Sistemati
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Book preview
Sistemati - Francesco Samui
davvero.
Capitolo 1
Ciao, Matteo.
Lucio, stai ancora dormendo?
Adesso non più.
Posso passare da te? Vorrei parlarti di una cosa.
Che ore sono?
Le quattro. Se per te va bene, sarò lì tra una mezz’ora.
Matteo, è successo qualcosa? Che mi devi dire?
Forse ho trovato un sistema di gioco, ma devo spiegartelo a voce.
Salutami i miei genitori, quando arrivi
dissi con tono ironico e ancora mezzo addormentato.
Vivevo a casa con mio padre, mia madre e mio fratello più piccolo, ma erano praticamente quasi due giorni che non ci vedevamo.
La sera lavoravo al ristorante da Marco e poi uscivo fino a tardi, mentre di giorno dormivo nella mia stanza, una dependance in giardino che era un vero e proprio mini appartamento.
C’era un letto matrimoniale, una scrivania con il pc, la televisione ed un piccolo bagno.
Avevo creato anche una sorta di angolo cucina, con un microonde appoggiato sopra un piccolo mobile dove tenevo qualcosa da mangiare ed un vecchio frigorifero che, soprattutto d’estate, faceva un casino infernale.
Quella dependance era nata come stanza per gli ospiti ma, da quando ci eravamo trasferiti in quella casa qualche anno prima, ci avevo sempre vissuto io.
Fin dall’adolescenza, quello era diventato il mio mondo.
Matteo, invece, lo conoscevo da quando eravamo bambini.
I nostri genitori erano amici e noi due, dall’asilo alle superiori, eravamo sempre andati a scuola insieme, nella stessa classe.
Non è una cosa inusuale in un paese di pochi abitanti come il nostro, sulle coste del Centro Italia.
Con Matteo, però, non ero solo andato a scuola, ma avevo trascorso tutta l’infanzia e l’adolescenza.
Insomma, io sapevo tutto di lui e lui sapeva tutto di me.
O almeno, così credevo fino a quel momento.
Misi una mano sotto il letto e cercai Suri, il cane che avevo adottato all’università.
Si rannicchiava sempre lì, quando faceva caldo.
Suri non si mosse, né venne a cercare una carezza provandomi a convincere di uscire.
Buonanotte
le dissi, prima di addormentarmi di nuovo come se fossero state ancora le due del mattino.
Ad un tratto sentii la porta della dependance aprirsi.
Era Matteo che entrava nella mia stanza.
Avrei voluto picchiarlo mentre alzava le persiane ridendo: Forza, riprenditi. Sembri un cadavere.
Lo guardai e vidi che aveva una specie di valigetta in mano.
Notò subito che la stavo guardando.
Alzati, che ti spiego tutto
mi disse facendomi cenno di tirarmi su e avvicinarmi a lui.
Mi sollevai con il busto, mentre Suri usciva da sotto il letto per festeggiare l’entrata trionfale del nostro amico.
Lo salutò, mettendosi sulla schiena per farsi accarezzare la pancia.
Poi aprì leggermente la porta della dependance, scansandola con la zampa, e corse fuori in giardino.
La valigetta che Matteo aveva portato con sé e che ora si accingeva ad aprire, poggiata sulla mia scrivania, sembrava di quelle per contenere le chips da poker.
Ero stanco e stralunato e lo stavo guardando con i capelli arruffati, senza capire bene dove volesse arrivare.
Mi passi un foglio e una penna?
mi disse frettolosamente, mentre estraeva una roulette giocattolo dalla valigetta.
Mi scappò una mezza risata.
Ma che cazzo stai facendo?
Foglio e penna, grazie
sogghignò imitando un chirurgo in sala operatoria che chiede qualche attrezzo ad uno degli assistenti.
Gli passai foglio e penna, e accesi una sigaretta: Sei fortunato Matteo, ti voglio troppo bene.
Lui fece girare la roulette e ci tirò la pallina dentro.
Mi sentivo quasi ridicolo, in quella situazione.
Insomma, eravamo nel bel mezzo di un pomeriggio di agosto e, mentre la gente normale era al mare o a fare un aperitivo, noi eravamo nella mia stanza a guardar girare una roulette giocattolo.
Suri, intanto, era rientrata per bere in una delle sue ciotole, accanto alla scrivania.
Fuori, il caldo era insopportabile.
Uscì il 30 rosso e Matteo segnò una R sul foglio.
Mi guardò e, senza dire nulla, fece girare nuovamente la ruota.
La pallina si fermò sul numero 22.
Questa volta scrisse una N, proprio sotto la R.
Girò nuovamente.
Altro numero nero, il 28.
Avremmo vinto i nostri primi 10 euro
disse guardandomi con aria sodisfatta.
Matteo, spiegami velocemente dove vuoi arrivare, perché tra una trentina minuti devo essere a lavoro.
Il sistema è molto semplice: si tratta di puntare alla roulette su un’alternanza di rosso e nero, raddoppiando ogni volta la posta. È quasi impossibile che, in un ciclo di qualche ora, si verifichi per più di sette spin un’alternanza contraria a quella su cui stiamo scommettendo.
