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Il Codice del Drago
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Il Codice del Drago

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«Tutto era stato studiato dal Signore dell’Ombra solo per impadronirsi del drago».

Un gelido inverno al monastero. Un musico ha trovato un antico codice che forse non avrebbe dovuto leggere e Dana e l’Abate dovranno combattere ancora le Forze oscure, che scatenano misteriosi eventi anche nella lontana Valle di Maiden.
Questa nuova sfida conclude la trilogia di Dana di Blackwood e restituisce al lettore la magia nascosta di un tempo che ancora vibra nelle coraggiose scelte della protagonista, a cui subito ci si affeziona.


Lucia Raffaella Caprioli (1962) è nata e vive a La Spezia. Diplomata in pianoforte e laureata in Lettere, alterna l’attività artistico-musicale all’insegnamento nella Scuola media. Ha pubblicato la raccolta per ragazzi Poesie didattiche (2007) e la trilogia di Dana di Blackwood: Il Diamante della Luce (2013), L’Abate di ghiaccio (2018) e il presente romanzo.

 
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateAug 21, 2020
ISBN9788831691598
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    Il Codice del Drago - Lucia Raffaella Caprioli

    Un gelido inverno al monastero. Un musico ha trovato un antico codice che forse non avrebbe dovuto leggere e Dana e l’Abate dovranno combattere ancora le Forze oscure, che scatenano misteriosi eventi anche nella lontana Valle di Maiden. 

    Questa nuova sfida conclude la trilogia di Dana di Blackwood e restituisce al lettore la magia nascosta di un tempo che ancora vibra nelle coraggiose scelte della protagonista, a cui subito ci si affeziona.

    Questa edizione digitale inoltre include Note e Capitoli interattivi, Notizie recenti sull'autore e sul libro e un link per connettersi alla comunità di Goodreads e condividere domande e opinioni.

    Lucia Raffaella Caprioli (1962) è nata e vive a La Spezia. Diplomata in pianoforte e laureata in Lettere, alterna l’attività artistico-musicale all’insegnamento nella Scuola media. Ha pubblicato la raccolta per ragazzi Poesie didattiche (2007) e la trilogia di Dana di Blackwood: Il Diamante della Luce (2013), L’Abate di ghiaccio (2018) e il presente romanzo.

    © Lucia Raffaella Caprioli, 2020

    © FdBooks, 2020. Edizione 1.0

    L’edizione digitale di questo libro è disponibile su Amazon, Google P

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    e altri negozi online.

    Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni riproduzione, anche parziale, non autorizzata.

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    Il Codice del Drago

    Il ritorno di Dana di Blackwood

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    A mia figlia Annalisa,

    perché il suo essere aperta, con coraggio, a ogni aspetto della vita,

    è scintilla ispiratrice per la mente e il cuore.

    Lucia Raffaella Caprioli

    Il Codice del Drago

    Il ritorno di Dana di Blackwood

    Capitolo primo

    Nuovi arrivi

    Un brivido sottile di vento, dopo aver lambito il ghiacciaio, scorreva giù dalle rocce e si posava tremando sui prati intirizziti e sulle abetaie. Il silenzio cristallino custodiva in un nido trasparente l’immobilità della valle, quasi sospesa in un respiro freddo e pulito, sovrastato da un cielo lucido di cobalto.

    Dana, affacciata alla bifora che si apriva nella sua stanza, in alto nel mastio, pareva ascoltare qualcosa d’inafferrabile. Assorta nei pensieri, lasciava correre lo sguardo sul paesaggio sottostante fino a smarrirlo, inconsapevolmente, tra le fronde scure della foresta. Laggiù, al di là della pianura chiazzata dalla neve gelata.

    Alcune voci ovattate provenivano dalle stanze inferiori del castello e dal cortile interno, parole non intelligibili, sovrapposte le une alle altre, scambiate tra loro da servitori, cuoche, stallieri.

