Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Carbonara Aquilonia 1799-1949: Insurrezioni, brigantaggio, rivolte contadine
Carbonara Aquilonia 1799-1949: Insurrezioni, brigantaggio, rivolte contadine
Carbonara Aquilonia 1799-1949: Insurrezioni, brigantaggio, rivolte contadine
Ebook213 pages2 hours

Carbonara Aquilonia 1799-1949: Insurrezioni, brigantaggio, rivolte contadine

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Il 1799 fu l’anno della rivoluzione di Napoli. Da questo momento niente nel Mezzogiorno fu più uguale a prima. La diffusione delle nuove idee giacobine, l’eco della Rivoluzione francese, con i suoi rivolgimenti istituzionali, giuridici, amministrativi, avrebbe dovuto portare definitivamente il Sud Italia fuori dal Medioevo feudale. Ma la classe borghese che nelle città e nei paesi avrebbe dovuto dirigere il nuovo corso delle cose si è rivelata inferiore al compito storico, spesso sostituendosi semplicemente al vecchio potere feudale interessata solo ad “estrarre” dalle scarse risorse disponibili quanto potesse assicurarle vantaggio e predominio.
Nella lotta intorno alla divisione delle terre demaniali, cominciata nel 1810, è la radice della tradizionale contrapposizione di galantuomini e cafoni, che ha caratterizzato la storia delle comunità meridionali per oltre centocinquant’anni, di cui insorgenze, banditismo, brigantaggio sociale e tumulti contadini sono l’espressione più drammatica e violenta.
Questo processo tipico è colto e documentato nelle vicende della piccola Carbonara-Aquilonia, minuscolo borgo dell’Alta Irpinia, in cui si manifestano tutte le contraddizioni ed i problemi che hanno segnato il mancato sviluppo in senso moderno del Mezzogiorno d’Italia.
LanguageItaliano
PublisherDario Ianneci
Release dateAug 25, 2020
ISBN9788835884439
Carbonara Aquilonia 1799-1949: Insurrezioni, brigantaggio, rivolte contadine

Read more from Dario Ianneci

Related to Carbonara Aquilonia 1799-1949

Related ebooks

History For You

View More

Related articles

Reviews for Carbonara Aquilonia 1799-1949

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Carbonara Aquilonia 1799-1949 - Dario Ianneci

    d’Italia.

    Introduzione

    Il 1799 è l’anno fatidico della storia del Mezzogiorno.

    L’anno della rivoluzione giacobina è l’inizio del tracollo di tutti i princìpi e le strutture del vecchio stato feudale, inadeguato al nuovo ciclo storico che da decenni si era avviato in tutta Europa.

    Monarchia, nobiltà, ceto borghese, contadini: nessuno nel Sud da quel momento in poi fu lo stesso di prima.

    L’ancien regime aveva ricevuto dall’esperienza della Rivoluzione napoletana del 1799 un colpo mortale che lo lasciò moribondo, fino a che le successive riforme dei re napoleonici non lo uccisero del tutto.

    Nuovi princìpi, non solo ideali, di liberalismo, di partecipazione al governo, di abolizione di privilegi nobiliari anacronistici, di equiparazione dei cittadini davanti al fisco e alla legge, di superiorità dello Stato, di redistribuzione delle terre feudali, di ammodernamento dell’amministrazione e della giustizia, portando il Mezzogiorno fuori dal Medioevo, avrebbero dovuto spingerlo verso la complessa modernità della nuova Europa dei diritti e delle libertà.

    Questo processo di ammodernamento del Sud Italia non riuscì mai a realizzarsi compiutamente, e soprattutto non riuscì mai a realizzarsi con un processo interno alla società meridionale.

    Una serie di contraddizioni, contrastanti interessi, incapacità, assenza di iniziative, resistenze da parte di quel ceto borghese che avrebbe dovuto guidare il passaggio alla modernità, tenne a lungo in feroce contrapposizione tutte le componenti della società meridionale: monarchia, borghesia e popolo.

    Tralasciando alcune aree della Campania costiera, della Puglia e della Sicilia, l’Unità d’Italia trovò il Mezzogiorno fragile, debole sul piano economico e sociale, con istituti antropologici arcaici che sopravvivevano ancora anche nel ceto dirigente locale; una società immobilizzata nei processi di innovazione, con limitazioni alla libera circolazione delle idee, ed una generale arretratezza delle condizioni di vita dei ceti più deboli, specialmente dei contadini delle montagne dell’Appennino.

