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La redenzione: II edizione
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La redenzione: II edizione

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Un avvincente racconto che ha origine in Istria, a Gimino, a partire dal 1905, e che vede protagoniste una donna e la propria figlia, in un contesto storico sempre più drammatico.
Dai territori della Venezia Giulia e Trieste lungo l’Italia fino in Puglia e a Roma, la difficile vita delle due donne si intreccerà con quella di una famiglia romana.
Il racconto dei protagonisti integrato alle vicende e ai personaggi storici realmente esistiti si saldano in un tutt’uno con il significato molteplice del termine “redenzione” nelle varie vicissitudini fino alla fine della storia.
I tragici scenari di Trieste, della Venezia Giulia e dell’Italia in una Europa in fiamme costituiscono la cornice del racconto, specialmente negli anni dal 1938 al 1954: le leggi razziali, le persecuzioni, l’occupazione nazista e jugoslava di Trieste, l’esodo giuliano-dalmata, le foibe, l’amministrazione anglo-americana di Trieste, la rivolta del 1953 di Trieste e il suo ritorno definitivo all’Italia nel 1954.
In un’Italia democratica e repubblicana che si stava riscattando e ricostruendo, la storia terminerà nel 1957 a Roma, dopo varie vicende che vedono i protagonisti del racconto affrontare le molteplici asperità delle loro vite.
LanguageItaliano
Release dateOct 30, 2023
ISBN9791220100991
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    La redenzione - Paolo Di Tora

    PREFAZIONE

    Mi congratulo e ringrazio a nome della città l’autore del libro La Redenzione con la Casa editrice che ha pubblicato questa opera per il servigio storico-culturale reso alla comunità.

    Trieste e i territori giuliano-dalmati nella prima parte del ‘900 del XX secolo furono i luoghi nei quali in uno sconvolgente avvicendarsi di fatti vennero perpetrate profonde ingiustizie e atti di inaudita ferocia.

    Per diversi decenni una cappa di oblio ha coperto la verità storica di quanto è accaduto in queste terre, squarciatasi solo in epoca recente, finalmente, grazie a ricerche, documentazioni storiche e ad iniziative letterarie come questa nel quadro di un mutato scenario geopolitico nazionale ed internazionale.

    Questo romanzo storico ha il merito di raccontare, attraverso la storia commovente ed umana di una donna e la propria figlia, il contesto storico di queste terre nel più ampio ambito nazionale ed internazionale, frutto di una ricerca storica dettagliata con riferimenti culturali inediti anche nel campo economico-finanziario.

    I tragici scenari di Trieste, della Venezia Giulia e dell’Italia in una Europa devastata, infatti, costituiscono la cornice del racconto specialmente dal 1938 al 1954: le leggi razziali, le persecuzioni, l’occupazione nazista e jugoslava di Trieste, l’esodo Giuliano Dalmata, le foibe, l’amministrazione anglo-americana di Trieste, la rivolta del 1953 di Trieste e il suo ritorno definitivo all’Italia nel 1954.

    In questa opera viene resa giustizia storica a tutti coloro che hanno subito in questi periodi tanto travagliati, vittime innocenti, somme ingiustizie senza dimenticare quelle già note all’opinione pubblica di matrice nazi-fascista.

    Il mio pensiero affettuoso è rivolto, tra gli altri, ai trecentocinquantamila esuli giuliano dalmati che, temendo per l’incolumità loro e dei propri cari, lasciarono tutto pur di rimanere italiani, senza dimenticare il ricordo doloroso per le migliaia di vittime e scomparsi degli eccidi delle foibe, dei cinque concittadini caduti nella manifestazione del 5 maggio 1945 e degli altri sei caduti nella rivolta del 1953 per l’italianità della città di Trieste.

    Il Sindaco di Trieste non può non ricordare, infine, con profonda ammirazione e commozione l’opera instancabile e importantissima svolta dall’allora vescovo di Trieste, mons. Antonio Santin.

    Ma, questo romanzo è anche l’occasione per una riflessione su alti valori e principi universali.

    Il libro che l’autore mi ha fatto dono riporta la dedica:

    La memoria storica definisce ciò che eravamo e ciò che siamo.