    La donna sorrise, a un tratto. Una di quelle voci, più sottile, più squillante delle altre, parve riscaldare l’aria invernale sciogliendone per un attimo la rigidità, e sbocciò in una risata infantile che si perse poi tra le pareti severe del palazzo. Dana tese l’orecchio, subitamente rasserenata. Era il suo piccolo Galead, che forse nella sala di rappresentanza, forse nelle cucine o nella dispensa inseguiva i servitori, trovando ogni pretesto per giocare, e costringendo l’anziana balia a corrergli dietro sbuffando e chiamando perché si fermasse, lasciando i domestici al loro lavoro.

    La giovane madre tornò a immergersi nelle proprie riflessioni. Continuava a ripensare a ciò che le aveva appena raccontato Arslan, Abate del monastero che sorgeva sulle pendici della montagna, arroccato sulle rocce che dominavano il castello.

    I confratelli l’avevano svegliato nel cuore della notte poiché – dicevano – si era verificato un fatto allarmante e assai poco comprensibile. Il nuovo bibliotecario del convento era stato trovato in preda allo sgomento mentre vagava nel buio dei corridoi, lamentandosi e tremando, spaventato e apparentemente dolorante. I frati, ancora poco lucidi per l’improvvisa interruzione del sonno, avevano cercato d’interrogarlo su ciò che poteva essergli accaduto, tentando altresì di rassicurarlo. Ma avevano ricevuto in cambio soltanto frasi rotte dall’emozione, singhiozzi e parole quasi insensate.

    «Il fuoco, il fuoco! – gemeva il giovane monaco – La biblioteca sta bruciando, aiutatemi, vi prego! I libri, oh Signore! I nostri libri… Tutto verrà distrutto!».

    Gli altri religiosi, intimoriti, avevano prestato attenzione a ciò che li circondava cercando di percepire crepitii, bagliori, spire di fumo o qualunque altro segnale che potesse, nella tranquillità dell’edificio, indicare lo svilupparsi di un incendio.

    Il bibliotecario si era poi accasciato sul pavimento freddo torcendosi le mani e singhiozzando: «Per l’amor di Dio, fate qualcosa, dobbiamo salvare i manoscritti! Il fuoco divorerà tutto, vi prego fratelli, non rimanete inerti! Il dolore, il dolore è terribile… Ma non pensate a me, salvate i libri e il convento! Le fiamme distruggeranno ogni cosa, vi dico! Andiamo, corriamo, prendete l’acqua, dobbiamo spegnere l’incendio!».

    E mentre tentava di alzarsi in piedi non era riuscito a reggersi, ricadendo sul terreno con un lamento acutissimo.

    Alcuni frati, sebbene stupiti che nulla all’intorno facesse intuire l’effettiva presenza del fuoco nell’oscurità della notte, si erano precipitati lungo il corridoio su cui si aprivano le porte delle celle, e attraversato il chiostro erano entrati nella biblioteca, con il cuore che accelerava per la preoccupazione e il timore di ciò che avrebbero trovato. Gli altri monaci, nel frattempo, tentavano di soccorrere il giovane, che era scosso da singulti e si lamentava come in preda a un lancinante dolore.

    Giunti nello scriptorium, i religiosi avevano trovato tutto apparentemente in ordine. Nessuna fiamma divampava né nella sala in cui gli amanuensi studiavano e copiavano gli antichi manoscritti, né nell’adiacente biblioteca. Il buio e il silenzio avvolgevano ogni cosa nella più assoluta tranquillità. Sbigottiti e incerti sull’interpretazione da dare a quella strana situazione, si erano quindi decisi a rivolgersi all’Abate correndo a svegliarlo, dal momento che la sua cella – proprio quella in cui un tempo Arslan era stato ospitato, giunto inizialmente al convento come semplice ospite – si trovava nella zona della foresteria e non era contigua alle altre. Per questo motivo il superiore non si era avveduto del trambusto verificatosi a causa del bibliotecario e del suo inquietante racconto.

