Angelica la ragazza della Reggia
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Angelica la ragazza della Reggia - Giuseppe Palazzo
convinzioni.
Capitolo 1
Il Trasferimento (Torino 04/01/1996)
Quando Marco giunse alla stazione ferroviaria di Porta Nuova a Torino, erano da poco passate le nove del mattino, scese da quel treno stravolto, dopo un viaggio che gli sembrò non finire mai.
Era partito da Centuripe, in provincia di Enna, alle sedici del giorno prima, malgrado si fosse procurato una cuccetta per la notte, non riuscì a dormire. Troppi i pensieri che continuavano a passargli per la mente, saltando da uno all’altro, come fossero dei ballerini di danza contemporanea, sul palco di un teatro.
Torino non l’aveva mai vista prima, ne aveva solo sentito parlare, la conosceva come la città della Mole, della Fiat e della Juventus.
Appena uscito dalla stazione, si ritrovò di fronte Piazza Carlo Felice, una piazza con un grande giardino in mezzo, ma in quel momento, non prestò molta attenzione all’aspetto turistico della città, avrebbe avuto sicuramente modo di esplorarla in seguito.
Il suo unico pensiero, in quel momento, era di cercare la fermata del pullman che lo avrebbe portato verso la sua destinazione: Venaria, alle porte di Torino, dove suo zio lo attendeva.
Stava vivendo un periodo particolare della sua vita, alcuni aspetti non riusciva più a comprenderli, come il fatto che a ventisei anni non fosse ancora riuscito a concretizzare nulla nella sua vita, a partire da Simona, la sua fidanzata fin dai tempi delle scuole medie. Il loro rapporto si era inesorabilmente compromesso proprio nel momento in cui avevano deciso di compiere un passo importante, quello del matrimonio, anzi lui imputava proprio alle conseguenze che quella decisione aveva innescato, la causa che poi concretizzò la loro separazione.
La famiglia di Simona era troppo legata alle tradizioni e alle usanze del paese, per loro l’aspetto più importante era fare un matrimonio Come i cristiani
¹. Secondo la loro logica, bisognava organizzare una grandiosa cerimonia che avrebbe lasciato sgomenti gli invitati e i paesani, ma per riuscirci Marco avrebbe dovuto fortemente esporsi economicamente fino a indebitarsi, per sopperire in parte alle spese cui avrebbero dovuto far fronte; lui in realtà non sentiva la necessità di fare tutto questo solo per compiacere agli altri.
La cosa che lo aveva maggiormente colpito era stata come Simona si fosse schierata, anima e corpo, con i suoi genitori, il fatto che alla prima vera occasione per restare uniti, la donna che avrebbe voluto sposare decise di schierarsi contro di lui, la visse come una sorta di tradimento.
Marco non se la sentì di accettare tutto questo e decise di mandare a monte sia il matrimonio, che la relazione con Simona. Anziché soffrire di questo, come in un primo tempo aveva immaginato, si sentì per la prima volta in vita sua sé stesso, si sentì libero, padrone della sua vita.
Evidentemente l’amore che provava per Simona non era poi così grande come pensava. Questo valeva anche per lei, poiché offesa com’era con lui, non aveva fatto praticamente nulla per cercare di evitare quella separazione. Marco cominciò a pensare a cosa sarebbe potuta diventare la sua vita con una donna che badava più all’aspetto formale che all’amore e comprese che quell’intera vicenda non fosse stata un increscioso incidente di percorso, bensì una grazia ricevuta.
Questo era solo uno di quegli aspetti della sua vita che non comprendeva, ce n’erano altri ad angosciarlo, ad esempio non essere ancora riuscito a trovare lavoro, era cosciente del fatto che trovarne uno in Sicilia fosse molto difficile, ma non riusciva comunque a farsene una ragione. Si rese conto che il suo bel diploma, incorniciato in una cornice a giorno e appeso nella sua camera, anziché essere un’opportunità in più, era diventata un’occasione persa, perché la risposta che tutti gli davano, quando chiedeva lavoro, era che non aveva ancora nessuna esperienza lavorativa, pertanto non lo ritenevano idoneo.
Suo padre, in fondo, glielo aveva sempre detto:
«Nsigniti mmisteri»²; «Ca fossi t’aggiuva cchiossai»³, ma lui a quell’età, giustamente, si sentiva più ambizioso e scelse di studiare. Anche se all’atto pratico conseguì a fatica la maturità, terminato il liceo, decise di non proseguire più con gli studi, un po’ perché si rese conto che non eccelleva, e un po’ a causa delle condizioni di salute alquanto precarie del padre.
Cercarsi un lavoro per lui era diventato prioritario, pensava che forse avrebbe dovuto dare retta allo zio Antonio, il fratello del padre, che si era trasferito da giovane a Venaria, e continuava a dirgli: «Prendi tuo padre e venite su, così mi fate un po’ di compagnia e tu potresti cercarti qui un lavoro, qualche opportunità in più c’è rispetto a quelle del paese.»
