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Kull di Valusia
Kull di Valusia
Kull di Valusia
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Kull di Valusia

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About this ebook

Schiavo. Pirata. Fuorilegge. Gladiatore. Soldato. Re. È questa l’ascesa di Kull, Atlantideo di origine, al trono di Valusia. Monarca di un regno ormai in declino, governa e affronta con il pugno duro e il freddo acciaio tutti coloro che vogliono spodestarlo. Non immune alla violenza e ai suoi istinti barbarici, è inarrestabile in battaglia contro creature mostruose, stregoni, rettili giganteschi e negromanti fruitori di magia nera (dalle pagine di «Weird Tales Magazine»). Il volume contiene il ciclo completo di Re Kull, curato da Lin Carter.
 
LanguageItaliano
PublisherGM Libri
Release dateJul 29, 2020
ISBN9788855289139
Kull di Valusia

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    Kull di Valusia - R.E. Howard

    Prologo

    Del periodo storico che le cronache nemediane chiamano Pre-cataclisma, ben poco è noto: e quel poco riguarda l’epoca più tarda, ma anch’essa è velata dalle nebbie della leggenda. La storia conosciuta ha inizio con il tramonto delle civiltà precataclismiche, dominate dai regni di Kamelia, Valusia, Verulia, Grondar, Thule e Commoria. Questi popoli parlavano linguaggi simili, cosa che fa supporre un’origine comune. Esistettero altri regni, egualmente civili, ma abitati da razze diverse e presumibilmente più antiche.

    I barbari di quel periodo erano: i Pitti, che vivevano in isole remote nell’Oceano Occidentale; gli Atlantidi, che abitavano un piccolo continente compreso fra quello principale, Thuria, e le isole dei Pitti; e i Lemuriani, insediati in una serie di grandi isole nell’emisfero orientale.

    C’erano vaste estensioni di terre inesplorate. I regni civilizzati, anche se enormemente estesi, occupavano in proporzione una parte molto piccola dell’intero pianeta. Valusia era il regno più occidentale del continente thuriano; Grondar quello più orientale. A oriente di Grondar, il cui popolo era meno civile degli altri, si stendeva una distesa di terre selvagge e sterili. In quelle meno aride, nelle giungle e fra le montagne, vivevano qua e là clan e tribù di selvaggi primitivi. Molto a sud c’era una civiltà misteriosa, non connessa alla cultura thuriana, probabilmente di natura preumana. Nelle più lontane spiagge orientali del continente viveva un’altra razza umana, ma misteriosa e non thuriana, con la quale i Lemuriani avevano di tanto in tanto dei contatti. Questa razza forse proveniva da un continente tenebroso e senza nome che si trovava a oriente delle isole lemuriane.

    La civiltà thuriana era al tramonto; gli eserciti erano composti per la maggior parte da barbari mercenari. Pitti, Atlantidi e Lemuriani accedevano alle cariche di generali, statisti e spesso diventavano monarchi. Dei conflitti tra i regni e delle guerre fra Valusia e Commoria, così come delle conquiste che permisero agli Atlantidi di fondare un regno nel continente principale, restano più leggende che storia.

    L’Era Hyboriana

    Esilio da Atlantide

    Il sole era al tramonto. Un’ultima vampata scarlatta riempiva la regione e si stendeva come una corona di sangue sui picchi spruzzati di neve. I tre uomini che osservavano il morire del giorno assaporarono a fondo la fragranza del primo vento che giungeva dalle foreste lontane e poi si rivolsero a compiti meno elevati. Uno dei tre riprese a cucinare selvaggina su un piccolo fuoco; dopo aver tastato con un dito la carne fumante, l’assaggiò con aria d’intenditore.

    «Kull, Khor-nah: è pronto. Mettiamoci a mangiare.»

    L’uomo era giovane, poco più che un ragazzo; alto, con i fianchi stretti, le spalle ampie, si muoveva con la grazia di un leopardo. Dei due compagni, uno era anziano, ma possente, robusto, irsuto, con un volto aggressivo. L’altro assomigliava al primo, tranne per il fatto che era un po’ più massiccio: più alto, con un torace più ampio e spalle più larghe. Dava l’impressione, ancor più del giovane, di una velocità di movimenti celata sotto muscoli lunghi e piatti.

