I giovani e la crisi del covid-19: Prove di ascolto diretto
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Book preview
I giovani e la crisi del covid-19 - Mauro Tuzzolino
info@arkadiaeditore.it
I giovani e la crisi del covid-19.
Prove di ascolto diretto
Introduzione
Aldo Bonomi
È sempre utile mettere l’orecchio a terra per continuare a cercare di capire cosa si agita nel sociale, tanto più in un tempo eccezionale come quello della pandemia. Un tempo che segna l’immaginario collettivo, specie di quello giovanile, inevitabilmente più ricettivo e affamato di esperienza. Questa piccola ricerca, compiuta nella fase acuta della pandemia, raccoglie i sussurri del mondo giovanile investito, come tutti, dall’esperienza inedita del lockdown. Stando a quello che emerge dall’indagine, nel tempo sospeso nel distanziamento fisico i giovani hanno sperimentato un’ampia gamma di sentimenti, tra i quali estraniamento, lontananza e solitudine, che hanno cercato di elaborare ricorrendo alla mediazione autorevole degli insegnanti, a loro volta remotizzati a casa.
Tra i tanti spunti offerti dal lavoro sul campo
(si fa per dire in questo caso) e dai relativi commenti offerti dagli esperti, mi soffermo qui su quelle che sono le aspettative di cambiamento sussurrate dai giovani nel post pandemia, perché la nuova normalità
dovrà, auspicabilmente, tenerne conto. In effetti ci si aspetta, o quanto meno si spera, in un cambiamento in meglio, in una normalità migliore della precedente, pur nell’incerta fiducia che la pandemia abbia reso migliore il genere umano. Diciamo che la pandemia ha aperto una finestra di fiducia, che forse per i millennials cresciuti nella crisi post 2008 rappresenta un’esperienza nuova, sul fatto che le grandi questioni del nostro tempo possono essere affrontate in maniera più efficace quando ognuno è chiamato a dare un contributo, a partecipare alla vita della polis, in quanto soggetto di un’intelligenza sociale collettiva in fieri. A suo modo questa finestra era stata aperta dalla figura di Greta Thunberg, ma l’esperienza del covid-19 ha contribuito a scavare non poco il solco della consapevolezza, temperando quel sentimento di fatalismo adattivo che pure alligna nei giovani intervistati. Tale consapevolezza va accompagnata, da insegnanti, genitori, dalla fragile comunità educante, perché rappresenta l’antidoto a uno scenario nel quale si addensano le nuvole grigie delle paure della pandemia, della crisi ecologica, della crisi economica. Questa generazione è nata e cresciuta in un paese che attraversa una metamorfosi dolorosa, rispetto alla quale il covid ha agito come un grande dispositivo di accelerazione del cambiamento.
Dentro questo processo i giovani sono soggetti per definizione in metamorfosi. Per noi adulti la pandemia ha rappresentato la fine di un
mondo, per loro un’esperienza fondante che ne connoterà il tratto generazionale. Per evitare che i sussurri di speranza trascolorino rapidamente in cinismo, in delusione, in voglia di exit anziché di voice, occorre che gli adulti siano in grado di farsi soglia nella faglia generazionale, che è poi un altro modo per rimettere al centro la missione educativa e formativa della scuola, al di là del pur fondamentale ruolo di trasmissione di saperi codificati. Certo l’educazione alla partecipazione intesa come protagonismo nella sfera della prossimità comunitaria e di accompagnamento alla cittadinanza non è affare esclusivo della scuola, anzi. È compito di una comunità di cura delle nuove generazioni ben più vasta, che va dalle famiglie agli enti locali, dall’associazionismo volontario alle imprese e alle rappresentanze degli interessi. E questo vale a maggiore ragione nel Mezzogiorno, dove la necessità di produrre capitale sociale inclusivo, di produrre fiducia diffusa e senso civico è ancor più fondamentale come premessa per indirizzare in modo più deciso la metamorfosi verso un mondo trainato dal desiderio di protagonismo delle nuove generazioni.