    Uno dei vari punti interessanti di questa opera è il racconto dei protagonisti del romanzo integrato alle vicende e ai personaggi storici realmente esistiti saldandosi in un tutt’uno con il significato molteplice del termine Redenzione che ne costituisce il titolo (tra cui, liberare da uno stato di oppressione, la salvezza della propria anima) nelle varie vicissitudini che portano alla strada verso la libertà.

    Opere letterarie come queste svolgono una importante funzione didattica nell’affrontare tematiche storiche di grande rilievo di cui si deve sempre salvaguardare la memoria, come accaduto di recente a Milano con l’inaugurazione del monumento a perenne ricordo delle vittime delle Foibe e dell’Esodo in piazza della Repubblica a cui ho partecipato.

    Oggi, Trieste è tornata ad essere crocevia ed esempio di convivenza fra diverse culture e sensibilità.

    Nel 2010 ho avuto il grande onore di ospitare da Sindaco di questa città il grande evento simbolico della presenza in piazza Unità d’Italia in un pubblico concerto dei tre Presidenti delle repubbliche italiana, slovena e croata.

    Nel luglio 2020, inoltre, ho avuto il privilegio di assistere ad un avvenimento storico altamente significativo, impensabile fino a qualche anno prima. Il nostro Presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, mano nella mano con l’omologo della Repubblica di Slovenia, Borut Pahor, rendono omaggio alle vittime alla foiba di Basovizza e in altri luoghi simbolici.

    Così deve essere nello sforzo di una memoria comune rispettosa delle varie sensibilità per guardare fiduciosi al futuro nell’ambito di una comune Patria europea e nell’auspicio di una nuova fioritura di iniziative politiche, economiche, sociali e culturali, sempre come luogo di pace, in questa città con profondo spirito d’italianità.

    Auspico che questa opera letteraria abbia la più ampia diffusione e che possa ispirare anche la produzione di opere cinematografiche e televisive.

    Trieste, novembre 2020

    Roberto Dipiazza

    SINDACO DI TRIESTE

    INTRODUZIONE

    In questo libro si narrano le vicende di due personaggi e di altri, con nomi di fantasia, in un contesto storico, sociale e ambientale, realmente accaduto.

    Il periodo storico rappresenta la cornice del racconto su luoghi e personalità che hanno costituito pezzi importanti di storia ancora poco noti all’opinione pubblica.

    Le vicende hanno come epicentro i territori della parte orientale italiana dall’inizio del Novecento al periodo successivo del secondo dopoguerra mondiale fino al 1957.

    Ma la storia dei due personaggi principali e degli altri relativi a questo racconto abbracciano quasi l’intero Paese: da est, partendo dall’Istria, fino alla Puglia passando per Roma. L’ambientazione non riguarda i ceti alti della società, che nel racconto si trovano sullo sfondo, bensì la società e i fatti storici visti e vissuti con gli occhi di chi appartiene al ceto sociale più basso della popolazione: dalla parte degli ultimi, come oggi sono chiamati. La Redenzione è il titolo attribuito a questa opera. Questo termine rappresenta vari significati tanto di carattere religioso quanto a livello civile, sociale e politico che ben riassume il contesto delle varie situazioni di questo racconto.

    Dal latino redemptio onis si intende redimĕre riscattare o liberare da uno stato di oppressione.

    Nella storia delle religioni il concetto di redenzione implica generalmente un’idea di liberazione da uno stato di impurità, di inferiorità e di sofferenza.

    Rappresentando il tema centrale di salvezza, esso simboleggia, anche, l’azione di redimere, il fatto di redimersi o di venire redento ed è usato generalmente per definire la lotta per la redenzione o liberazione di un popolo oppresso, delle classi diseredate e sfruttate.

    In questo racconto, tra i fatti storici realmente accaduti e i personaggi principali narrati, il significato di redenzione e liberazione ruota sempre attorno alle vicende in tutti i loro aspetti e implicazioni dall’inizio fino alla fine:

    • la liberazione da uno stato di oppressione in famiglia o a livello di popolo o Stato;

    • la liberazione da una forma di oppressione e inferiorità nel campo dei diritti civili, dall’imposizione all’uso di una lingua estranea o di un modo di vivere;

    • la purificazione dal peccato e la redenzione dal male compiuto e la salvezza per la propria anima;

    • la liberazione anche da uno stato di coartazione in forma legale dovuto alle particolari condizioni fisiche o psichiche.