    «Bene» disse quest’ultimo. «Sono proprio affamato.»

    «E quando mai non sei affamato, Kull?» scherzò il più giovane.

    «Quando combatto» rispose Kull, tutto serio.

    L’altro lanciò una rapida occhiata al compagno, come per sondarne i più riposti pensieri: non era mai completamente sicuro del suo amico.

    «Anche allora, sei affamato di sangue» intervenne il più anziano. «Am-ra, piantala con gli scherzi e tagliaci un pezzo.»

    La notte scendeva e facevano capolino le stelle. Il vento del crepuscolo cominciò a soffiare sopra le montagne ammantate d’ombra. Lontano, una tigre ruggì all’improvviso. Khor-nah fece un gesto istintivo verso la lancia dalla punta di selce che aveva posato lì vicino. Kull girò il capo e un lampo strano gli brillò negli occhi grigi e freddi.

    «I fratelli dalla pelle a strisce sono a caccia, stanotte» disse.

    «Adorano la luna nascente» disse Am-ra, indicando l’Oriente, dove era apparsa una luminosità rossastra.

    «E perché poi?» chiese Kull. «La luna li rende visibili alle prede e ai nemici.»

    «Una volta, centinaia di anni fa» disse Khor-nah, «un re-tigre, inseguito dai cacciatori, invocò la donna della luna e lei gli lanciò giù una liana mediante la quale la tigre si arrampicò verso la salvezza e rimase sulla luna per molti anni. Da allora, tutto il popolo delle tigri adora la luna.»

    «Non ci credo» affermò Kull, testardo. «Perché il popolo delle tigri dovrebbe adorare la luna in ricordo dell’aiuto offerto a uno della loro razza morto ormai da tanti anni? Parecchie tigri si sono arrampicate sullo Strapiombo della Morte e sono sfuggite ai cacciatori, eppure non lo adorano affatto. Come potrebbero conoscere quel che è accaduto così tanti anni fa?»

    Le sopracciglia di Khor-nah si aggrottarono. «Non è giusto da parte tua, Kull, prendere in giro gli anziani o irridere le leggende del popolo che ti ha adottato. Quel racconto deve essere vero, perché è stato tramandato per generazioni, più di quante un uomo possa ricordare. Ciò che è sempre stato, deve sempre essere.»

    «Non ci credo» insistette Kull. «Queste montagne sono sempre esistite, eppure un giorno o l’altro crolleranno e scompariranno. Un giorno o l’altro il mare ricoprirà queste vette...»

    «Basta con queste eresie!» esclamò Khor-nah, con una veemenza molto vicina alla collera. «Kull, noi siamo molto amici, e io sono paziente, con te, perché sei giovane; ma una cosa devi imparare: il rispetto per la tradizione. Tu prendi in giro gli usi e le credenze della nostra gente e dimentichi che essa ti ha salvato dalla giungla e ti ha dato una casa e una tribù.»

    «Io ero una scimmia senza pelo che scorrazzava per i boschi» ammise Kull francamente e senza vergogna. «Non sapevo parlare la lingua degli uomini e i miei unici amici erano tigri e lupi. Non so chi fosse la mia gente o di che sangue...»

    «Non ha importanza» lo interruppe Khor-nah. «Anche se hai l’aspetto di uno della tribù fuorilegge che visse nella Valle delle Tigri e che fu spazzata via dalle Grandi Piogge, ha poca importanza. Ti sei dimostrato guerriero valoroso e grande cacciatore.»

    «Dove lo trovi un giovane che lo eguagli nello scagliare la lancia o nella lotta?» intervenne Am-ra, con gli occhi sfavillanti.

    «È vero» ammise Khor-nah. «Kull è motivo d’orgoglio per la Tribù della Scogliera, ma con tutto ciò deve imparare a controllare la lingua e a rispettare le cose sacre del passato e del presente.»

