Tra le braccia del mio migliore amico: Harmony Bianca
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Per questi due dottori la professione medica non è solo un lavoro, ma una vocazione. E il Vietnam il posto giusto per ricominciare a vivere.
Quando il chirurgo Nguyen Duc chiede alla sua migliore amica, l'infermiera Vivienne Kerr, di aiutarlo con la gestione dell'ospedale che i suoi genitori gli hanno lasciato a Hanoi, lei non esita nemmeno un attimo. Duc è quanto di più vicino a una famiglia Viv abbia mai avuto, e non ha alcuna intenzione di abbandonarlo proprio quando ha più bisogno di lei. Ma i sentimenti platonici che ha sempre nutrito per Duc piano piano si trasformano in un'attrazione intensa e irresistibile. Il suo tempo in Vietnam sta per scadere e ora sta a Viv decidere se restare nell'unico posto che abbia mai considerato casa... tra le braccia di Duc.
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Tra le braccia del mio migliore amico - Scarlet Wilson
successivo.
1
Lo squillo del telefono trafisse il buio della stanza.
Vivienne Kerr si divincolò dal groviglio di lenzuola che l'avvolgeva e cercò di dare un senso a quel rumore. Era reperibile? La chiamavano per un parto in casa?
Mentre cercava il cellulare sul comodino si ricordò che quella notte era di risposo. Aveva lavorato senza tregua per tre giorni di fila e adesso era finalmente libera.
Forse era già mattino. Aveva dormito più di ventiquattr'ore ed era in ritardo per il turno...
Guardò le lucine verdi della sveglia. Le tre e trentasette. Un tuffo al cuore. Non era in ritardo, e a quell'ora, di solito, arrivavano solo brutte notizie.
Prese il telefono e inspirò profondamente per farsi coraggio. Sperava che avessero sbagliato numero.
«Pronto?»
Per alcuni secondi non ci fu una vera e propria risposta.
Sentì i peli del braccio rizzarsi. Mise giù le gambe dal letto e balzò in piedi. Era vigile, in allerta.
Lo stomaco le si strinse.
«Pronto?» ripeté.
Udì un suono in lontananza. Non capiva se era stato un singhiozzo o un colpo di tosse.
«Viv» sentì dire dall'altro capo della linea.
La voce tacque, come se per pronunciare il suo nome avesse esaurito tutte le forze. Avrebbe riconosciuto quella voce ovunque.
«Duc?» Una sensazione di panico l'attanagliò. Il suo migliore amico. Dove stava lavorando ora? Washington? Philadelphia? Subito entrò in modalità operativa, esattamente come quando durante un parto andava storta ogni cosa.
In quei casi, era sempre lei a prendere in mano il comando.
«Duc? Cos'è successo? Dove sei? Tutto bene?»
La pazienza era già esaurita. Duc. Serrò le palpebre e le parve di rivedere i suoi indomabili capelli castani e i dolci occhi scuri. Duc. Si erano conosciuti in una clinica universitaria a Londra quando lei studiava per diventare ostetrica e lui medico. Nessuno avrebbe potuto immaginare che la giovane scozzese un po' pazzerella avrebbe legato con l'allegro e spiritoso ragazzo vietnamita.
L'aveva voluto il destino. Una specie di... magia.
A farli incontrare era stato un intervento di emergenza a cui partecipavano come osservatori. Si erano trovati davanti a una giovane madre con una placenta previa non diagnosticata. Nessuno dei due aveva alcuna esperienza di quel tipo. La paziente era stata colpita da un'emorragia rapidissima prima di dare alla luce un bambino livido. Sia Vivienne sia Duc si erano precipitati ai lati del letto, strizzando le sacche di sangue con la stessa velocità con cui il liquido rosso defluiva dalla povera donna. Era come se tutte le procedure lette sui libri fossero volate fuori dalla finestra nel tentativo di salvare madre e figlio.
Alla fine, la paziente era stata trasportata velocemente in sala operatoria e il bambino in terapia intensiva neonatale, e Duc e Vivienne erano rimasti nella stanza dove tutto, loro compresi, era sporco di sangue.
Vivienne aveva dovuto fare del proprio meglio per non lasciarsi andare. E ce l'aveva fatta. Quasi.
Fino a che non aveva raggiunto il locale disinfezione dove si gettavano via grembiuli e guanti. A quel punto aveva iniziato a piangere e a tremare. Un attimo dopo le braccia forti di Duc l'avevano stretta ai fianchi, e mentre le posava il capo sulla spalla, si era resa conto che anche lui tremava. Non le aveva detto nulla. Non le aveva chiesto se voleva che l'abbracciasse. L'aveva fatto e basta, ed erano rimasti così, tranquilli, per cinque minuti, a cementare la nuova amicizia.
E ora? La paura le chiuse lo stomaco. Duc non aveva risposto.