    Infine, assume anche il significato di riscatto da una posizione sociale umile verso una legittima aspirazione al miglioramento del proprio tenore di vita che salvaguardi la propria dignità umana.

    Il senso del racconto tocca tutte queste tematiche, ma consente anche di apprendere e rileggere interi pezzi di storia dimenticati o mai raccontati per intere generazioni. Si racconta delle sofferenze e del riscatto del popolo italiano, macchiato dal periodo fascista e del ruolo delle istituzioni religiose dell’epoca, dell’opera di persone qualsiasi, silenti ma vere, ciascuna nell’ambito delle proprie possibilità.

    Eroi non sono solo i grandi statisti, i vincitori di battaglie o di competizioni sportive, ma anche le persone più umili che giorno dopo giorno vivono con responsabilità verso gli altri o i propri cari.

    Ecco i motivi per i quali questo racconto è singolarmente originale.

    Esso è la testimonianza inconsapevole di fatti storici rilevanti, vissuti, compresi o anche non compresi dal punto di vista degli ultimi, di persone troppo piccole per capire, da analfabeti, da persone indigenti che lottano per sopravvivere quotidianamente e che poca dimestichezza o istruzione possiedono per capire il motivo di ciò che stava accadendo loro intorno o, più semplicemente, perché impegnati a condurre la propria vita in un contesto oltremodo difficile.

    In una appendice al racconto, poi vengono inserite in una sorta di galleria fotografica alcune foto dell’epoca, tratte da collezioni private, che descrivono attraverso l’immagine il contesto ambientale, usi e costumi di quel periodo.

    Anche attraverso una immagine è possibile comprendere e rivivere quegli anni. Inoltre, è stato elaborato un lavoro, a sé stante, in allegato al racconto che descrive la cornice storica riguardante i fatti accaduti nell’arco temporale narrato e quello precedente per comprendere meglio le dinamiche storiche alla base degli eventi.

    In particolare viene fornita la cronologia storica dal 1938 fino all’occupazione di Trieste tra il 1943-1945, alla Crisi di Trieste e della Rivolta del 1953 e il ritorno di Trieste all’Italia del 1954.

    Il simbolo (*) rimanderà il tema del fatto narrato al contesto storico corrispondente descritto nell’allegato.

    Quest’ultimo ha esclusivamente una finalità di ricerca, documentazione didattica e culturale, per far conoscere e comprendere al lettore il contesto ambientale che influenza i fatti accaduti e le scelte compiute dai personaggi del racconto.

    In questa seconda edizione l’opera viene integrata, nella prima parte riguardante il romanzo, da nuovi particolari, approfondimenti sulle vicende e sui personaggi.

    Nella parte dell’allegato storico vengono aggiunti ed integrati capitoli per inquadrare compiutamente gli eventi storici, contemplando la relazione fra l’ultima parte del Risorgimento italiano e il movimento di opinione conosciuto storicamente come Irredentismo italiano.

    Inoltre, in una sorta di viaggio storico-culturale cittadino, vengono sommariamente descritti alcuni luoghi e vie di Trieste, teatro delle vicende romanzate, a completamento di quanto descritto nel racconto.

    Infine, viene fornita una sommaria biografia di vari principali patrioti, intellettuali e politici legati alle vicende giuliane tra il periodo del Risorgimento italiano e l’Irredentismo.

    Questa edizione viene impreziosita dalla presenza della prefazione del Sindaco e della postfazione del Vescovo di Trieste.

    La Redenzione è tutto questo.

    Paolo Di Tora

    Capitolo 1

    LA FUGA

    Trieste, venerdì 11 maggio 1945.

    Al mattino presto, una donna quarantenne, di altezza circa di 165 centimetri, dal volto tondo e guance paffute, con i capelli castano scuro, lisci e raccolti, è modestamente vestita e indossa un foulard di colore viola sulle spalle. In uno stato chiaramente di angoscia bussa al portone di un edificio situato in via dell’Istria, l’orfanotrofio San Giuseppe.