    «Io non prendo in giro niente» disse Kull, senza malizia. «Ma i sacerdoti dicono molte cose false: lo so, perché ho vagabondato assieme alle tigri e conosco le bestie selvagge meglio dei sacerdoti. Gli animali non sono né dei né demoni, ma a loro modo uomini, senza però la loro cupidigia e la loro bramosia.»

    «Ancora eresie!» sbottò Khor-nah con ira. «L’uomo è la più grande creazione di Valka.»

    Am-ra intervenne a cambiar discorso. «Ho sentito i tamburi della costa battere presto, stamattina. C’è guerra, sul mare. Valusia affronta i pirati del mare.»

    «Malasorte a tutt’e due» brontolò Khor-nah.

    Gli occhi di Kull tornarono a brillare. «Valusia! Terra di incanti! Un giorno o l’altro vedrò la Città delle Meraviglie.»

    «Sfortunato il giorno in cui la vedrai» ringhiò Khor-nah. «Sarai avvinto in catene, e ti aspetterà un destino di torture e morte. Nessun uomo della nostra razza visita la Grande Città se non in schiavitù.»

    «La malasorte la colpirà» mormorò Am-ra.

    «Sorte orribile e sanguinose sventure!» esclamò Khor-nah, agitando un pugno verso oriente. «Per ogni goccia di sangue atlantideo versato, per ogni schiavo incatenato nelle loro maledette galere, possa una pestilenza abbattersi su Valusia e tutti i Sette Imperi!»

    Am-ra, rosso d’ira, balzò in piedi e ripeté parte della maledizione; Kull si tagliò un’altra porzione di carne.

    «Ho combattuto contro i Valusiani» disse, «e sono ben addestrati, ma non difficili da uccidere. E non avevano nemmeno l’aria troppo malvagia.»

    «Tu hai combattuto contro la debole guarnigione della costa settentrionale» brontolò Khor-nah. «Oppure contro l’equipaggio in difficoltà di qualche nave mercantile. Aspetta fin quando avrai affrontano la carica degli Squadroni Neri o la Grande Armata, come ho fatto io! Ah! Allora sì che c’è sangue da bere! Assieme a Gandaro della Lancia ho saccheggiato le coste valusiane quando ero più giovane di te, Kull. Sì, abbiamo portato torcia e spada ben dentro l’impero. Cinquecento eravamo, tutti delle tribù costiere di Atlantide. In quattro siamo tornati! Fuori del villaggio dei Falchi, che avevamo bruciato e saccheggiato, fummo assaliti da un’ala degli Squadroni Neri. Ah, se le lance bevvero e le spade saziarono la sete! Uccidemmo e uccisero, ma quando il rombo della battaglia si smorzò, in quattro ci salvammo dal campo, e tutt’e quattro gravemente feriti.»

    «Ascalante mi ha detto» continuò Kull, «che le mura attorno alla Città di Cristallo sono dieci volte l’altezza di un uomo; che il luccichio dell’oro e dell’argento abbaglia gli occhi; e che le donne che si affollano per le strade o si sporgono dalle finestre indossano vesti strane e soffici che frusciano e scintillano.»

    «Ascalante dovrebbe saperlo» commentò Khor-nah, tetro, «visto che è stato schiavo in mezzo a loro per tanto tempo da dimenticarsi il suo bel nome atlantideo e dover conservare quello che i Valusiani gli hanno dato.»

    «Però è fuggito» notò Am-ra.

    «È vero, ma per ogni schiavo che scappa dagli artigli dei Sette Imperi, altri sette schiavi marciscono nelle prigioni sotterranee e muoiono ogni giorno, perché non è da Atlantidi attendere in schiavitù.»

    «Siamo stati nemici dei Sette Imperi fin dagli albori del tempo» commentò Am-ra.

    «E lo saremo finché il mondo andrà in rovina» disse Khor-nah, con gioia selvaggia. «Perché Atlantide, Valka sia ringraziato, è nemica di tutti gli uomini.»

    Am-ra si alzò, raccolse la lancia e si preparò a montare la guardia. Gli altri due si sdraiarono sull’erba e in breve presero sonno. Cosa sognò Khor-nah? Battaglie, forse, o il rombo del bufalo, o una ragazza delle caverne. E Kull...