Davanti agli occhi le sfilarono i peggiori scenari. Stava male. Era ferito. Gli era accaduto qualcosa di terribile.
«Duc? Ti prego, dimmi qualcosa. Dove sei? Stai bene?»
«Ho... ho bisogno di te.»
Lei si mosse nella stanza guardandosi attorno. Strinse il telefono tra la spalla e l'orecchio e prese la valigia da sotto il mobile.
«Arrivo.» Non era mai stata così sicura di niente nella vita. «Dove sei? Cos'è successo?»
«Si tra tratta di... me va cha.»
Lei comprese subito quelle parole in vietnamita. «I tuoi genitori? Duc, cos'è successo?»
Un'altra morsa allo stomaco. Aveva conosciuto Khiem e Hoa. Erano una coppia deliziosa, due medici totalmente dediti agli ospedali che avevano fondato a Hanoi e in altre due zone del Vietnam.
Le orecchie le si colmarono di silenzio e il dolore le invase il petto.
«Duc» disse, barcollando, già in preda alla commozione. «No.»
Lo sentì inspirare profondamente. «Ho bisogno di te» mormorò. «C'è stato un incidente d'auto. Ho dovuto tornare a Hanoi. Non abbiamo ostetriche. Non ce la faccio, Viv. Ho bisogno di qualcuno vicino. Puoi venire?»
Mille domande le si affollarono nella testa. Sapeva che c'erano numerosi medici, bravi e affidabili, che lavoravano negli ospedali dei genitori di Duc. Khiem e Hoa erano sempre molto scrupolosi quando assumevano qualcuno. Ma sapeva anche che non era ciò che lui voleva sentirsi dire in quel momento.
Avrebbe dovuto dare un periodo di preavviso al suo datore di lavoro. Non le piaceva l'idea che la ritenessero una persona inaffidabile, ma quella era un'emergenza. Un'emergenza familiare, perché Duc era uno di famiglia.
«Mi organizzo e arrivo.» Iniziò a infilare alcuni vestiti nella valigia senza fare troppa attenzione. L'ultima volta che aveva parlato con Duc, alcune settimane prima, lui le era sembrato pieno di entusiasmo. Aveva iniziato un nuovo lavoro come borsista di chirurgia in una grande città negli Stati Uniti. Lei aveva provato un po' d'invidia sentendolo così su di giri. Duc era un ragazzo affascinante, cordiale e molto bravo come chirurgo. Avevano lavorato spesso insieme in passato e lei era sempre riuscita a cavalcare la sua onda. Duc era socievole ed estroverso e si faceva invitare a cena e alle feste da tutti. E se a quegli eventi mondani ci andava anche lei, lui le stava sempre vicino, come se si fosse reso conto che lei, invece, faceva fatica a fare amicizia.
«Grazie» le disse con voce gracchiante.
«Vado subito in aeroporto e prendo il primo volo per Hanoi. Ti scrivo appena so qualcosa.»
Avrebbe voluto poterlo abbracciare e stringere forte a sé. Avrebbe voluto inspirare il profumo del suo dopobarba. Detestava sapere che stava male.
«Duc?» sussurrò prima di agganciare. Si guardò il mignolo piegato della mano destra. Anni prima avevano condiviso quel gesto appreso in un film per ragazzi. Intrecciavano i mignoli pronunciando la frase Amici per sempre. Si passò la lingua sulle labbra. «Amici per sempre» disse con le lacrime agli occhi.
Per alcuni secondi non parlarono. Fu la voce di lui a rompere il silenzio. «Amici per sempre» ripeté prima che lei interrompesse la comunicazione.
2
Nonostante fosse partita da Londra tre giorni prima, Vivienne non era ancora arrivata a destinazione.
Queste cose accadevano solo a lei. Non aveva trovato un volo diretto per Hanoi e così era stata rimbalzata in giro per il mondo. C'erano stati ritardi, cancellazioni, guasti, e persino uno sciopero dei controllori di volo. Duc guardò l'orologio e poi di nuovo il tabellone degli arrivi dell'aeroporto. Ogni messaggio che vi scorreva sopra era sempre un po' più disperato del precedente.
Un ingombrante nodo allo stomaco gli impediva quasi di respirare. Avvertiva quel senso di tensione da quando gli era arrivata la notizia dell'incidente dei suoi genitori. A stento riusciva a ricordare la corsa fuori dal suo appartamento in affitto o il momento in cui si era imbarcato sul volo da Philadelphia a Hanoi. Quando finalmente aveva raggiunto il May Man Hospital, e Lien e suo marito lo avevano accolto, si era sentito completamente frastornato.
I riti e le tradizioni per il funerale erano durati parecchio. Davanti a lui si erano presentate così tante persone a fargli le condoglianze che si sentiva come se avesse indossato i tradizionali abiti bianchi per tre giorni di fila.