Marco fino a quel momento non aveva mai preso in seria considerazione quella proposta, poiché era nato lì ed era lì che sarebbe voluto rimanere, si considerava un Centuripino, amava Centuripe, il balcone della Sicilia come la definì Garibaldi nel 1860.
Un’altra cosa che non riusciva più ad accettare, erano quei modelli di vita, così standard, prevedibili, quelli che gran parte dei suoi amici gli lasciava intravedere dalle loro vite, erano tutti diventati uguali.
Gli amici erano quelli di sempre, legami indissolubili, almeno così sembrava da ragazzi, ma con il passare degli anni, quasi tutte quelle amicizie si erano perse, molti si erano sposati, altri si erano allontanati perseguendo i propri doveri familiari, altri ancora si erano trasferiti al nord per cercare lavoro.
Ogni tanto in paese ne incrociava qualcuno, di quelli che si erano sposati, erano sempre di corsa, sembravano muzzicati da lapa,⁴ si divertiva molto a stuzzicarli e a sfotterli scherzosamente, gli diceva: «Vieni qua aspetta, fermati un momento, ma dove corri sempre? Prendiamoci un caffè.»
Si sentiva sempre rispondere con una scusa, del tipo: «Compare non posso devo tornare a casa, mia moglie mi aspetta, dobbiamo andare a fare la spesa. Ma uno di questi giorni organizziamo, solo noi amici, senza fimmini, dobbiamo fare un casino, ci divertiremo come ai vecchi tempi.»
Naturalmente Marco non ci credeva neanche un po’, ma si divertiva troppo a prenderli in giro e stava al loro gioco, anzi, ogni tanto gettava l’amo, tanto qualche pesce che abboccava alla sua trappola lo trovava sempre, e gli chiedeva: «Allora, va bene se organizziamo per questo sabato sera?»
«Sabato non posso, siamo a cena da mia suocera e quella chi la sente se non ci vado.»
Fra i suoi amici c’era anche Carlo, lui era sempre stato l’amico del cuore di Marco, erano coetanei, abitavano nella stessa via in paese, in pratica erano cresciuti insieme, lo considerava più come il fratello che non aveva mai avuto, piuttosto che il suo miglior amico.
Quando erano ragazzini l’unico obiettivo che entrambi avevano, era assolvere velocemente agli impegni domestici, come mangiare, lavarsi, aspettare che rientrasse il padre, o quelli scolastici, come fare i compiti, per poter finalmente avere il permesso di uscire, andare in strada a giocare insieme. Quella era vita, nel momento in cui correva per raggiungere l’abitazione del suo amico, Marco diventava il ritratto della felicità, si sentiva libero come un’aquila che volteggia nel cielo azzurro.
Ne avevano davvero combinate tante insieme, uno dei loro giochi preferiti era quello delle carrozze, si trattava di costruire dei rudimentali mezzi di trasporto fatti con il legno, che andavano a recuperare a destra e manca e quattro cuscinetti a sfera, che fungevano da ruote. Nel tempo, per riuscire a competere con l’agguerrita concorrenza degli altri ragazzini, perfezionarono sempre più i loro bolidi, aggiungendo la funzionalità delle ruote anteriori sterzanti per mezzo di un barra e del freno, particolare non di poco conto, visto le alte velocità che quelle carrozze riuscivano a raggiungere nelle lunghissime discese che il paese offriva, naturalmente non mancarono gli incidenti di percorso, come le ginocchia e i gomiti sbucciati, inevitabili in questo tipo di competizioni, le conseguenze a volte erano ancora più dolorose, come le botte che i genitori non lesinavano a elargire.
Crescendo, furono le ragazzine del paese ad attirare maggiormente la loro attenzione; Carlo aveva una casa in campagna, quando il padre gli dava il permesso di utilizzarla, organizzavano dei gran festini, trasformandola in discoteca, con tanto di Dj e luci colorate. Il massimo era quando il Dj metteva i brani di musica lenta, allora si poteva azzardare a invitare una delle ragazze a ballare. In quel posto magico fecero le loro prime esperienze affettive con l’altro sesso, che normalmente non andavano oltre a un appassionato bacio.
Fu proprio in una di queste feste che Carlo conobbe quella ragazza, che dopo qualche anno diventò sua moglie. Marco fu il loro testimone di nozze, era molto onorato di assolvere a quell’incarico, e sinceramente felice per il suo amico, anche se in cuor suo sapeva di aver perso un compagno di avventure. In realtà Carlo era stato sempre molto sincero, aveva detto a Marco che la sua vita sarebbe cambiata, sicuramente si sarebbero visti molto meno, ma lui restava il suo miglior amico, e sia lui che la sua famiglia ci sarebbero sempre stati. Ovviamente le occasioni di vedersi diminuirono parecchio, anche lui involontariamente era entrato nel vortice dei doveri coniugali.
