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I Denti di Dio: L'ultimo italiano: una saga in tre parti, #1
I Denti di Dio: L'ultimo italiano: una saga in tre parti, #1
I Denti di Dio: L'ultimo italiano: una saga in tre parti, #1
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I Denti di Dio: L'ultimo italiano: una saga in tre parti, #1

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Libro Uno di "L’Ultimo Italiano: una Saga in Tre Parti"

Amore, gelosia, omicidio, vendetta, tutti ait tempi del colera. Poi i briganti attaccano!

I DENTI DI DIO (1882-1886)

Il ventiquattrenne Carlo Como va a pescare un giorno all’alba sull’ampio fiume vicino al suo villaggio dell’Italia settentrionale. Quella mattina Carlo tira su una preda ben differente: tre grandi pietre bianche conosciute come “i Denti di Dio”. Le pietre pregiate, molto apprezzate dai ceramisti locali, gli permetteranno di sposare la sua amata, Tonia Vacci, un’operaia nel tetro setificio della cittadina. Ma la scoperta di Carlo dà luogo a una catena di eventi fatali che influenzeranno se stesso e la sua famiglia per i decenni a venire.

Il fratello di Tonia, Ettore, è determinato ad avanzare nella vita con i propri meriti e lascia Castrubello. Con un socio irruento fonda un’impresa di costruzioni e si dirige a sud per realizzare la Strada Reale attraverso le montagne della Campania. Ettore ben presto si trova a dover rispettare una scadenza impossibile e combattere una banda di briganti tagliagole condotta dal leggendario Corsicano, che giura di fermare con la violenza lo sfrontato intruso che mette in pericolo il suo covo di montagna.

I DENTI DI DIO è l primo volume de “L’Ultimo Italiano: una Saga in Tre Parti” un racconto avvincente che inizia nell’Italia del 1882 e copre più di sessant’anni di tumulto sociale e politico. Tre generazioni delle famiglie Como e Vacci si trovano a fronteggiare proprietari terrieri rapaci, epidemie mortali, guerre tormentose, pericolosa emigrazione e brutalità fascista durante gli ultimi turbolenti sessantatré anni del Regno d’Italia. E in tutto questo tempo, mentre i personaggi cercano di mantenere l’equilibrio fra la dedizione all’amore, alla lealtà e onore e le esigenze implacabili della sopravvivenza fisica, il Fato è sempre in agguato per intervenire repentinamente.


 

LanguageItaliano
PublisherBadPress
Release dateNov 25, 2020
ISBN9781071558157
I Denti di Dio: L'ultimo italiano: una saga in tre parti, #1

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    I Denti di Dio - Anthony Delstretto

    I Denti di Dio

    Libro Uno di

    L’Ultimo Italiano: una Saga in Tre Parti

    Anthony Delstretto

    Traduzione di Mariarosa Ramponi 

    I Denti di Dio

    Autore Anthony Delstretto

    Copyright © 2020 Anthony Delstretto

    Tutti i diritti riservati

    Distribuito da Babelcube, Inc.

    www.babelcube.com

    Traduzione di Mariarosa Ramponi

    Babelcube Books e Babelcube sono marchi registrati Babelcube Inc.

    PRIMA PARTE

    ‘LE PIETRE’

    Capitolo 1

    7 giugno 1882 : Castrubello, Regno d’Italia

    L’acqua scura correva brillando come lucido argento al risveglio della luce sull’antico canale. Un altro giorno infuocato, pensò Carlo, guardando il cielo senza nubi. Il pescatore si mosse lateralmente scendendo la riva scoscesa del Naviglio Largo fino a trovarsi sulla banchina sotto il vecchio ponte di pietra.