    Tiberius, nome con il quale, in ricordo del proprio padre, il giovane aveva scelto di essere chiamato dopo la nomina ad Abate, era immediatamente accorso, recandosi nello scriptorium ancor prima di rivolgersi al confratello per interrogarlo e per sincerarsi delle sue condizioni fisiche. Entrato nella sala, a quell’ora oscura e silenziosa, aveva acceso due candele che si trovavano sui tavoli da lavoro degli scrivani e presane una tra le mani si era inoltrato nell’attigua biblioteca. Tutto taceva, nulla faceva intuire che una seppur minima scintilla avesse minacciato gli antichi scaffali lignei che salivano sotto la volta di pietra, carichi di preziosi volumi e di fascicoli rilegati, molti dei quali attendevano di essere diligentemente ricopiati dagli amanuensi del monastero. Anche lo scriptorium non recava alcuna traccia d’incendio. Gli scranni dei copisti apparivano ordinati e intatti, e gli oggetti adibiti al lavoro quotidiano – penne d’oca, fogli di pergamena, calamai di corno ricolmi d’inchiostro, ciotole piene di colori e di resine profumate – giacevano sul piano delle scrivanie in attesa di un nuovo utilizzo. Dalle bifore che si aprivano sul cortile interno, accanto al chiostro, filtrava un debole alone lattiginoso regalato dalla luna attraverso l’atmosfera pulita della notte. Nell’aria aleggiava solo l’odore della carta, del legno, della pomice e delle tinte ancora presenti nei piccoli contenitori di terracotta.

    Arslan aveva scrutato con attenzione ogni angolo, muovendo lentamente la candela e lasciando che fuggevoli scie luminose danzassero lungo le pareti e si posassero tremando sui dorsi scuri dei libri accuratamente impilati, mentre procedeva a brevi passi attraverso le due sale contigue. Dentro di lui un’insolita inquietudine cominciava a serpeggiare, mentre la sua mente cercava di fare chiarezza sulla singolarità di quella situazione. Assicuratosi che tutto, in realtà, fosse in perfetto ordine e che nessuna minaccia incombesse sul luogo, era tornato sui propri passi dirigendosi con decisione verso la cella del bibliotecario.

    Costui, che aveva suggellato la propria vocazione religiosa assumendo il nome di Angelicus, da pochi mesi si trovava al convento. Quando il precedente responsabile dei manoscritti, ormai piuttosto anziano, aveva chiesto di essere esonerato dalla carica che ricopriva ormai da molti anni, Arslan aveva ritenuto opportuno concedergli il meritato riposo. Si era quindi rivolto all’autorevole priore di un altro monastero per essere consigliato nella scelta di un confratello che sovrintendesse al lavoro degli amanuensi e si occupasse della catalogazione, della copiatura e della conservazione dei codici. Così gli era stato raccomandato Angelicus, che nonostante l’età ancora acerba si era già distinto per la passione e la competenza rivelate nell’adempimento dei suoi doveri. D’altra parte – aveva pensato Arslan con un sorriso – egli stesso era divenuto Abate pur essendo ancora un ragazzo, ma questo fatto non aveva interferito nello svolgimento della sua missione e nelle dimostrazioni di rispetto ricevute da chi lo circondava.

    Non appena giunto nella camera del giovane era stato interpellato dai monaci presenti, visibilmente sconvolti, con fare concitato.

    «Reverendo Abate, guardate, il nostro povero fratello ha evidenti bruciature sulle braccia, sul collo e sulle mani. Dobbiamo curarlo, e in fretta, altrimenti le ferite s’infetteranno e il dolore che prova aumenterà a dismisura! Ma come è potuto accadere?!».