    Dopo la Rivoluzione repubblicana di Napoli del 1799, nata dalle idee e dalle armi francesi, la monarchia diffidava della borghesia liberale più aperta che ne era stata l’anima. Dopo la feroce repressione che ne seguì, i Borbone non poterono servirsi di una classe borghese moderna ed illuminata a cui affidare l’azione di governo. La monarchia borbonica preferì mantere il pieno favore del popolo, rinunciando a tasse e imposte, ma rinunciando al contempo a qualsiasi intervento di innovazione e sviluppo della società, accumulando così un grave ritardo rispetto agli altri Stati della Penisola.

    Nessuna trasformazione si ebbe negli assetti proprietari e nei modelli produttivi. I monarchi napoleonici (Giuseppe Bonaparte e Giocchino Murat), riprendendo un progetto già avanzato dai Borbone verso la fine del Settecento, avevano decretato la fine del vecchio sistema feudale del latifondo indiviso ed il superamento del vecchio regime proprietario feudale, ormai palesemente fuori dalla storia, con i suoi istituti arcaici, i suoi beni burgensatici, allodiali, i suoi demani feudali o universali, le promiscuità d’uso, ed avevano introdotto con nuove leggi la liquidazione del regime feudale e la trasformazione del regime proprietario nelle campagne.

    Nelle zone interne del Mezzogiorno la divisione dei terreni demaniali, in teoria, avrebbe dovuto realizzare l’avvio di una nuova storia, con la nascita di un’operosa classe di contadini proprietari, con poderi privati, unità produttive moderne sul modello delle campagne francesi, con campi chiusi e territori abitati da nuclei di famiglie di coltivatori.

    Tutto questo non ebbe in pratica alcuna attuazione.

    Solo molti decenni più tardi, dopo l’Unità d’Italia, sotto la minaccia di rivolte e tumulti, tra mille difficoltà e resistenze di ogni tipo, si poté realizzare una parziale e stentata divisione dei terreni demaniali. Questa poi fu compiuta con tanto ritardo, con tante manchevolezze, tra risse, opposizioni, usurpazioni, imbrogli e raggiri burocratici tali che a buon diritto Francesco Saverio Nitti definì la questione demaniale la gran lebbra nazionale.

    La responsabilità nel mancato passaggio alla modernità del Mezzogiorno in quest’arco di tempo è da addebitare in massima parte alla stessa classe dirigente borghese che si ritrovò alla guida delle comunità locali nel momento della fine del potere baronale, del quale però continuò a lungo ad incarnarne lo spirito.

    In centocinquant’anni di storia, i galantuomini possidenti borghesi, alla guida delle amministrazioni locali, non furono mai all’altezza del compito loro affidato. L’élite dei possidenti si sostituì al feudatario nel possesso o nel controllo, diretto o indiretto, delle grandi tenute ex feudali, dalle quali essi cercavano di estrarre il massimo vantaggio economico.

    Studiando la documentazione storica della vita amministrativa dei piccoli centri del Mezzogiorno, come appunto Carbonara-Aquilonia, è possibile verificare la fondatezza dell’interpretazione storiografica che individua nella qualità delle istituzioni politiche ed economiche delle società il fattore decisivo del loro sviluppo: queste istituzioni, è stato osservato, quando sono di tipo inclusivo, favoriscono il coinvolgimento dei cittadini, la crescita economica, lo sviluppo umano e civile dell’intera comunità, quando sono, invece, di tipo estrattivo, tendono solamente ad estrarre rendite per una minoranza di privilegiati, in un contesto di grande disparità di reddito e di condizioni economiche generali.

    Il Sud Italia è stato caratterizzato, a partire proprio dal fallimento della Rivoluzione napoletana del 1799 e dai fallimenti dei successivi movimenti di rinnovamento (1820, 1848), da istituzioni politiche ed economiche di tipo estrattivo.

    In questo quadro l’esercizio del potere amministrativo all’interno di ristrette consorterie familiari formò a livello locale una classe sociale di amministratori estrattivi spesso gretta, chiusa, interessata alla gestione della cosa pubblica più per difendere la propria posizione di privilegio economico e per accrescere la propria rendita che per promuovere l’avanzamento sociale della comunità e gestire i bisogni generali.

