Neon blu elettrico
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Book preview
Neon blu elettrico - Raoul La Rosa
maestrale.
UNO
"Crediamo sempre il contrario, ma le preoccupazioni servono.
Servono per vivere e per non impazzire".
Nel 1980 avevo diciott’anni, abitavo a Civitavecchia e frequentavo l’ultimo anno del liceo.
Le cose giravano per il verso giusto, forse anche bene o semplicemente non le avevo mai viste andar male. Come dire, mi mancava il confronto.
Anche a scuola tutto filava liscio e, forse anche per questo, la primavera di quell’anno sembrò arrivare ad una velocità impressionante.
Ma, in effetti, era sempre stato così; la primavera prima e l’estate poi, arrivavano che neanche te ne accorgevi e ci cascavi dentro già dopo le feste di Natale.
Scuola e vacanze, in quegli anni scandivano i ritmi di tutto e perfino l’estate sembrava arrivare solo perché la scuola finiva; non il contrario. Così, quei tre mesi di vacanza passati al mare e in motorino dalla mattina alla sera, erano vita.
La mia vita vera, fantastica e luminosissima ed io l’aspettavo ogni anno come un sipario invitante.
Per la verità già sentivo aria d’estate quando i primi audaci cominciavano a venire a scuola in maglietta a maniche corte. Fosse anche stato marzo o aprile, era comunque un segnale. Sì, era ora di metter mano nell’armadio quattro stagioni
e sfilar via la maglietta preferita dalla pila delle altre incasinandole tutte.
Così ogni anno, ero io che in primavera cominciavo il cambio di stagione
che avrebbe poi fatto mia madre. Mi sembrava sempre in ritardo, lei, per queste cose e invece aveva ragione a dirmi che ero io ad essere in anticipo. E aveva ragione anche quando, con un sorrisetto malinconico, aggiungeva che tanta fretta di vivere non sarebbe durata per sempre neanche a me.
Quell’anno dunque, era l’ultimo del liceo e ci sarebbe stato l’esame; quell’esame che poi, per un motivo o per l’altro, tutti ricordano.
Sarà per quel nome scemo, la maturità
, o perché gli esami all’università alla fine sono tutti uguali… fatto sta, che lo ricordano tutti. E lo ricordo anch’io.
Ricordo soprattutto le sveglie alle 6 per studiare. Iniziavo presto, così alle 11 potevo andare un po’ al mare.
Era un modo diverso di stare sui libri e senza più lezioni in classe al mattino, aveva un sapore nuovo.
In casa a quell’ora c’era silenzio e già questo non era male, ma era proprio lo studio che senza più professori e compagni di scuola, sembrava più consapevole. Studiavo in cucina con la finestra aperta al primo piano e sotto c’era la strada, Via Togliatti. A quell’ora senza traffico e senza rumori, era piacevole uscir fuori e respirare affacciati al balcone.
Si sentiva forte il profumo dei gerani di mia madre e non altri odori, ancora, dalla strada e dalle cucine.
Abitavamo lì, al civico numero 8 da tantissimo tempo. A ripensarci, abitavamo lì che mio fratello ed io non andavamo ancora a scuola.
Dopo poco rientravo, mangiavo qualcosa e aprivo i libri.
Mi sedevo al tavolo spalle alla finestra perché la luce del giorno era già intensa, poi cominciavo.
Di solito partivo bene e il tempo scorreva via veloce, ma intorno alle 9 cominciava a esser dura.
Mi aiutavo mangiando ancora, ma la salvezza non arrivava mai prima delle 11 e la salvezza era il rumore fiacco di un Guzzi 50 che ancora oggi riconoscerei tra mille.
Lo sentivo prendere via Togliatti da viale Baccelli, venir su sparato
verso casa mia e poi improvvisamente il motore non si sentiva più; trenta secondi e suonava il citofono.
Mia madre se era in casa apriva senza neanche chiedere, ma non saliva mai nessuno.
Era Mino, lo sapevamo tutti, il mio compagno di banco che suonava e aspettava che scendessi. Io prendevo il telo da mare, volavo sulla prima rampa di scale poi sulla seconda e in un attimo ero in strada.
Le cose che non potevamo tenere in mano le mettevamo sotto la sella, il costume lo avevamo indosso e dopo un rapido controllo del carburante a orecchio
, cioè scuotendo il motorino, eravamo pronti.
Con le alzate di buonora lo studio ci guadagnava, e anche il mare. Stavamo solo un paio d’ore, ma forse, poiché davvero la mattina è sempre la mattina
o perché il piacere dopo la fatica è più denso di gusto, quelle due ore ci bastavano.
Passammo così quasi un mese, dalla fine della scuola all’esame. Tutti i giorni 11.00-13.00 casa mia – S. Agostino beach.
Gli ultimi chilometri, dei dodici di quella strada per il mare, erano un lungo rettilineo tra gli eucalipti. Solo a metà c’era una esse
stretta perché la strada passava sul ponte della ferrovia. Lì c’era il bar Vespi.