    Il bibliotecario aveva trovato la forza di gettarsi ai piedi del suo superiore, gemendo: «Oh mio Signore, ditemi, ve ne prego, che ne è stato dei libri? Le fiamme li hanno divorati? Tutto è distrutto? – e poi ancora, torcendosi spasmodicamente le dita – Non ho potuto far nulla, ho visto il fuoco consumare i manoscritti, la pergamena accartocciarsi sotto la morsa di quel calore indescrivibile… Mio Dio, che tragedia! Quei preziosi codici, e tutti i nostri scrittoi, e il lavoro di decine d’anni… Tutto perduto, in pochi attimi! Ditemi mio Abate, si è salvato qualcosa? O non esiste più nulla della nostra biblioteca? Vi supplico, non nascondetemi la verità!» ormai singhiozzava, sfinito dal dolore e dalla disperazione.

    Arslan l’aveva esortato a rialzarsi, delicatamente, costringendolo a sedersi sul letto.

    «Tranquillizzati. La biblioteca è salva, nulla è stato devastato dalle fiamme, i libri sono intatti. Forse si è trattato di un miracolo, tuttavia non ho trovato alcun danno né nello scriptorium né altrove!».

    L’Abate si era quindi rivolto con sguardo preoccupato al medico, che nel frattempo aveva deterso le ustioni presenti sul corpo del giovane, cospargendole poi con un unguento d’erbe da lui stesso preparato nella piccola farmacia del convento. Infine egli aveva fasciato con bende candide le ferite, mentre il ragazzo, gradualmente, riprendeva a respirare in modo più regolare e i singulti si placavano, anche se la sua espressione tradiva lo sbalordimento e la difficoltà di comprendere quella situazione così apparentemente priva di logica, che lo faceva sentire completamente smarrito.

    Arslan, al termine della bendatura, era uscito dalla cella con il medico stesso.

    «Dottore, c’è qualcosa d’incomprensibile in tutto ciò. La biblioteca è intatta. Non c’è alcuna traccia d’incendio, eppure quel povero ragazzo porta evidenti segni di bruciature, e tutt’altro che lievi…».

    L’uomo annuiva: «È davvero strano, in effetti. Non c’è alcun dubbio che Angelicus abbia subito l’attacco di una fiamma, ma non ne comprendo l’origine. Che abbia avuto un incidente altrove, magari nelle cucine, e nell’agitazione che l’ha travolto abbia confuso i luoghi? In ogni caso, mentre vi trovavate nella biblioteca ho mandato fratello Quercus a esaminare il locale in cui vengono cucinati i nostri pasti e mi ha riferito che anche lì ogni cosa è al suo posto».

    «Non dubito delle parole di Angelicus, ma i motivi di tutto questo per il momento mi sfuggono… e m’inquietano».

    Il medico aveva poi continuato: «Perdonate, mio Abate, ma dovremmo forse prendere in considerazione che la mente del nostro bibliotecario sia, per così dire, sconvolta o momentaneamente incapace di ragionamento, e che ciò che egli racconta sia frutto di un’allucinazione, di un sogno, di un delirio. Le bruciature però sono reali, e a questo punto non saprei come spiegarle. Che le abbia inferte volontariamente al proprio corpo? Che si sia sottoposto a tale tortura per sua stessa mano? Ma dove, e come?».

    Il monaco aveva scosso il capo, poco persuaso dalle sue medesime affermazioni.

    «Non credo che il nostro confratello sia stato vittima di un attacco di follia. Temo piuttosto che ciò che afferma abbia un fondamento di verità, anche se lo stato delle cose sembra smentirlo. Angelicus, benché ancora molto giovane, è affidabile e ragionevole; non ho motivi per dubitare di lui o delle sue facoltà mentali. E tutto questo mi preoccupa a maggior ragione, poiché la spiegazione dell’accaduto dovrebbe essere cercata altrove, in qualcosa che probabilmente sfugge alla nostra capacità di controllo».