    Il Ponte Spagnolo si ergeva su pali di sostegno piantati trecento anni prima da Filippo II di Spagna. Gli spagnoli se n’erano andati da tempo, rimpiazzati dagli austriaci, dai francesi, e di nuovo dagli austriaci. Le guerre d’indipendenza nazionale avevano finalmente cacciato le potenze straniere; il giovanissimo Regno d’Italia aveva appena vent’anni.

    La campata proteggeva un gruppo di lance da pesca spiaggiate sulla riva pendente e scivolosa. I battelli erano di poco pescaggio e stretti di scafo, di prua puntuta, di poppa piatta. La forma permetteva un’efficace navigazione sulle acque torrentizie del fiume Pirino, sulle secche e tra le rocce semi sommerse. Carlo aggiunse il forcone dal lungo manico agli strumenti già entro bordo, e sollevandola, spinse la barca nell’acqua.

    Sapeva che suo padre, suo fratello e suo cognato Vito sarebbero presto usciti a gettare le reti per i coregoni e le trote che abbondavano vicino al villaggio. E a una qualche ora della giornata anche lui sarebbe andato. Ma in quel momento la preda che inseguiva erano tre pietre.

    Carlo salì nella sua barca con una spinta finale. L’acqua era calma sotto i quattro archi del ponte. Fissò il singolo remo nell’incavo a poppa, poi si alzò e vogò avanti e indietro per allineare la barca. Appena il battello prese la leggera corrente, Carlo cominciò a disegnare un otto con il remo. Sulla riva vicina, vide le lavandaie di Castrubello che iniziavano la giornata di lavoro, come le loro madri e antenate avevano sempre fatto. Le donne erano inginocchiate su lastre di pietra, e estraevano camicie, lenzuola e biancheria da profondi cesti di vimini, strofinando poi ciascun indumento con un pezzo di sapone di lisciva, su rocce piatte incastonate sul bordo dell’acqua. Dopo una robusta strigliata e un risciacquo, strizzavano e battevano la biancheria sulle rocce con precisa – e accanita – ferocia.

    La caratteristica silhouette di Torquadrato incombeva mentre il ponte rimaneva indietro. Gli zoccoli di legno di centinaia di donne e ragazzi che arrivavano al grande setificio per i rispettivi turni scalpitavano sull’acciottolato. Il cibo era scarso per le famiglie del luogo; il lavoro era a buon mercato. Il setificio pagava le donne una lira ogni turno di tredici ore, i ragazzi un sacco di mais alla settimana.

    Gli austriaci originariamente avevano costruito la fortezza Torri Quadrate per imporre un dazio sul ponte e sui traffici del Naviglio. La mastodontica struttura quadrata con le sue quattro torri sovrastanti costituiva un punto di riferimento per miglia e miglia. I merli sui massicci spalti di pietra sporgevano come radi denti sopra la linea degli alberi lungo il canale.

    Tempo addietro un conte milanese aveva acquistato la proprietà, e il suo erede più recente si era infatuato di una visione. Aggiungendo illuminazione a gas, ciminiere a mattoni, e trecento macchinari importati, aveva trasformato l’edificio in una fabbrica di seta alimentata a vapore che sputava fumo e rumoreggiava dai telai in movimento in modo assordante. I crepitanti lumi a gas e una scarsa luce naturale mantenevano l’ambiente nella penombra. Grandi vasche di ferro in fila ribollivano sulle fornaci, uccidendo i bachi da seta al loro interno. Gli operai svolgevano i bozzoli ammorbiditi e avvolgevano le fibre attorcigliate in un filo di seta.

    Carlo si voltò per evitare la puzza. All’interno dell’edificio il fetore era ancor più terribile. L’unica ventilazione proveniva da quel poco d’aria che riusciva a passare dalle strette feritoie disegnate per i moschettieri austriaci. L’aria fetida puzzava di sudore, olio da motore, muffa, tinture e bachi che bollivano. In estate il calore intenso faceva regolarmente svenire gli operai.