    Si tratta di un istituto caritatevole, gestito da un Ordine di suore con tonaca di colore nero, che ha la missione di ospitare ragazze i cui genitori non sono più in grado di mantenerle o, di profughi provenienti dalla Venezia Giulia, Istria, Fiume e Dalmazia. L’edificio, ben tenuto e organizzato con un parco interno, si trova adiacente al più noto ospedale pediatrico infantile Burlo Garofolo.

    Questa donna, Antonia Canzian, madre di Maria che è affidata all’istituto, chiede di parlare urgentemente alla madre superiora.

    Alla direttrice, lei manifesta con tono convinto, ma pieno di angoscia, di avere molta paura a rimanere ancora in città. Per questo motivo intende trasferirsi immediatamente in un luogo più sicuro: a Roma la città dove è il papa, vuole riavere, pertanto, la figlia per portarla con sé nella Capitale.

    La madre superiora, colpita e perplessa dalla richiesta, cerca di dissuaderla con ragionevoli argomentazioni come, ad esempio: la scuola, che rappresenta una sicurezza per la sua istruzione, non è ancora finita, la protezione, la stabilità e i pasti garantiti se fosse rimasta nell’istituto.

    Antonia, tuttavia, è irremovibile: «No, no... in città c’è molto pericolo, se dovesse capitarmi qualche cosa di male... io voglio essere sepolta a Roma dove c’è il papa».

    La suora di conseguenza fa chiamare Maria, di dieci anni di età, dai capelli lunghi e castani fermati dietro la nuca da un nastro bianco, che si trovava in quel momento in classe. La direttrice le spiega l’intenzione della madre di prenderla dall’istituto per andare a Roma. Rivolgendosi a lei e guardandola negli occhi, le chiede se è suo desiderio seguirla.

    Maria risponde: «Sì, se la mamma vuole andare a Roma, io voglio andare con lei».

    Alla fanciulla viene fatto presente che in quel modo avrebbe interrotto gli studi perché l’anno scolastico non era ancora finito.

    Ma, la bambina risponde convinta: «Non m’importa della scuola, io voglio andare dove va la mia mamma».

    Allora, la madre superiora chiama al telefono la zia Marianna, sorella di mamma Antonia, informandola della situazione – lei era già a conoscenza delle intenzioni della sorella – e le passa al telefono la nipote.

    La zia parla con la nipotina dicendo: «Ho saputo che vuoi andare con la mamma a Roma. Ma ti rendi conto che non hai finito ancora la scuola?».

    La bambina risponde: «Non m’importa, io voglio andare con lei».

    La zia, allora, tenta di dissuaderla: «Ma che ci vai a fare? Senza una casa, senza scuola, chissà dove e, Dio solo sa, con il rischio di chissà quali brutti incontri...».

    Allora indispettita risponde: «Io non voglio stare qui con gli s’ciavi titini!» – modo gergale dispregiativo con cui i triestini chiamano gli slavi del maresciallo jugoslavo Tito – «e, i co... muni... sti!» – lo pronuncia in modo molto incerto perché il termine, di cui ignora il significato, lo ha appreso dai discorsi degli adulti – «Io voglio andare a Roma, la capitale d’Italia!».

    Allora, la zia con tono alto e severo replica: «... e allora va, va pure, diventerai una stracciona e una zingara, come tua madre!», chiudendo bruscamente la telefonata.

    La direttrice a questo punto prende atto della situazione e dice a Maria di andare a prepararsi. Le suore la aiutano a vestirsi, a prendere le sue poche cose e con gioia le regalano, aiutandola a indossarlo, un bel cappottino leggero di colore beige con il collo e i polsi di velluto marrone.

    Mamma Antonia e Maria escono dall’istituto di via dell’Istria e s’incamminano per prendere il tram linea 1 che le porterà alla stazione. Antonia affronta il lungo viaggio con una valigia in mano da una parte e con una borsa e la mano della figlia nell’altra.

    Il clima di Trieste in quella mattinata, mentre attraversano il centro città, è cupo e le strade sono semideserte. Giunte alla fermata vicina alla stazione Centrale, percorrono la poca distanza che le separa da essa, entrano nella sala principale e subito si dirigono alla biglietteria dove la mamma compra il biglietto. Antonia poi con la figlia s’incammina subito verso la sala d’aspetto in attesa del treno. Giunto il momento di partire, escono dalla sala, raggiungono la banchina sul binario prestabilito segnato dal tabellone e salgono sulla carrozza di classe economica, la quale si presenta con posti a sedere piuttosto semplici, in legno. Maria, eccitata dalla partenza per il viaggio, si colloca vicino al finestrino per vedere il panorama all’esterno. Un forte fischio segnala la partenza del treno che inizia a muoversi, mentre si sente il classico rumore delle ruote attraversare le giunture dei binari ripetitivamente.