    Arslan si era interrotto, turbato, come seguendo un pensiero inconfessabile che gli avesse attraversato la mente, riempiendola di dubbi e di vaghi sospetti.

    Il frate medico, guardandolo con espressione interrogativa, e aperte le labbra per rispondere, aveva infine preferito tacere, rendendosi conto che lo sguardo dell’Abate era velato da un’evidente inquietudine.

    «Madre, madre, guardate che cosa ha fatto per me Rufus!».

    Dana fu scossa dalle sue meditazioni grazie ai gridolini festosi del bambino, che salendo di corsa la scala si era precipitato nella camera della donna, seguito dal vecchio servitore ansimante.

    «Sono un cavaliere, sono un cavaliere!» esclamava il piccolo pronunciando le consonanti in modo ancora un po’ incerto. Galead, scuotendo i ricci biondi e ridendo saltava allegramente all’intorno, e nel frattempo agitava una piccola spada di legno menando fendenti nell’aria con piglio spavaldo.

    Dana rise divertita e prese il figlio tra le braccia, mentre l’anziano domestico e maestro d’armi riprendeva fiato.

    «Sarai un grandissimo paladino, certo, lo sarai! – rispose al bambino – E quest’arma bellissima ti aiuterà a diventarlo; sicuramente la casata di Blackwood avrà in te il più valoroso cavaliere di tutta la sua storia!».

    «Con questa vi difenderò, madre – continuò Galead – Nessuno potrà farvi del male, ci sarò io a proteggervi, anche quando mio padre non sarà con noi!».

    «Presto sarai tu l’eroe di casa – scherzò la donna – E tuo padre e io potremo dedicarci ad attività molto più riposanti, sapendo che il castello e i suoi abitanti saranno in buone mani! Ma ora va’, cerca la balia, fatti preparare qualche cosa da mangiare e dille che sia un cibo degno di un guerriero, ricco di ingredienti sostanziosi, che ti facciano crescere forte e coraggioso!».

    Il bimbo prese per mano il vecchio Rufus e lo trascinò verso la scala che conduceva alla sala di rappresentanza, al piano inferiore, borbottando con cipiglio: «Io sono già forte e coraggioso, e quando sarò grande diventerò il cavaliere più famoso e invincibile di tutti!».

    Il portone di legno grezzo del monastero si spalancò per lasciar entrare il visitatore.

    Il frate guardiano e Quercus, fattisi sulla soglia, tesero le braccia verso l’ospite, giunto a piedi per l’erto sentiero che conduceva dalla vallata al convento, inerpicandosi tra le rocce e i bassi cespugli, e solcando il pendio della montagna con un angusto e contorto tracciato, ora parzialmente ricoperto di neve e reso scivoloso dalle gelate notturne.

    «Siate il benvenuto» esordì frate Quercus, che con la robusta corporatura sovrastava ampiamente la figura snella del nuovo arrivato.

    «Grazie a voi per aver accettato di accogliermi» rispose il viandante, chinando lievemente il capo ancora seminascosto dall’ampio cappuccio del mantello di tessuto pesante che gli avvolgeva gran parte del busto.

    «L’Abate vi attende, il vostro arrivo era annunciato» aggiunse il frate guardiano, e richiuse dietro di sé l’anta massiccia del portone.

    «Fratello Darius, vi prego di accomodarvi – principiò Arslan con un sorriso benevolo – Spero che il tragitto non sia stato troppo disagevole, la stagione non è clemente».

    Il viaggiatore lasciò scivolare dalle spalle il caldo indumento che l’aveva finora protetto.

    «Grazie, venerabile Abate, vi sono riconoscente per l’ospitalità e per le ricerche che mi concederete di effettuare nel vostro convento».

    L’uomo era di media statura; i capelli scuri e folti apparivano al momento alquanto arruffati. Egli provò a riordinare il proprio aspetto accarezzando velocemente il capo e la corta barba che gli nascondeva parzialmente il mento.