    Come faceva ogni giorno, Carlo allungò il collo nel passare, sperando di vedere Tonia arrivare. Era più o meno l’ora in cui lei cominciava la lunga giornata di lavoro. Ma non riuscì a vederla fra le ombre ammantate di scialli che si affrettavano all’ingresso. Cercò di scacciare la sua delusione con un energico colpo di remo che fece scivolare la barchetta al centro del canale.

    Scavato per farne un fosso d’irrigazione sette secoli prima, allargato e reso più profondo con il progredire dei decenni, il Naviglio si estendeva dai grandi laghi del nord fino a Milano. Centinaia di chiatte usavano ogni giorno la via d’acqua per trasportare prodotti, passeggeri e sempre più merci di tutti i tipi.

    Il pescatore presto sterzò la prua del battello in un esile canale laterale che comunicava con il fiume Pirino più a est. Molto più ampio del Naviglio, il Pirino scorreva a sud dell’alpino Lago Maggiore nella grande vallata del Po. Non navigabile in molti punti per le imbarcazioni più grandi, esso permetteva ai pescatori, lungo la riva o nelle piccole barche, di pescare da millenni nelle sue ricche acque trote, anguille, coregoni, storioni e lucci.

    L’ampia distesa d’acqua rifletté il bagliore del sole, e Carlo tirò la tesa del suo cappello. Era sciocco agitarsi per non averla vista, si disse. Meglio concentrarsi su ciò che stava facendo lì in quel momento. Dopo tutto era per la sua Tonia che lo faceva.

    La mia Tonia si disse schernendosi. Non ancora sua.

    Lui e Tonia si erano osservati per qualche tempo: non c’erano sconosciuti fra i residenti di Castrubello. Lei era alta e sottile con sorprendenti occhi grigio blu e capelli chiari. La sua grazia leggera era evidente perfino quando andava al mercato con una cesta sulla testa. Forse proprio allora, pensava Carlo, ricordando il dondolio dei suoi fianchi.

    I suoi genitori erano i domestici della grande villa del marchese d’Ambrosso. La tenuta impiegava Tonia e suo fratello Ettore, l’ultimo degli otto fratelli che ancora vivevano a casa, come operai al setificio.

    Tonia a volte aiutava anche in cucina alla villa, e lui l’aveva vista l’ultima volta proprio lì tre settimane prima. A volte la casa padronale ordinava pesce fresco ai Como per il pranzo del marchese. Lorenzo, il padre di Carlo, lo aveva mandato alla villa a consegnarlo.

    Che pesci porti, Carlo Como? aveva domandato Tonia, asciugandosi le mani sulla porta.

    Oggi una bella partita di trote fresche aveva risposto, sollevando due secchi. Dove vuoi che le metta?

    aveva risposto lei, indicando il ceppo della carne.

    Sul ceppo della carne? aveva chiesto lui, come un cretino. Lei aveva annuito, spostandosi di lato. Lui aveva posato i secchi, guardato insù, si era schiarito la voce, contemplato i propri stivali e se n’era andato.

    Sul ceppo della carne? Ancora si vergognava delle stupide parole dette. Non esattamente poesia ispirata, pensò Carlo. Ma i loro sguardi erano rimasti intrecciati tutto il tempo, e un sorriso aleggiava sulle labbra di Tonia nel parlare. Lui aveva sentito il cuore balzare e un rimescolio nei lombi, e aveva compreso che si era innamorato. Bene, sposerò Tonia, aveva deciso lì per lì.

    Ma Carlo sapeva di dover offrire al padre di Tonia qualcosa di più che la sicurezza in sé stesso e un secchio di pesce. Aveva bisogno di due cose. I soldi per dimostrare che Tonia non sarebbe semplicemente passata da uno stato di estrema povertà ad un altro uguale. E doveva offrirle una casa all’interno di Casa Como.