Il Guzzetto
a pieno carico andava decisamente piano e siccome la strada dritta era noiosa, Mino ed io avevamo preso gusto a guidare con qualche imprudente assetto estroso. Chi era alla guida (eravamo intercambiabili) alzava le gambe fino a passarle sopra il manubrio, liberava quindi le pedane per i piedi del passeggero e poi gridava CAMBIO!
A quel punto il guidatore azionava la frizione con le mani e l’altro cambiava con il piede.
Non era semplicissimo. Da incoscienti sì, ma non semplicissimo. E comunque ci serviva; se neanche l’esame era una preoccupazione, qualcosa dovevamo inventare.
Crediamo sempre il contrario, ma le preoccupazioni servono. Servono per vivere e per non impazzire.
Così Mino ed io, in quei giorni, inventammo la preoccupazione di non sbagliare la cambiata
in motorino.
Era l’inizio estate del 1980, non avevamo neanche vent’anni e problemi più grandi in vista davvero non ce n’erano.
Anche la mia classe era una classe discreta e i professori non si lamentavano più di tanto. Quando lo facevano, era solo per spingerci ad ottenere di più. Io ascoltavo ogni esortazione, ma poi mi limitavo a rastrellare solo i risultati che venivano giù facili facili.
Del resto, il minimo sindacale
l’avevo sempre studiato, anzi, non ero proprio capace di fare meno. Avevo come una specie di forma mentis
, probabilmente un’impronta nel cervello ricevuta da bambino a suon di ceffoni da mia madre che sulla scuola (e sull’onestà) non transigeva.
Già alle scuole medie, tuttavia, ero convinto che mi avrebbe perdonato più una rapina, magari pentito, che una materia a settembre.
Per precauzione rimasi alla larga sia dall’una che dall’altra.
Era andata avanti così per anni, tanto che al momento, quinta liceo scientifico, la mia situazione più o meno era questa:
INGLESE: molto bene.
ITALIANO: bene ma il ragazzo potrebbe fare di più.
STORIA E FILOSOFIA: potrebbe fare di più.
GEOGRAFIA ASTRONOMICA: deve fare di più.
FISICA: potrebbe fare di più.
MATEMATICA: dovrebbe fare molto, ma molto di più e, dulcis in fundo,
RELIGIONE: Signora,
disse inorridito il prete a mia madre, (la quale quando andava, per non far torto a nessuno, parlava con tutti, ma proprio tutti, tutti gli insegnanti) … ma si rende conto? Il ragazzo dice di essere EPICUREO!
Lei volle da me spiegazioni in merito e comunque non me la perdonò subito. Soprattutto, credo, per non aver saputo sul momento cosa fosse un epicureo.
Questa situazione naturalmente non aveva nulla di eccezionale, tuttavia, la diffusa usanza nella scuola di non studiare neanche il minimo sindacale
faceva sì che, nonostante la mia evidente mediocrità, mi ritrovassi con alcuni altri in una posizione di discreto rilievo.
Nell’aprile di quell’anno, nei corridoi della scuola durante una ricreazione, mi sentii prendere sotto braccio. Era il prof. Pierotti di storia e filosofia:
… Fiore Frangesc’ ...
mi disse risvegliandomi dal torpore più con l’alito che con le parole
… ma tu,’o vo’ piglia’ o no ’o sissanta? Eeh?! Sìì? Allora è sape’ che si sturii accussì ’o puo’ piglia’ sulamente si vene ’na cummission’ ’e scarpar’. Ma si vene ’na cummissione cumme se deve, no! Allora? Fiore! Mi sono spiegato…?!
Ovviamente diedi le mie rassicurazioni d’impegno ma in realtà non corressi la rotta neanche di un grado.
Non era ostinazione la mia. Ogni volta che promettevo più impegno ci credevo pure, ma per poco. Poi il tempo passava e tutto rimaneva com’era. Non sentivo il bisogno di risultati migliori. E a che prezzo poi? Per farne cosa? Non era per me quindi, andava tutto bene com’era.
Diciamo che se la scuola fosse stata davvero la palestra della vita, io sarei stato uno che stava imparando bene la lezione:
1) Massimo rendimento col minimo sforzo.
2) Sapersi accontentare di quello che si ha.
3) Non farsi troppi nemici.
Ma come dicono, forse è davvero la strada, più che la scuola, la palestra della vita. E forse hanno ragione.
Così, stavo imparando ed applicando le cose giuste nel posto sbagliato. Eppure bella o brutta che fosse stata, per me la vita era quella. Così mi era stato insegnato e così credevo sarebbe stato sempre.
Invece era solo il liceo, una specie di mostra equina, un carosello di rampolli al trotto con percorsi ad ostacoli, giudici e punteggi. Dove c’erano capitomboli, pianti disperati, percorsi netti e salti di gioia.
Ma ci muovevamo tutti in un plastico fuorviante, dove l’ostacolo era finto e soprattutto, costruito a misura. Finta era la siepe, finto era il fossato e finto era pure il campione, anzi, proprio lui, il campione, spesso era più finto di tutti.
In quella specie di carrozzone per esempio, contava molto muovere bene i primi passi e per fortuna, sembrava che io li avessi mossi bene.