    «Siete dunque un musicista» continuò il monaco, invitando l’ospite a sedersi con un breve cenno.

    «Sì, mio signore – rispose l’uomo – E ciò che tenterò di trovare in questo santo luogo è di grande rilevanza. La vostra biblioteca è ampiamente rinomata e viene considerata come una delle più ricche dei nostri territori. So inoltre per certo che essa contiene un oggetto estremamente raro, sul quale desidero da molto tempo condurre uno studio accurato. Sarò onorato di trattenermi presso di voi per qualche tempo, se vorrete concedermene licenza, e spero di ottenere un risultato che si riveli utile a me e a voi, oltre che – ho quasi timore di pronunciare queste parole – a tutto il nostro mondo».

    Arslan gli sorrise nuovamente: «Siete stato degnamente presentato da uomini di fede ben più autorevoli di me, quindi non dubito dell’importanza di ciò che vi ha spinto fin qui! Metto ben volentieri a vostra disposizione la biblioteca, e sono certo che potrete contare sull’aiuto del nostro giovane bibliotecario, che sebbene sofferente a causa di un recente infortunio, sicuramente non lesinerà le forze per esservi di supporto. Fratello Quercus, ora, vi condurrà alla cella che vi è stata preparata, nella foresteria. Spero vorrete perdonarne la frugalità, tipica della nostra vita di monaci. Più tardi potrete spiegarmi più dettagliatamente qual è il vostro intento. Saremo lieti di aiutarvi, se lo vorrete!».

    Il musico chinò nuovamente il capo in segno di saluto e si ritirò, seguendo il frate che l’aveva accolto all’arrivo, mentre dalle strette finestre che foravano le mura possenti del monastero filtrava appena la prima luce rosata del tramonto.

    Capitolo secondo

    Il Codex Purpureus

    Un grido si levò nel buio e risuonò per qualche attimo tra le volte e le pareti scarne del monastero. Arslan si svegliò di soprassalto, senza soffermarsi a pensare, balzò dal letto e corse verso le celle dei confratelli. Era certo che quella voce provenisse di là. Giunto in pochi momenti al corridoio su cui si aprivano gli usci delle camere, trovò già desti Quercus e il giovane Gillus, che in preda all’agitazione bussavano alla porta del bibliotecario.

    «Angelicus, cosa vi accade? Rispondete, ve ne preghiamo! State male? Il dolore vi ha nuovamente assalito?».

    Nessuna risposta.

    Arslan si accostò al basso battente di legno grezzo: «Fratello mio, parlate! Avete gridato, tutti vi abbiamo udito. Se la sofferenza si è acuita cercheremo di aiutarvi come meglio possiamo! Venite ad aprire, per carità!».

    Il giovane si affacciò a uno spiraglio dell’imposta, poi, scorgendo l’Abate stagliarsi nella semioscurità, spalancò l’uscio e lo fece entrare. Si sedette con un gemito sul letto disfatto, e tentò di spiegare: «È stato orribile… Si è trattato forse di un sogno, o di un incubo. Mi trovavo completamente avvolto da un’ombra tenebrosa, che simile a una nuvola temporalesca mi stringeva il corpo e penetrava al suo interno attraverso la pelle. Soffocavo, non vedevo più nulla attorno a me, e quella sorta di nebbia pesante continuava a premermi sul viso e sul petto impedendomi di prendere respiro. Oh Abate, ho temuto di morire! Quell’essere scuro e immateriale sembrava animato da una propria vita, avvertivo la sua crudeltà, la volontà di annientarmi… E stringeva, stringeva sempre di più, mi mancava l’aria, ed esso mi traeva a sé, mi riempiva con la sua malvagità. Potevo sentirla, sì, la provavo internamente come se mi appartenesse!». Angelicus si contorceva sul lettuccio portando le mani al collo e al petto, protendendole poi in avanti come per trovare aiuto e liberazione. «Era solo un incubo, ora lo capisco»,

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