    Basterebbe guardare i bilanci di gestione dei demani comunali per tutto l’Ottocento: si nota subito come gli importi per i quali essi venivano concessi in fitto per il pascolo a possidenti locali, non venivano mai effettivamente introitati dall’amministazione pubblica. Gli importi, inoltre, di solito molto bassi, erano stabiliti dall’Amministrazione formata da quegli stessi proprietari che gestivano in fitto le grandi tenute comunali e che poi quasi mai, per diversi motivi, corrispondevano quanto dovuto, causando continue perdite di bilancio.

    Dall’abolizione del sistema feduale, il popolo non riesce ad ottenere alcun beneficio sostanziale, mentre perde al contempo anche quei vantaggi derivanti dall’esercizio degli antichi ampi usi civici connessi alla natura feudale delle tenute indivise.

    Con il progressivo declino delle confraternite religiose e dei conventi, regrediscono anche le poche strutture di assistenza materiale minuta per il ceto più debole.

    Le confraternite stesse in effetti avevano funzionato in qualche modo nei secoli precedenti anche da strumento per l’accumulazione primitiva del capitale per la nascente borghesia delle professioni, i cui esponenti aveano spesso utilizzato le risorse economiche delle associazioni laicali per i propri interessi.

    Sgretolatosi, insomma, un sistema sociale e civile plurisecolare, basato su arcaiche strutture di economia boschiva e silvo-pastorale, su regimi di proprietà indivisa, soggette ad ampi usi comuni, tutte le aspettative di progresso e di cambiamento in senso moderno, maturate nel corso della seconda metà del Settecento, andarono ampiamente deluse.

    Nel corso dell’Ottocento il popolo imparò a diffidare della classe dirigente borghese che quasi sempre fu più preoccupata di mantenerlo in una condizione di sudditanza che di guidare un processo di reale progresso economico e sociale a livello locale.

    Il popolo reagisce periodicamente, soprattutto nei momenti di rottura e di crisi delle istituzioni, con rivolte tanto violente quanto effimere, senza prospettive e senza direzione politica.

    Sono note le violente reazioni popolari contro i galantuomini borghesi a partire dall’autunno del 1799 in tutta l’Irpinia: a Mirabella, Grottaminarda, Bonito, Volturara, Ginestra, Pontelandolfo, Castelfranci, Torella, Bisaccia, Accadia, Montella, ed anche a Carbonara, dove l’albero della libertà, simbolo della rivoluzione giacobina, fu due volte abbattuto dal popolo.

    La direzione di fondo di tutte queste sollevazioni popolari, pur nelle diverse circostanze storiche, è sempre la stessa: il popolo reagisce contro un apparente nuovo ordine di cose, imposto dal ceto dei signori possidenti, e pretende di ristabilire l’ordine precedente che suppone sempre migliore. Per la plebe rurale la figura del re rappresenta sempre l’unica autorità ritenuta capace di contrapporsi all’avida borghesia locale e di tutelare con il suo paternalismo, la sua supposta benignità e la sua forza, il popolo misero e derelitto delle campagne.

    La monarchia ha fatto spesso leva sul favore popolare per rafforzare il suo potere, usando talvolta la plebe per difendere il trono contro i tentativi di giacobini e liberali di ridurre, circoscrivere e condizionarne il potere assoluto.

    Ma anche quando il popolo scese in lotta per difendere il trono, le sue condizioni non migliorarono. Semplice massa di manovra per la monarchia, una volta superata la crisi, il popolo torna a vivere la sua misera vita nelle campagne, soggetta alle carestie, alle epidemie, alle tasse e alla miseria invadente.

    Dalla massa dei contadini disperati e derelitti sorge ogni tanto la figura del bandito fuorilegge che si pone a capo di altri disperati come lui per condurre la sua personale guerra locale al potere, alla ricchezza, alla prevaricazione.

    Pur praticando la violenza, la rapina, il saccheggio, i masnadieri possono spesso contare, se non sull’aperto appoggio, certamente sulla simpatia e sul favore dei braccianti e dei diseredati delle campagne.

    Le componenti fondamentali del potere del brigante, in ogni tempo ed in ogni luogo, sono sempre la paura che incute e la violenza che pratica. La vita derelitta nei boschi, ai margini dei centri abitati, è la regola della sua esistenza.