Vedere come gli amici fossero cambiati, lo portò a riflettere su come in fondo fosse tutto così prevedibile, si chiese se anche lui sarebbe diventato così, se si fosse sposato con Simona.
A preoccuparlo maggiormente in quel momento erano le condizioni di salute del padre, nell’ultimo periodo era più il tempo che passava in ospedale che a casa, la situazione purtroppo si era aggravata e lui cominciava ad aspettarsi il peggio; d’altronde gli stessi medici non li incoraggiarono più di tanto.
Quando era ricoverato, tutti i giorni prendeva l’autobus per recarsi fino a Catania in ospedale per fargli visita, rimanergli accanto era l’unica cosa che potesse fare di concreto per lui, e fu quello che fece, finché il padre non esalò il suo ultimo respiro. Era un martedì, il 10 dicembre del 1995, una data che avrebbe tristemente ricordato per tutta la sua vita.
Il funerale si celebrò presso la chiesa dell’Immacolata, c’era mezzo paese a testimonianza della grande stima che la gente nutriva nei confronti della sua famiglia e del padre. C’era anche Simona, che abbracciandolo per porgergli le condoglianze, gli disse: «Permettimi di starti vicino in un momento così triste per te. Questo magari potrebbe servire a entrambi per chiarire il nostro rapporto.»
Pur apprezzando il gesto e le parole di Simona, non era nelle sue intenzioni riallacciare quel rapporto, dopo averla ringraziata per essere venuta e per le belle parole che gli aveva detto, le promise che ci avrebbe pensato.
A Natale, declinò il generoso invito, che Carlo gli fece pervenire, l’avrebbe voluto da loro per il pranzo del venticinque, Marco in quel momento non se la sentiva proprio di festeggiare, inoltre il Natale per tradizione si trascorre con i propri familiari, e lui la sua famiglia l’aveva persa; naturalmente apprezzò molto quel gesto e ringraziò di cuore Carlo e sua moglie.
Quell’anno, il giorno di Natale per lui fu un giorno come tutti gli altri.
Sentiva che nella sua vita era arrivato il momento di prendere delle decisioni, adesso non c’era più nulla che lo trattenesse lì. L’idea di trasferirsi dallo zio a Venaria cominciò a prendere forma e senso; oltretutto suo zio gli aveva detto di aver parlato recentemente con un suo amico, Massimo, che aveva una piccola attività commerciale. Dato che era in cerca di una persona di fiducia, aveva valutato positivamente l’ipotesi di intraprendere un rapporto lavorativo con lui, se si fosse trasferito al Nord.
Marco voleva dare una svolta, un segnale di cambiamento, e quella rappresentava un’ottima occasione, perciò lasciò passare le interminabili feste Natalizie e partì.
Quando arrivò alla fermata del pullman di Venaria, ad attenderlo c’era lo zio.
«Finalmente, eccoti arrivato nipote mio, sono stati giorni difficili per tutta la famiglia, ma ora che sei qui, mi sento già meglio, andiamo a casa sarai stanco.»
La casa dello zio si trovava proprio nella via Maestra del paese; si entrava da un grande portone in legno un po’ datato, e attraverso un cortile dal pavimento in pietra, tramite una scalinata, si accedeva al primo piano di una palazzina. Dopo aver percorso la lunga balconata, finalmente entrarono nell’appartamento, non era molto grande, ma ben sistemato.
Lo zio lo accompagnò nella sua nuova camera, era già tutto pronto, c’era un letto di generose dimensioni, un bell’armadio ampio, e un tavolo addobbato a scrivania.
Marco si sentì davvero il benvenuto in quella casa, percepiva quanto suo zio fosse felice del suo arrivo, dopo tanti anni di solitudine, era molto desideroso e felice di condividere con il nipote un pezzo della sua vita.
Anche Marco, per la prima volta dopo la morte del padre, rivide un po’ di luce, che gli lasciò intravedere l’uscita da quel tunnel in cui si era ritrovato.
Per lui, quella era davvero una bella opportunità per ricominciare o, per meglio dire, per ricostruire una nuova vita.
Nell’ultimo periodo al suo paese si sentiva soffocato da un modello di vita che a lui non interessava più perseguire, adesso voleva sentirsi libero, voleva essere sé stesso, anche se non aveva ancora le idee chiare di chi volesse diventare, ma sapeva bene cosa non voleva più essere.
Cercava di scrollarsi di dosso quegli stereotipi, il comportarsi in un certo modo solo per compiacere gli altri, dover fare le cose in un certo modo, solo perché tutti le facevano così.
Non riusciva a comprendere il motivo per cui, per essere accettato dalla società, bisognasse necessariamente seguire dei modelli standard, già predefiniti, ma da chi fossero stati definiti non era dato a sapere.
Non era più disposto a compiacere gli