Nel frattempo, l'ospedale aveva dovuto continuare a funzionare. Il personale era affranto. I due medici che erano stati i loro capi e motivatori per tanti anni non c'erano più, e tutti guardavano lui con la disperazione negli occhi.
Si era sentito completamente esausto quando alla fine avevano seppellito suo padre e sua madre. In quel momento aveva desiderato solo riprendere l'aereo e dimenticare ogni cosa. Aveva trascorso l'ultima settimana a sperare che qualcuno lo prendesse da parte, gli desse un pizzicotto e gli dicesse che tutta quella storia era solo un brutto incubo. Ma non era stato così.
Si riscosse da quei pensieri appena intravide una persona muoversi tra la gente in attesa. Poi udì un suono. All'inizio una risata lieve, poi più profonda e squillante.
Il cuore gli balzò nel petto. Solo una persona rideva in quel modo.
Si alzò sulla punta dei piedi per scorgerla tra la folla.
Eccola. Vivienne chiacchierava animatamente con un anziano signore tenendolo sottobraccio. I suoi riccioli rossi le cadevano sulle spalle e indossava una camicia bianca annodata in vita e un paio di shorts di jeans sfilacciati che lasciavano scoperte le lunghe gambe. Assomigliava a Julia Roberts in Pretty Woman. Solo l'accento scozzese tradiva la somiglianza con la famosa attrice.
La gente si voltava a guardarla mentre camminava. La sua leggiadria non passava inosservata. Lì non c'erano molte donne che assomigliavano a Viv.
Duc la vide accompagnare l'uomo verso i suoi famigliari con disinvoltura, come se lo conoscesse da tutta una vita. Era in modalità crocerossina. La gente avrebbe potuto pensare che quei due erano nonno e nipote, e non una qualsiasi ragazza scozzese che aveva fatto amicizia con un anziano signore durante il volo. Duc non poté trattenere un sorriso, il primo dopo molti giorni.
La vide affidare il signore ai suoi famigliari, stringere loro la mano, e poi, dopo essersi guardata intorno, cogliere finalmente il suo sguardo.
Lei non esitò un istante. Il viso le si illuminò di colpo e lasciò cadere i bagagli per corrergli incontro. E quando lo raggiunse, gli saltò in braccio stringendogli le gambe intorno alla vita e affondandogli il viso nel collo.
Lui notò gli sguardi divertiti delle persone che aveva vicino. Di sicuro pensavano di assistere all'incontro di due innamorati. Ma Duc non sentì il bisogno di dare alcuna spiegazione. Voleva solo godersi il piacere di sentire Vivienne che lo abbracciava.
Chiuse gli occhi per un secondo e la tenne stretta a sé, lasciando che il calore del suo corpo s'irradiasse in lui. E che il famigliare profumo di fiori di arancio del suo shampoo gli travolgesse i sensi.
Per una frazione di secondo si ritrovò in un altro tempo. Un tempo in cui non aveva ricevuto quella maledetta telefonata proprio mentre stava entrando in sala operatoria. Un tempo in cui non aveva dovuto tornare per seppellire i suoi genitori, che aveva ritenuto irrealisticamente immortali. Un tempo in cui non si era accorto che i suoi progetti di carriera erano appesi a un filo, dovendosi ora occupare di mandare avanti gli ospedali fondati da suo padre e sua madre.
No. Adesso era dentro una bolla. Vivienne. Ciò che di più aveva desiderato in quegli ultimi giorni. Sicurezza, protezione, la possibilità di essere solo Duc e non il figlio devoto e coraggioso. Viv era lì. Lo avrebbe aiutato a mettere ogni cosa al suo posto e a tornare alla vita che desiderava davvero.
Scacciò le lacrime che gli inumidivano gli occhi. Aspettava da giorni di poter piangere. Di sentire la sua amica e sapere che sarebbe stata al suo fianco. Una parte di lui avrebbe voluto che potessero teletrasportarsi dall'aeroporto nella propria casa per rannicchiarsi insieme sul divano.
Si sentiva rigido e tutti i muscoli gli dolevano per la tensione di quei giorni. Aveva annuito così tante volte che ora lo faceva quasi in automatico. Aveva stretto la mano a moltissime persone, ma nessuna gli aveva offerto il conforto che avrebbe voluto ricevere.
Lei sollevò il capo, i suoi lucenti occhi azzurri erano a pochi centimetri dai suoi. «Puzzo» gli sussurrò. «Indosso gli stessi vestiti da tre giorni» dichiarò, scendendo di nuovo a terra.
La bolla era scoppiata.
«Io ho puzzato anche di più.» Le sorrise afferrando una delle valigie mentre lei lo prendeva sottobraccio.
Non appena furono usciti dall'aeroporto, il caldo umido di Hanoi li investì come un'onda di marea, e Viv iniziò a sventolarsi una mano davanti al viso. «Faceva così caldo anche l'ultima volta che siamo venuti?»
«Anche di