    Cento anni prima, Antonio Como, nato vicino al grande lago omonimo, era uscito dalle fila dell’esercito asburgico e si era sistemato a Castrubello. Aveva comprato una piccola casa con la sua buonuscita, e si era messo al lavoro per mettere su famiglia.

    Negli anni a seguire, i Como estesero la costruzione originale edificando a singhiozzo alcune aggiunte. Il risultato fu un bizzarro rettangolo a due piani che circondava una corte interna aperta. Ora l’edificio ospitava Carlo, i suoi genitori, suo fratello Francesco con la famiglia, e sua sorella Rina con la sua. Carlo aveva per sé due camere d’angolo con un sottotetto. Non molto, ma Carlo era fiducioso di poter rendere lo spazio degno di una sposa.

    Tonia era figlia di un uomo povero. La sua dote sarebbe stata al massimo modesta. Per Carlo la dote non era importante, anche se naturalmente non avrebbe dovuto essere un insulto ai suoi genitori. Ma stava a Carlo offrirle sicurezza e una casa.

    Ed ora, con la sua sorprendente scoperta del giorno prima, forse i mezzi erano a portata di mano.

    I pescatori del Pirino tenevano istintivamente gli occhi aperti per trovare le pietre. Non soltanto quelle che potessero servire a verniciare a fuoco gli scafi delle loro barche. Tutti loro sapevano che i ceramisti apprezzavano molto alcune pietre di fiume grandi e di un bianco compatto che rotolavano nel fiume parecchie leghe dalle montagne. Tali pietre erano così bianche, così lisce al tatto e così difficili da trovare che la gente del posto le chiamava Denti di Dio[i].

    I ceramisti polverizzavano le pietre e fondevano la polvere per dare una magnifica smaltatura agli oggetti prodotti. Queste pietre rare venivano pagate bene. Si trovavano in strati sottili lungo alcuni tratti del letto del Pirino, adagiate fra migliaia di massi e rocce ordinarie. Anche se bianchissime, erano difficili da individuare perfino in acqua bassa. Trovarne anche una sola equivaleva a quasi un intero mese di pesca, addirittura trenta o quaranta lire. Una simile somma era un inatteso guadagno in un’epoca in cui cinquecento lire potevano sostenere una famiglia per un anno.

    Per tutta la settimana il fiume era stato una sfida per Carlo. Tutte le sere tornava a casa esausto dopo aver lottato contro le acque che si ingrossavano a causa dello scioglimento primaverile più a nord. I gelidi torrenti davano al Pirino una forza rude, tale da mangiarsi ampie porzioni delle rive. Il giorno prima, un masso inaspettato aveva forzato Carlo a virare bruscamente, e la prua della barca aveva sbattuto in ciò che credeva fosse la riva. Invece era passato attraverso una diga di detriti in uno stagno tranquillo. L’impennata l’aveva fatto strusciare sul fondo soffice lungo la riva scoscesa, liberando alcune rocce intrappolate e creando una mezzaluna non toccata dalla corrente. Mentre usava il remo per allontanare il battello da un tronco d’albero rovesciato, aveva guardato nell’acqua chiara ed era rimasto a bocca aperta. Lì, davanti ai suoi occhi, erano raggruppati tre dei grandi denti bianchi!

    Ma la luce del giorno si affievoliva, e lui non aveva attrezzi con sé. Dopo aver scrupolosamente annotato i punti di riferimento, aveva spinto via il battello dallo stagno per riprendere la corrente.

    Oggi avrebbe raccolto la sua pesca straordinaria. Costeggiò la riva est cercando il boschetto ceduo di quattro alberi che si era impresso in mente. Dopo alcuni falsi avvistamenti finalmente li scorse, le lunghe ombre protese sull’acqua. Carlo si fece di nuovo largo attraverso i detriti finché vide i suoi tre tesori, che lo aspettavano come uova giganti in un nido dal fondo di ciottoli. Remò di nuovo di lato e gettò le ancore di prua e di poppa, pesanti pietre piatte perforate da un anello di ferro. Appoggiandosi bene sulle ginocchia, Carlo prese il rastrello che aveva portato con sé, quello che usava per trascinare a riva i grossi storioni quando correvano via. Simili ai forconi che i contadini usavano per sollevare il grano appena falciato, la versione da fiume aveva un manico più lungo che si fletteva con il peso della preda. Si sporse sull’acqua verso il punto in cui i denti aspettavano di essere raccolti.