    Mamma Antonia si fa il segno della croce.

    Gli scenari iniziano a cambiare appena usciti dalla stazione e dalle costruzioni dell’area ferroviaria; la strada ferrata inizia a inerpicarsi leggermente, lasciando intravvedere non solo case, alberi e la collina carsica, ma anche il mare del golfo di Trieste. La bimba rimane con la faccia vicina al vetro del finestrino della carrozza, incuriosita nel vedere tutti gli scenari che si succedono.

    Il viaggio per Roma sarà molto lungo, ne è consapevole, e qui inizia – nella ritmicità costante del rumore del treno mentre percorre i binari uno dopo l’altro – gradualmente, anche il suo viaggio tra i ricordi di tanti anni addietro ripensando alla sua vita.

    Le memorie risalgono alla sua famiglia, ai primi anni della sua infanzia e al suo luogo di origine: Gimino, un paese dell’Istria a 15 chilometri a sud di Pisino.

    La sua economia si basa sull’agricoltura e sull’allevamento del bestiame.

    (*) Sono gli inizi del Novecento. In questo paese dell’Istria convivono persone di madrelingua croata in grande prevalenza rispetto a quelle di lingua italiana. Le aree della Venezia Giulia, Istria, Fiume e Dalmazia, tra l’inizio del XX secolo e dopo la Prima guerra mondiale, sono state teatro di complesse dinamiche socio-politiche: il riferimento è alla cosiddetta ‘‘vittoria mutilata, la questione politica legata ai territori promessi allo Stato italiano e da questo rivendicati nella Conferenza di pace, e all’avvento del fascismo in Italia con le politiche di italianizzazione" che condizioneranno molto gli avvenimenti storici in queste terre.

    La famiglia di Canzian Bartolomeo e Fosca Madrussan è proprietaria di vari terreni con bestiame, stimata nella zona e senza particolari problemi economici, di madrelingua croata. Antonia nasce il 16 gennaio 1905, secondogenita dopo un fratello, ha altre due sorelle più giovani, Fosca e Marianna.

    Neonata di pochi mesi, mentre i genitori si stavano recando con un carro alla Messa della domenica, dai sobborghi di Gimino verso la chiesa vicina, cade a terra dalle braccia della madre battendo la testa su una lastra di ghiaccio. Tale colpo non causa apparenti conseguenze dagli accertamenti che seguirono.

    Sin dall’età di quattro anni Antonia lavorava nelle attività agricole familiari e si dedicava alla pastorizia, come membro della famiglia doveva contribuire ai lavori rurali.

    I ricordi della fanciullezza la vedono portare al pascolo le pecore; ha una predilezione per alcune di esse, viene accompagnata da una cagnetta a cui vuole molto bene che la aiuta nella guida del gregge. Nei temporali estivi improvvisi si asciuga al sole distesa sul prato.

    Nel corso di questa sua prima fase della vita, dimostra un carattere indipendente e ribelle, ma anche dolce e pacifico, molto religioso e devoto alla Chiesa cattolica.

    Per tutta la vita rimarrà completamente analfabeta, ma con una forte memoria per i testi del Vangelo e delle preghiere anche in latino, appresi dai corsi di dottrina in chiesa e dalle funzioni religiose.

    In ogni circostanza di pericolo, anche piccolo, di timore, nei momenti di infelicità o di contrarietà dopo una discussione, era solita sempre farsi il segno della croce.

    Allo scoppio della Prima guerra mondiale il padre Bartolomeo viene arruolato nell’esercito dell’Impero austriaco.

    Dovendo partire per il fronte, lascia la guida dell’attività agricola e dell’allevamento alla moglie e al figlio maggiore.

    All’età di dieci anni rimane orfana di padre, caduto in guerra nel 1915.