    Attraverso le nebbie del sonno echeggiava debole e lontana la melodia dorata delle trombe. Nuvole di gloria radiosa fluttuavano su di lui; e poi nel sogno un panorama straordinario gli si schiudeva davanti. Una gran massa di gente si perdeva in lontananza, e da essa saliva un ruggito di tuono in una lingua insolita. C’era in sottofondo un clangore di acciaio; a sinistra e a destra, appena distinti, due eserciti grandiosi si controllavano a vicenda; la nebbia svaniva e un volto ardito si stagliava nettamente, un volto al di sopra del quale si librava la corona reale... un volto d’avvoltoio, privo di emozioni, immobile, con occhi grigi e freddi come il mare. E la massa tuonava ancora: «Viva il re! Viva il re! Kull il re!».

    Kull si destò con un sobbalzo: la luna splendeva sulle montagne lontane, il vento frusciava nell’erba alta. Khor-nah dormiva vicino a lui e Am-ra era sempre di guardia, come una nuda statua di bronzo contro le stelle. Kull considerò le vesti misere che lo coprivano: una pelle di leopardo stretta ai fianchi snelli. Un barbaro seminudo... i freddi occhi gli scintillarono. Kull il re! Si addormentò di nuovo.

    Si destarono all’alba e si avviarono in direzione delle caverne della tribù. Il sole non era ancora alto quando furono in vista dell’ampio fiume azzurro e delle caverne.

    «Guardate!» gridò Am-ra all’improvviso. «Hanno messo al rogo qualcuno!»

    Davanti alle caverne era stato eretto un pesante palo, al quale era legata una giovane ragazza. La gente che le stava attorno, con occhi duri, non mostrava segno di compassione.

    «Sareeta» disse Khor-nah, con il volto contratto in un’espressione spietata. «Ha sposato un pirata lemuriano, la svergognata.»

    «Sì» intervenne una vecchia dagli occhi di pietra. «Mia figlia. Così ha riempito di vergogna Atlantide. Ma non è più mia figlia! Il suo compagno è morto; lei è stata gettata a riva quando la loro nave fu affondata dagli abitanti di Atlantide.»

    Kull guardò la ragazza con commiserazione. Non riusciva a comprendere perché quella gente, della stessa razza e dello stesso sangue, si scagliava contro di lei, così, solo perché aveva scelto un nemico della sua razza? In tutti gli occhi puntati sulla sventurata non c’era traccia di simpatia; solo gli strani occhi azzurri di Am-ra erano tristi e pietosi.

    Nessuno può dire cosa riflettesse il volto di Kull. Ma gli occhi della ragazza condannata si fissarono su di lui: in essi non c’era paura, ma una richiesta intensa, impellente. Kull guardò le fascine ai piedi della ragazza. Presto il sacerdote, che ora, lì accanto, recitava una maledizione, le avrebbe incendiate con la torcia che reggeva nella sinistra. Kull osservò che la ragazza era legata al palo con una pesante catena di legno, di manifattura tipicamente atlantidea. Non avrebbe potuto tagliare quella catena, anche se fosse riuscito a raggiungere la ragazza attraverso la folla che gli sbarrava la strada. Gli occhi di lei lo imploravano. Kull lanciò un’occhiata alle fascine, tastò il lungo pugnale di pietra che portava alla cintola. La ragazza capì e fece un cenno di assenso, mentre una luce di sollievo le brillava negli occhi.

    Kull colpì all’improvviso come un cobra. Strappò il pugnale dalla cintola e lo scagliò. Esso arrivò a segno, appena sotto il seno, uccidendo la ragazza all’istante. Mentre la gente rimaneva a bocca aperta, Kull si girò e balzò via di corsa per il ripido pendio della scogliera, come un felino. La gente era come imbambolata, poi un uomo sollevò l’arco e traguardò con cura lungo l’asticciola levigata. Kull si inerpicava oltre il ciglio del burrone, l’arciere socchiuse gli occhi... e Am-ra, come per caso, gli andò a sbattere contro: la freccia sibilò a vuoto, molto distante. Intanto Kull era scomparso.