Quindi, tu ti presenti il 25 di agosto alle quattro del pomeriggio con una roulette giocattolo per parlarmi di una martingala? Cazzo, sei un genio
lo liquidai sorridendo e andando verso l’armadio per prendere il mio borsone.
Ascolta, Lucio. Sono diversi giorni che provo e riprovo simulando di partire da una posta base di 10 euro e, fino ad ora, il sistema sembra funzionare alla grande.
Con le martingala le persone si rovinano. A patto che abbiano abbastanza soldi per iniziarla, una martingala. Dai, Matteo, che devo andare al lavoro. Magari se ne riparla in un altro momento.
Si vedeva chiaramente che l’idea non mi aveva attratto e lui, che mi conosceva come le sue tasche, lo aveva immediatamente percepito.
Provò a convincermi della bontà del suo sistema, dicendomi che mi avrebbe inviato un foglio Excel sul quale aveva registrato tutte le giocate e le prove fatte nei giorni precedenti.
Lo vedevo sicuro di sé, ma una martingala così semplice e con una puntata base così alta non poteva che essere un suicidio.
Dopo esserci salutati, andai in bagno per darmi una sciacquata veloce, feci uscire Suri in giardino e andai al lavoro.
Capitolo 2
Quando arrivai al ristorante, Marco, il proprietario, era già fuori in veranda a sistemare i tavoli.
Abbiamo tante prenotazioni per stasera?
gli chiesi con il casco ancora in testa.
Tutto pieno
mi rispose con un sorriso raggiante.
Peccato
gli feci, passandogli a fianco mentre entravo nel locale.
Lui mi guardò e mi diede uno schiaffo sul casco così forte che battei i denti, mordendomi la lingua.
Mi metto in malattia per un mese
gridai accennando una corsetta verso lo stanzino dove andavo a cambiarmi.
Lavoravo in quel ristorante solo da qualche tempo, durante il periodo estivo che trascorrevo nella mia piccola cittadina al mare.
Ma da subito, con il proprietario e tutta la brigata, si era instaurato un ottimo rapporto, quasi di amicizia.
Mi mancava solo qualche esame alla laurea e, in attesa di trovare un lavoro vero, fare il cameriere mi consentiva di guadagnare qualche soldo per mantenermi da solo, chiedendo poco o nulla ai miei genitori.
Riuscivo a comprare le sigarette, andare in pista con la moto e pagarmi qualche torneo di poker, oltre alle restanti spese ordinarie.
Fin dall’adolescenza avevo sempre fatto il cameriere e, anche quando tornavo su a Milano per gli studi, ero in contatto con quattro o cinque locali che mi chiamavano a lavorare per il fine settimana, o in occasione di qualche evento particolare.
Il locale di Marco era spartano, completamente diverso dai ristoranti milanesi.
Non era uno di quelli che puntano ad attrarre i clienti con l'atmosfera, con l'arredamento, con la cucina a vista o una cantina di vini selezionati da visitare con la propria compagna prima della cena.
Era un posto semplice, dove si mangiava bene.
Le tovaglie erano a rombi bianchi e rossi e la maggior parte dei tavoli quadrati, per poter essere uniti o divisi velocemente a seconda delle prenotazioni.
In cucina non c'erano chef stellati, ma tutta la famiglia di Marco al gran completo, nessuno escluso.
Moglie, suocera, tre figli e il genero: quella era la brigata, a cui mi ero aggiunto più in qualità di figlio adottivo che di dipendente.
I clienti andavano da Marco per i piatti locali, cucinati in maniera tradizionale.
E per mangiare la pizza, una delle più buone che io abbia mai provato.
In mezzo alla sala c'era una stufa a pellets, che d'inverno riscaldava tutto l'ambiente e che restava lì anche in piena estate.
Quando avevo chiesto a Marco perché non la togliesse nei mesi più caldi, lui mi aveva risposto ironicamente: Secondo te se la togliessi farebbe più fresco?
Direi di no.
Allora, sta bene lì.
Ecco, questo era Marco.
Uno che parlava poco e che badava al sodo.
Uno che era sicuro di sé e a cui non interessava il giudizio degli altri. Uno che non si preoccupava delle tendenze o della moda.
Uno di quelli che, quando li vedi da fuori, non gli daresti un euro, ma dopo averli conosciuti, pagheresti tutto l’oro del mondo per essere come loro.
Quella serata fu abbastanza pesante: c’erano tanti piccoli tavoli da servire e i clienti erano arrivati alla spicciolata.
Finii di risistemare la sala verso mezzanotte e mi sedetti al bancone con Marco per la consueta birra di fine servizio.
Mi fanno male le gambe
gli dissi massaggiandomi i polpacci con un’espressione corrucciata.
Hai giocato a calcetto ieri?
mi rispose lui sorridendo e avvicinando il grosso boccale ghiacciato alle labbra.
Il lavoro non mi pesava fisicamente, ero abituato a quei ritmi.
O meglio, fare il cameriere era stancante, ma per me non era lo sforzo fisico la cosa peggiore.
