hot Television, con il suo triste lavoro di creatore di packshot e le desolanti miniscenografie dove posizionare gli oggetti da vendere.

    Ogni tipo di oggetti: dall’asciugatore per vernice alle spazzole per levare pelucchi; dai maglioni ai frullatori di noci e pinoli; dai set di bricolage alle panche per fare gli addominali ai gioielli; e poi coprivestiti, coprimaterassi, grucce, ma anche letti e frigoriferi, utensili di ogni dimensione forma e utilità, un everything but the girl televisivo, un bazar per soddisfare le rassicuranti manie piccolo-borghesi dell’emisfero occidentale, per alimentare quel senso di appartenenza al mondo dei consumatori televisivi, perlopiù persone anziane rintronate dalla noia televisiva, disseminate in province sperdute.

    I packshot erano fondamentali per attizzare il pubblico verso il prodotto. Max li abbelliva rendendoli sexy con makeup artistici, posizionandoli su sensuali cuscini di velluto o avvolgendoli in un tripudio di nastri e carte colorate su falliche colonnine di cristallo; attrezzando, quando erano pezzi importanti tipo elettrodomestici, pedane girevoli che facevano il classico mezzo giro su loro stesse con rudimentali motori sottostanti mentre il venditore chiamava il prezzo e il numero di esemplari rimasti, e lo squallore desolante di quelle ferraglie che ruotavano riempiva lo studio.

    I primi tempi erano anche stati divertenti, per il clima vagamente da set che si respirava negli studios di Hot con tecnici, attrezzisti, atletici tocchi di carne da borgate industriali con sorrisi stampati, e persino un regista che, assonnato e svogliato, dava i suoi ordini dalla cabina di regia, ordini sempre uguali, neutri, sussurrati nel microfono dell’auricolare del presentatore packshot quando era il momento di lanciare la vendita del prodotto.

    I presentatori erano la fauna più interessante del posto. Ex attori o attrici, spesso falliti capocomici, con voci impostate e tromboneggianti e sorrisi d’accatto, con atteggiamenti snobistici e velleità autoriali rispetto al banale e funzionale copione da recitare. Quando gli attrezzi da vendere erano manubri, vogatori e panche per gli esercizi, erano aitanti body builder.

    Una volta, uno degli attempati modelli che indossava i tristi abiti della collezione tedesca si presentò come Luigi Maderna.

    Max, scherzando, disse: «Come il compositore», e lui: «Sì, era mio nonno. La sua musica non l’ho mai capita.»

    Avrebbe voluto chiedergli che ci facesse in un posto simile il nipote borghese di una star della dodecafonia ma si trattenne; tuttavia, nel suo intimo scavò una nicchia di adorazione per quell’uomo.

    Max si teneva a distanza dalle fatue manie di comando dei registi e dei presentatori per non apparire patetico a se stesso. Faceva il suo lavoro al meglio cercando di non deprimersi, né esaltarsi per qualche trasmissione riuscita o un picco di vendita di qualche inutile attrezzo invendibile sulla carta, ma che aveva inspiegabilmente fatto il sold out. Doveva resistere a quel vortice di insicurezze che diventavano smanie di protagonismo o rivendicazioni artistiche in un luogo che trasmetteva tristezza e rassegnazione sin dai primi minuti della diretta.

    Aveva imparato velocemente a creare efficaci tableau vivants, per i quali Angelika si complimentava, purché tutto rimanesse confinato nella finalità della vendita.

    Niente guizzi o eccentricità, per carità! Quando lui superava il limite della sobrietà, offuscando il prodotto e distraendo lo spettatore, la stronza simpaticamente spietata gli diceva: «Non fare troppo l’artista.»

    Max accusava il colpo sorridendo, lasciando che la lama sottile della concretezza teutonica dissanguasse il corpo timido del desiderio di rendere almeno un po’ artistica quell’astratta professione di creatore di packshot.

    Il giocattolone

    Con il lavoro a Hot erano arrivati il primo contratto a tempo indeterminato, la prima macchina, la prima vacanza all’estero ad agosto, i primi risparmi, la prima carta di credito, la prima sensazione che qualcuno avesse fiducia in lui al punto di pagargli uno stipendio.

    E col primo stipendio si concesse il suo primo giocattolone da quando aveva smesso ufficialmente di essere bambino: un massiccio e fiammante computer di quelli con l’hard esterno, di quelli che occupavano mezza stanza. E infatti metà del suo studio – una piccola terrazza sospesa all’interno di grigi palazzoni, che Max aveva abusivamente verandato – era occupata dal suo mega computer.

    Nel buio della sua tana sospesa nel cielo, desideroso di segrete intimità con sconosciuti, lontano dalla nascosta vita dei bar notturni popolati da gente reale, poteva finalmente entrare in comunicazione mediatica con il mondo notturno dei solitari erotomani del web.

    Quel passaggio epocale dai piccoli, fumosi, affollati locali per uomini vicino alle stazioni ferroviarie, alle algide chat nel silenzio della propria solitudine casalinga, era stato un trauma non subito avvertito da tutti i giovani omosessuali. I locali s’erano dimezzati, come clientela; le chiacchiere solidali nel chiuso della privacy dei luoghi segregati da un’etichetta s’erano rarefatte, svanite in una solipsistica timidezza, uno scontroso chiudersi nelle proprie fantasie alterando la percezione di sé nella bolla delle manie serializzanti.

    I primi tempi faceva le ore piccole a guardare pornografia spicciola e gratificante. Sesso manesco e liberatorio nella sua infantile semplicità. Chattare su MSN: le sue stanze preferite erano uomini sposati e bisex, parole

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