Del resto è su un terreno simile che ho conosciuto e lavorato con Mauro Tuzzolino, quando, erano gli anni ‘90, accompagnavamo i giovani del Mezzogiorno con le Missioni di Sviluppo. Fu quella una stagione di animazione dei contesti locali orientata alla creazione di coalizioni di sviluppo, imperniate su enti locali, rappresentanze, imprese, etc. capaci di accompagnare i giovani a fare microimpresa con il supporto di fondi europei veicolati da una agenzia guidata dall’amico Carlo Borgomeo. C’è quindi un filo rosso che lega quella stagione all’attuale, che pure è differente. È il filo rosso della fiducia nei giovani e anche il filo rosso nella fiducia del locale, della comunità, del sociale, di organizzarsi per stare dentro la modernità appropriandosene e traducendola in un nuovo linguaggio di coesione.
L’antefatto
Appunti dal sottosuolo
Come molti dei personaggi di Murakami Haruki, siamo condotti dalle circostanze a ripiegare nelle nostre solitudini, a discendere nel pozzo della nostra autocoscienza. E, come nelle narrazioni di Saramago, questa discesa assume una dimensione sociale e collettiva.
E, si sa, il pozzo è metafora di caduta e di rinascita già nelle Sacre Scritture. Il virus ha costretto tutti noi a questa discesa nel pozzo, sul piano individuale e su quello sociale. Ponendoci interrogativi sul nostro recente passato, sulle nostre modalità di condurre l’esistenza, sugli eventuali nessi causali tra modus vivendi e situazione attuale; ma gli interrogativi riguardano a maggior ragione la risalita prossima, anche come esercizio e antidoto al presente, assecondando quel fisiologico bisogno di varcare il confine del nostro attuale limite.
La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità
, ricorda papa Francesco nella sua recente commovente omelia.
Al culmine della potenza della retorica della tecnica, ne riscopriamo la sua intrinseca fragilità. Quando l’apparato di scienza, tecnologia ed economia mostra i propri limiti dinanzi al palesarsi del flusso virale, ci sentiamo nudi, messi di fronte allo specchio della nostra vita, impauriti per la sopravvivenza nostra, dei nostri cari e, in ultima analisi, delle abitudini di esistenza a noi così care. Privi dell’armatura e dei superpoteri che nella quotidianità ci offre l’apparato tecno-sociale, ripiombiamo d’improvviso nel perimetro delle nostre corporeità e torniamo a fare i conti con le domande di sempre.
Domande individuali e collettive sul senso, sulle traiettorie di vita, sul ruolo di ciascuno e sulla direzione del nostro vivere associato.
In questo quadro avvio la mia breve riflessione, sempre in divenire, su alcune piccole lezioni che sto imparando.
1. Stiamo riscoprendo l’importanza della comunità di cura. La consapevolezza delle nostre fragilità incrementa il nostro bisogno di avere intorno reti di protezione, che non devono e possono limitarsi alla pur necessaria concentrazione di funzioni di eccellenza. Le riforme sociosanitarie assecondando il principio fordista per cui concentrazione uguale efficacia/efficienza, hanno puntato sulla costruzione di grandi hub iperspecializzati (come non pensare alla vicenda del Mater Olbia in Sardegna?) e, così facendo, abbiamo abbandonato, almeno nel dibattito mainstream, le ipotesi di una sanità capillare e territoriale, capace di offrire prossimità, aiuto, sostegno, ascolto. E le nostre paure diventano solitudini fragili, prive di quel meccanismo comunitario di sostegno e accompagnamento, in particolare nel contesto delle aree interne.
2. La scuola, con la generosità dei suoi protagonisti, prova a riorganizzare il proprio funzionamento attraverso l’utilizzo della didattica a distanza; quel che emerge tuttavia, aldilà delle performance molto variabili e della inadeguatezza tecnologica, è la centralità della presenza
nei processi di apprendimento e di costruzione della socialità di base. Ho ascoltato docenti e ragazzi. Questi ultimi si sentono smarriti e rivalutano con convinzione l’importanza dello spazio fisico, del confronto sensoriale come ambiente didattico per eccellenza. E anche qui varrebbe la pena di approfondire sul principio di prossimità, sull’importanza di un presidio sociale insostituibile. La scuola, sembra banale rammentarlo, non è semplicemente un contesto di trasferimento e di condivisione dei saperi; in questo caso