Quello che non riuscivo a sopportare erano alcuni clienti, quelli che ti trattavano come il loro schiavo personale.
Era una cosa che non mi andava giù, ma dovevo e volevo superarla.
Era una sorta di sfida con me stesso, conoscendo il mio carattere.
Ogni volta mi ripetevo di essere al lavoro, che stavo interpretando un ruolo e che non dovevo metterci nulla di personale in ciò che stavo facendo.
Solo servire il cliente.
Simpatico, antipatico, educato o maleducato non cambiava nulla.
Credo di essere una persona buona e paziente, ma so anche che, quando il mio serbatoio si riempie, non riesco più a gestire con razionalità le mie emozioni.
Tante volte avrei voluto mandare a quel paese un avventore maleducato, ma non l’ho mai fatto.
La sfida era spingere la pazienza sempre oltre, dilatando ogni volta di più quel serbatoio che avevo dentro, evitando così di farlo scoppiare.
Finita la nostra birra andai a cambiarmi, salutai i colleghi e scesi nel parcheggio ad accendere la moto.
Mentre il motore si scaldava, chiamai Chiara: Ho finito ora, ti vengo a prendere?
Lucio, è già tardi. Non ho più voglia di uscire
rispose una voce assonnata dall’altro capo del telefono.
Passa da me, magari guardiamo un film
continuò.
Venti minuti e arrivo.
Fai piano, per strada in questi giorni è pieno di imbecilli.
Stai tranquilla
le risposi facendo schioccare un bacio sul microfono dell’interfono perché lo potesse sentire.
Quella sera guidai lentamente verso casa di Chiara, stiracchiandomi più volte perché avevo schiena e gambe intorpidite e doloranti.
Il ristorante era a circa trenta chilometri di distanza e ci misi più o meno venti minuti ad arrivare.
Faceva fresco, l’aria era piacevole.
Durante il tragitto, pensai che l’indomani avrei potuto dormire tutto il giorno.
Il ristorante, infatti, sarebbe stato chiuso per il turno di riposo settimanale.
In quel momento, improvvisamente, mi tornarono in mente Matteo e il suo sistema.
Non mi stupiva più di tanto che mi avesse fatto una proposta simile.
Fin dall’adolescenza eravamo appassionati di scommesse, tornei di poker e cose di questo genere.
Giocavamo sia online che nei circoli privati della nostra zona.
Il gioco era una delle nostre passioni, ma eravamo sempre riusciti a gestirlo con intelligenza, senza voler mai recuperare le somme perse e senza pensare davvero di poterci arricchire.
È vero, spesso avevamo fantasticato di svoltare, di vincere un sacco di soldi e sistemarci definitivamente.
Ma era sempre stata una fantasia, appunto.
Una di quelle che, dopo qualche birra, ti sembra quasi realizzabile, con un po’ di testa e tanta fortuna.
Ma pur sempre una fantasia.
Quello che mi aveva stupito, più che altro, era la semplicità del suo sistema, basato su una banale martingala.
Non credevo Matteo una persona superficiale, ma continuavo a pensare che, se fosse stato così facile guadagnare con un sistema basilare come quello, in molti ci avrebbero pensato prima di noi.
"Se si imbroccassero dieci alternanze vincenti, incassando mediamente al terzo giro, si vincerebbero 100 euro dopo trenta spin.
Circa quarantacinque minuti di gioco in un casinò reale e forse la metà del tempo in un casinò online" pensai mentre la brezza estiva entrava dalle feritoie del casco.
Calcolai al volo quanto avrebbe dovuto essere il budget a disposizione per coprire sette giocate: 1270 euro, partendo da una puntata base di 10 euro.
Le martingala sono un’arma suicida
continuavo a ripetermi.
Parcheggiai la moto sotto casa di Chiara che, sentendomi arrivare, mi venne incontro aprendo la porta della tavernetta.
Spegni, dormono tutti
mi disse facendomi cenno di entrare velocemente.
La raggiunsi sulla porta, mentre mi toglievo il casco.
Lei mi diede un bacio, stropicciandomi i capelli che mi si erano schiacciati sulla fronte.
Serata dura?
Si, tutto pieno. Sono stanchissimo.
Dovremmo aprire anche noi un ristorante
mi disse lei con l’aria di chi ti ha ripetuto centinaia di volte la stessa cosa.
Si, a Cuba però.
Chiara andò verso il frigorifero, prese due birre e le portò su un piccolo tavolino vicino al divano dove mi ero seduto.
A che pensi?
mi chiese sedendomisi a fianco.
Probabilmente ero ancora distratto dai pensieri fatti durante il tragitto e dai calcoli sul sistema di Matteo.
Chiara lo aveva notato immediatamente, come sempre.
A niente, sono solo distrutto.
Ci raccontammo la nostra giornata.
La mia non era stata troppo interessante: avevo dormito circa otto ore, lavorato quasi altrettanto e passato circa mezz’ora a guardare una roulette giocattolo girare sulla mia scrivania.
Chiara, invece, era stata al mare con le sue vecchie amiche,