Spesso quei passi decidevano chi avrebbe ottenuto sempre un po’ di più o un po’ di meno di quanto meritato; per tutti i cinque anni della scuola.
Comunque, per tornare a me, nella primavera di quell’anno mi ero anche avvicinato a una ragazza.
Un pomeriggio di aprile, sui gradini del teatro cittadino dove si radunava il gruppo, avevo baciato velocemente una studentessa del terzo anno che era seduta accanto a me. Ci salutavamo già, certo, la conoscevo, ma non molto.
Fu tutto piuttosto improvviso e inaspettato; ricordo che stavamo parlando di qualcosa, qualcosa di divertente credo perché lei sorrideva e sorridevo anch’io, poi gli occhi ci avvicinarono un po’ di più, sentii prendermi una mano tra le sue e la baciai.
Non sapevo se era così che iniziavano le storie importanti, non me lo chiedevo né mi interessava. Sapevo solo che lei si chiamava Beba, vestiva pantaloni rossi e maglie colorate della Benetton, aveva splendidi occhi scuri e quando sorrideva, le venivano i buchetti sulle guance.
Come tutte le altre ragazze aveva un Boxer Piaggio, ma in mezzo a uno sciame di motorini blu, il suo era rosso. Per fare più in fretta lei lo accendeva a spinta, come i maschi, piuttosto che pedalare sul cavalletto come quelle con il Boxer blu.
Era forte Beba, giocava a basket e stava alla vita come lo zucchero a una caramella.
Per dare un bacio, c’era ogni ragione.
Praticamente ogni giorno, il pomeriggio verso le sei ci trovavamo in molti sugli scalini del Teatro Traiano
e ce ne stavamo lì un paio d’ore, con le schiene appoggiate sull’enorme portone di legno fino all’ora di cena. Il teatro era sempre chiuso, in disuso da almeno un decennio per una ristrutturazione in atto (che si supponeva ormai faraonica) passata attraverso varie amministrazioni comunali…
Per fortuna però, almeno gli scalini erano rimasti fuori, sia dal portone che dalla ristrutturazione.
Ed erano scalini comodi, bassi e larghi, che godevano di una buona visuale sul passeggio
serale e si prestavano quindi ad incontri di vario genere.
Il pomeriggio erano frequentati da studenti e studentesse (veniva quasi sempre anche Beba), la sera dopo cena invece, c’erano personaggi più oscuri e nessuna ragazza.
Io c’ero quasi sempre; prima e dopo i pasti, perché soprattutto d’estate il meglio era la sera tardi, quando era tardi davvero e si rimaneva in pochi.
Le notti erano calde, le strade sembravano più larghe e il mare col suo odore di mare, era a un passo.
In quelle sere raccontavano qualcosa anche i muti, gli scalmanati ascoltavano in silenzio e gli assenti a scuola erano sempre presenti. Anche chi era insopportabile di giorno, migliorava notevolmente alla luce della luna. Un po’ di birra aiutava, ma senza sarebbe stato lo stesso.
Così uscivano fuori discorsi strani, discorsi che poi il giorno avrebbe portato via e che non sarebbero più venuti fuori, neanche la notte seguente.
Si parlava spesso di donne, desiderate o perse. Si parlava di andare lontano (perché le donne giuste si sa, stanno sempre da un’altra parte...) e si viaggiava con l’immaginazione tra le fantasie erotiche. Ora su questa, ora su quella ragazza. Ora su questa, ora su quell’insegnante.
Ma certe volte erano discorsi tristi; lutti che facevano ancora star male o storie di padri, che, sebbene validissimi al tornio o velocissimi tra i tavoli di un ristorante, stavano perdendo il lavoro.
Altre volte erano storie di madri che avevano tolto qualcosa al seno, di cui però, non si sapeva ancora niente.
Altre volte ancora, erano inconfessate paure e tra le tante, anche quelle dei topi e dei serpenti.
Molto spesso si parlava anche di soldi, e allora fioccavano come la neve, le dritte per farli, i soldi; e ognuno aveva la sua.
L’immaginazione non aveva confini se in ballo c’erano i soldi, i soliti soldi, che servivano a tutti e non bastavano mai.
Ma quali che fossero, tutti quei discorsi rivelavano sempre la più ingenua delle nostre convinzioni giovanili: la certezza cioè, di poter far tutto o volendo, di poter far niente nella vita.
Illuminati dai lampioni e dalla luce bianca della luna, quei discorsi rivelavano anche la parte più profonda degli uomini; quella parte che migliore o peggiore, quasi sempre è diversa dalla faccia degli uomini.
Io guardavo e più che altro, ascoltavo.
Guardavo e ascoltavo come ciascuno di quei personaggi sapesse trovare le parole più giuste per quello che stava raccontando, e anche il tono più vero. Semplicemente, veri erano i fatti di cui dicevano e si capiva.
Una cosa sorprendente era che spesso i più loquaci e convincenti, erano quelli che facevano scena muta
a scuola. A vederli, i professori non ci avrebbero mai creduto e comunque anche loro, sarebbero