    La prima pietra pendeva in un declivio. Carlo girò il rastrello e cercò di far impigliare la pietra nei suoi lunghi denti. Dopo due inutili tentativi, sentì che i rebbi agganciavano il bordo della pietra, e riuscì a liberarla dalla bassa buca. Dragò sotto la pietra bianca, e poi sollevò e girò il rastrello inclinato fino ad adagiare con cura la massa sporgente nella barca.

    Sapeva di essere stato frettoloso nel primo tentativo, e si risolse di essere più paziente nel procedere. Di conseguenza la seconda pietra gli causò meno problemi. Usando l’antica tecnica dei pescatori di sassi del Pirino, fece leva con destrezza sotto la pietra sul letto del fiume, e attento a rimanere in equilibrio, liberò con cura il tesoro sommerso portandolo a bordo in modo fluido.

    Carlo bevve un po’ d’acqua dall’otre a poppa. Guardò il sole e si sorprese a vedere quanto fosse già alto. Due prese. Ora bisognava finire. Sollevando il rastrello e immergendolo, Carlo si volse all’ultima e più grossa pietra, grande quanto un'incudine piccola.

    Spinse i rebbi del rastrello sotto la pietra e sollevò. La pietra si inclinò un pochino mentre un lato si alzava, ma poi rotolò più lontano. In piedi, Carlo remò per avvicinare il battello a dove ora era la pietra. Questa volta spinse i rebbi completamente sotto di essa. Mentre la sollevava piano in superficie si sporse troppo in avanti. La grossa pietra rotonda rotolò via di nuovo sul fondo del fiume.

    Sangue dolce di Cristo! esclamò. La schiena gli si irrigidiva e gli avambracci gli bruciavano per lo sforzo. Accorciò la presa, e appoggiandosi indietro, sollevò il rastrello. Voltandosi, con estrema cautela portò il trofeo gocciolante in su e all’interno, e lo abbassò delicatamente accanto agli altri.

    Fissò quella manna e sollevò entrambe le braccia al cielo. I denti erano suoi!

    * * *

    Un improvviso calpestio di zoccoli e un nitrito risuonarono dalla riva. Ehi tu nella barca! Cos'è che hai laggiù?

    Intento a distribuire il peso delle pietre sulle doghe del fondo della barca – e distratto dai suoi sogni a occhi aperti – Carlo non aveva sentito nessuno avvicinarsi. Alzò gli occhi e vide due uomini a cavallo vicino alla riva, che lo guardavano dall'alto delle loro selle. I cavalli erano magnifici e ben strigliati, i musi nell'erba della macchia.

    Carlo conosceva l'uomo sul cavallo castano più piccolo dalle visite fatte alla Villa d'Ambrosso. Gaetano Baldassare, il fattore, era sulla quarantina, magro, con una faccia da segugio. Indossava un pastrano scuro e guanti, pantaloni da cavallerizzo marrone chiaro, alti stivali. E l'altro? Aveva il sole alle spalle, e il suo cavallo scartava nervosamente.

    Non vedi chi c'è qui, zoticone ignorante? abbaiò Baldassare. È il marchese d'Ambrosso in persona, mostragli rispetto! Carlo sollevò il cappello per ripararsi gli occhi.

    Era infatti il marchese. Conosciuto da tutti per essere un impenitente giocatore d'azzardo e uno scialacquatore, Federico Benedetto Lucantonio d'Ambrosso era il più recente prodotto di

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