    Allora, il comportamento del fratello, in generale dei maschi nell’ambito familiare, era sostanzialmente dispotico rispetto alle sorelle, mal sopportato in particolare da lei.

    Dopo la fine della guerra, la famiglia Canzian patisce anche la scomparsa della madre Fosca che muore di malattia nel 1923. Le redini della famiglia e delle attività, dunque, vengono assunte in toto dal fratello maggiore che ha raggiunto la maggiore età.

    Durante questo periodo della sua adolescenza, alla domenica solitamente andava alle feste rurali e di paese, che erano allietate con danze e balli da orchestrine paesane. Alla festa nota un giovane e, viceversa, il giovane nota lei – all’epoca, queste feste paesane erano la principale attrattiva e davano la possibilità di socializzare una volta alla settimana oltre alla Messa in chiesa – mentre suona il violino nell’orchestrina che intrattiene e ravviva le feste.

    Alla fine di agosto Gimino è teatro della festa di San Bartolomeo (Bartulja).

    La Bartulja giminese è la più grande e la più famosa sagra popolare dell’Istria con una tradizione che risale fin dai tempi antichi quando caratterizzava la festa di San Bortolo, ovvero il 24 agosto.

    Si celebrava la Messa nella chiesetta, situata all’entrata del paese, con la sagra popolare per le vie il cui compito era di radunare tutti i giminesi nel loro luogo natìo dopo il periodo dei pesanti lavori di mietitura nei campi.

    Quindi, il giovane violinista dell’orchestrina e Antonia cominciano a frequentarsi. Nasce un flirt che si spinge fino a un bacio, ma è destinato a finire quando a un’altra festa, diverso tempo dopo, lei vede il giovane baciarsi con una ragazza, conoscendo così le sue intenzioni e la verità: era già impegnato con quell’altra.

    La delusione d’amore è grande, aggravata anche dalla situazione familiare. Antonia, dopo essersi confidata con il sacerdote della chiesa nella quale si reca regolarmente, raggiunta la maggiore età, si convince a voler diventare suora.

    Si fa liquidare la parte di eredità dal fratello per avere la dote necessaria per l’ingresso al noviziato e, attraverso la lettera di presentazione del sacerdote della propria chiesa, entra così nel convento di Vukovar alla fine di gennaio del 1926.

    Per entrare come novizia, ha destinato tutto ciò che aveva al monastero. Qui la vita è austera: sacrifici, privazioni, lavori estremamente pesanti e umili, il tutto unito alla severità delle suore anziane.

    A seguito di tutto ciò, dopo qualche tempo, prende la decisione di rinunciare ai voti. Un giorno, mentre pulisce la non piccola quantità di padelle e stoviglie varie, improvvisamente buttando giù nel lavabo l’ennesima pentola da lavare, impreca: «Io non voglio fare questa vita».

    La madre superiora, anche in considerazione della dote versata non redimibile, per aiutarla a trovare un lavoro all’esterno, come domestica, scrive una lettera di presentazione indirizzandola a Pola presso una famiglia che conosceva di madrelingua croata, ma bilingue.

    Antonia si trasferisce a Pola alla fine dell’estate del 1926 – la città più importante dell’Istria – e viene assunta da quella famiglia di ceto sociale benestante, come domestica a tempo pieno. Conduce una vita di lavoro casa e chiesa durante la quale la sua religiosità rimane intatta anche dopo l’esperienza del convento.

    In questo periodo polesano impara a parlare in italiano, anche se non perfettamente, seguendo il suggerimento della famiglia presso cui lavorava, in considerazione dei tempi difficili che correvano in quelle terre per chi non era di madrelingua italiana. Antonia, pur avendo imparato a parlare la lingua italiana, si considererà sempre per tutta la sua vita come nativa di Gimino in Istria.

    Questo è un sentimento maturato spontaneamente in quanto lei non si interesserà mai di temi riguardanti la politica, ma solamente quelli di carattere religioso e personali.

    La scarsa cultura e il suo analfabetismo non le consentiranno di leggere giornali, riviste e libri, anche quando ne avrà la possibilità.

    (*) Dopo il 1926 con l’accentuarsi delle pressioni del regime fascista, un fenomeno migratorio riguardante sloveni e croati aumenta progressivamente in modo significativo.