    Talvolta, nei momenti di crisi politica ed istituzionale, nei vuoti di potere che vengono a crearsi nei rivolgimenti della Storia, qualche brigante si fa avanti per rivendicare un ruolo politico. Mettendosi a capo di bande e comitive a volte molto numerose dichiara di agire in nome del re e per il bene del popolo; si illude di conquistare paesi e cittadine, di spingere intere regioni alla rivolta e di ottenere una qualche riconoscibilità da parte del popolo e del potere politico.

    Senza direzione, senza guida politica, la guerra disperata dei briganti, per pericolosa che possa essere stata in certi frangenti storici ed in certi luoghi, è destinata inevitabilmente al fallimento.

    Sistematicamente tutte le grandi formazioni di banditi vengono attaccate e sconfitte dalle superiori forze militari dello Stato, non senza però che questa guerra feroce causi morti, lutti, sangue, devastazioni e repressioni che arrivano a coinvolgere anche centinaia di vittime innocenti.

    La feroce guerriglia brigantesca che si sviluppò nel corso dell’Ottocento fu una guerra non convenzionale, fatta di aggressioni, rapimenti, incursioni, imboscate, delazioni, vendette e rappresaglie. In essa la ferocia fu l’elemento comune ai vinti e ai vincitori.

    Tra le varie vicende storiche del Mezzogiorno, il brigantaggio postunitario resta ancora oggi un capitolo complesso e doloroso della storia nazionale, spesso in passato taciuto o sminuito fino a quando il mito del Risorgimento nazionale è stato proposto come sublime epopea, espressione eroica della volontà dei popoli italiani di costruire il proprio destino di libertà e di progresso.

    In seguito, nelle varie controstorie del Risorgimento, al contrario, si è spesso mitizzato il fenomeno del brigantaggio e delle rivolte contadine del Sud. Demistificando il processo risorgimentale, si è dato al brigantaggio postunitario il significato di una rivolta del Sud, animata e guidata a volte dai soldati dell’ex esercito borbonico, contro l’Unità imposta dai piemontesi. Si è raccontato il brigantaggio come espressione di una rivolta patriottica popolare contro una guerra di conquista del Mezzogiorno condotta dai Savoia, non diversa nei suoi caratteri strutturali dalle guerre coloniali che le grandi potenze conducevano in tutto il mondo. Non è assente anche a Carbonara-Aquilonia questa componente, ma essa resta comunque marginale.

    Altre volte il fenomeno è stato letto in chiave sociale, come rivolta del proletariato rurale che si ribella, come classe, alla borghesia capitalista che aveva realizzato l’Unità italiana per il suo esclusivo interesse di affermazione politica ed economica.

    Tra le diverse cause del brigantaggio c’è senz’altro, la questione demaniale, che altro non è che la questione della mancata trasformazione in senso moderno delle campagne dell’Appennino meridionale, del loro assetto proprietario e produttivo.

    Da qui nasce la rivolta periodica contro un ceto, una classe di amministratori possidenti, i galantuomini liberali, ostili ad ogni riforma, tanto nel regime borbonico che nel nuovo Stato unitario.

    La mancata divisione delle terre, promessa dal legislatore napoleonico e sempre osteggiata e di fatto vanificata dalla borghesia possidente dei piccoli e dei grandi centri del Sud Italia, è senz’altro una delle più importanti radici di quella rivolta diffusa dei braccianti e dei contadini contro la borghesia liberale del Mezzogionro che va sotto il nome di brigantaggio post-unitario.

    Una borghesia che nel 1860 abbraccia la soluzione piemontese al problema politico italiano ed accetta il nuovo Stato unitario, il quale pur consapevole dei nodi sociali presenti alla radice del fenomeno del brigantaggio, non osa farli venire alla luce proprio per non mettere in discussione quell’alleanza con le classi dirigenti locali che aveva consentito il facile, e forse imprevisto, successo dell’impresa garibaldina e dell’unione delle Due Sicilie allo Stato sabaudo.

    I periodici tumulti contadini dei decenni successivi, fino alle occupazioni delle terre alla metà del Novecento, continuano ad essere collegati alla stessa radice di rivolta sociale.

    in contesti storici molto diversi, essi sono ancora una tarda reazione alla mancata trasformazione

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1