    Uomini politici, di cultura, insegnanti, impiegati vengono indotti dal contesto sociopolitico a migrare altrove.

    I gerarchi fascisti constatavano che gli insegnanti e i preti sloveni, le loro associazioni culturali e tutto il resto, rappresentavano qualcosa di anacronistico e anomalo che non poteva essere tollerato in una regione annessa (o redenta).

    Le politiche di italianizzazione del regime fascista, introdotte in tutta Italia, sono particolarmente violente a partire dal 1927 nelle zone abitate, come si diceva allora, da popolazioni allogene in Istria, Fiume e Zara in Dalmazia, i territori del confine orientale entrati sotto l’amministrazione dello Stato italiano dopo la Prima guerra mondiale con il Trattato di Rapallo e accordi successivi.

    I contadini, invece, perdono le loro terre in quanto non sono in grado di restituire i prestiti con i dovuti interessi che hanno contratto per le attività lavorative e per sfamare le loro famiglie. La crisi economica internazionale e finanziaria europea si ripercuote anche in quei luoghi. Ma il contesto economico e sociale si aggrava ancor di più con lo scoppio di una crisi economico-finanziaria mondiale, causata dal crollo della Borsa di Wall Street negli Stati Uniti d’America, che inevitabilmente con un effetto domino provoca conseguenze in Italia e, dunque, anche a Pola e nell’Istria.

    Le ragazze contadine avranno come prospettiva di andare a lavorare come domestiche presso le famiglie benestanti in tutta l’Italia.

    I segretari del partito fascista delle province di confine, assumeranno decisioni fatali per le associazioni culturali e il resto delle attività sociali, riconducibili ad attività non italiane.

    Dopo il crollo azionario dell’autunno del 1929, tra la Grande Depressione mondiale incipiente che mette in crisi finanziaria anche la famiglia presso cui lavora e la sempre più violenta amministrazione fascista che rende il clima pesante in città nei confronti di chi non è percepito essere pienamente di origini o di lingua italiana, Antonia decide di andare via.

    Le era stato consigliato di partire, considerato il clima sociale pesante in quelle terre, e veniva, dunque, indirizzata con una lettera di presentazione presso dei conoscenti che vivevano a Gorizia.

    Prende, quindi, la sua valigia carica delle poche cose che ha e, attraverso la linea ferroviaria istriana, risale la penisola fino a Divaccia da cui con la ferrovia meridionale, attraversando la stazione di Opicina, situata nell’altipiano carsico triestino, si congiunge, infine, alla rete ferroviaria italiana per arrivare finalmente a Gorizia agli inizi del 1930.

    Situata dove s’incrociano vie transalpine, può essere considerata il primo centro importante, scendendo verso la penisola italiana per le valli dell’Isonzo e del Vipacco. Per la sua posizione e per la sua storia Gorizia è uno dei punti di congiunzione fra le culture romanze, slave e germaniche.

    Essa è molto vicina a Trieste che è il vero grande punto di riferimento dell’intera area: una sorta di capitale economica con il porto e i suoi traffici commerciali.

    Antonia si presenta alla famiglia goriziana che la assume anche come bambinaia: dovrà seguire due figli di sei e otto anni. Ma il compito le risulta da subito difficile, l’esuberanza dei piccoli, le incombenze connesse alle necessità quotidiane dei bambini, risultano molto onerose per il suo grado di preparazione; oltretutto, è una persona fondamentalmente dolce – quando non si trova nei suoi momenti umorali, particolarmente tesi, di cui soffriva per ragioni ignote sin da piccola – ma completamente analfabeta e non si sente adeguata ad assolvere il compito.

    Rimane a Gorizia per nove mesi, poi decide di rinunciare al lavoro perché l’esuberanza dei bambini è tale da non renderla serena e tranquilla.

    Per lei quell’incarico era di troppa responsabilità e rappresentava un costante pericolo di infortuni.

    Nell’autunno del 1930 la famiglia goriziana la indirizzerà presso conoscenti di Udine, – avevano saputo che erano alla ricerca di una domestica a tempo pieno – sempre tramite una lettera di presentazione. Quindi, si trasferisce nel capoluogo della regione storica del Friuli conducendo una vita tranquilla anche qui, tutta casa e chiesa.

    Nel 1931 Antonia nota un finanziere proveniente dalla

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