    Kull udiva le urla alle sue spalle; gli uomini della sua stessa tribù, bruciati dalla brama di sangue, impazzivano per corrergli dietro e ucciderlo perché aveva violato il loro consueto e sanguinoso codice morale. Ma nessun uomo di Atlantide correva più veloce di Kull della Tribù della Scogliera.

    Il Regno Fantasma

    1. Un re giunge a cavallo

    Lo squillo delle trombe diventò più profondo, come un’intensa marea dorata, come il rimbombo soffocato della risacca notturna contro le spiagge argentee di Valusia. La folla gridava e le donne gettavano rose dai tetti, mentre il ritmico scalpitio di zoccoli diventava più distinto e le prime file dell’imponente schieramento si presentavano nell’ampia strada bianca che girava attorno alla Torre dello Splendore e alle sue cupole dorate.

    Per primi avanzavano i trombettieri: giovani snelli, vestiti di rosso scarlatto, cavalcavano fra gli squilli delle trombe lunghe e dorate; quindi gli arcieri, montanari alti e massicci; poi la fanteria pesante, con gli ampi scudi che rimbombavano all’unisono e le lunghe lance che oscillavano ritmando perfettamente il passo.

    Dietro questi ultimi veniva il corpo militare più potente del mondo, le Guardie Rosse, a cavallo di magnifici animali, abbigliate di rosso dall’elmetto agli speroni. Sedevano orgogliosamente sulle cavalcature, senza guardare né a destra né a sinistra, ma consapevoli delle grida di applauso. Erano come statue di bronzo, e non c’era nemmeno un piccolo ondeggiamento nella foresta di lance che li sovrastava.

    Dietro questo corpo orgoglioso e terribile venivano i ranghi eterogenei dei mercenari, guerrieri fieri e selvaggi provenienti da Mu e Kaa-u, dalle montagne dell’Oriente e dalle isole dell’Occidente. Portavano una lancia e uno scudo pesante; leggermente staccati c’erano gli arcieri di Lemuria, poi la fanteria leggera della nazione, e ancora trombettieri che chiudevano la sfilata.

    Era una vista magnifica, una vista che provocava un brivido intenso nell’animo di Kull, Re di Valusia. Kull non stava seduto sul Trono di Topazio, di fronte alla Torre dello Splendore, ma sulla sella di un grande stallone, come un vero re guerriero.

    Sollevò un braccio possente in risposta al saluto, quando l’esercito gli sfilò davanti. I suoi occhi fieri degnarono gli sgargianti trombettieri di un’occhiata indifferente, e si fermarono più a lungo sull’esercito che seguiva; quegli occhi brillarono di luce feroce quando le Guardie Rosse gli si fermarono davanti con clangore di armi, facendo impennare i cavalli, e gli resero il saluto alla corona. Si strinsero leggermente quando passarono i mercenari. Non salutavano nessuno, questi ultimi: camminavano impettiti, guardando il re diritto negli occhi, anche se con un certo apprezzamento; avevano lo sguardo fiero, selvaggio, sotto le chiome irsute e le sopracciglia cespugliose.

    E Kull restituì loro lo sguardo. Lui concedeva molto ai coraggiosi, e non ce n’erano di più coraggiosi in tutto il mondo, neppure fra gli uomini della tribù che ormai l’aveva respinto. Ma Kull era troppo fiero per nutrire simpatia per loro. C’erano troppe lotte intestine. C’erano troppi antichi nemici nella nazione di Kull, e anche se il nome del re adesso era una parola maledetta fra le montagne e le valli della sua gente, e anche se Kull li aveva dimenticati, tuttavia i vecchi rancori e le antiche passioni duravano ancora. Perché Kull non era di Valusia, ma di Atlantide.

    Gli eserciti scomparvero alla vista dietro i bastioni rilucenti di gemme della Torre dello Splendore, e allora Kull mosse il suo stallone e si diresse lentamente verso il palazzo, commentando la sfilata con i comandanti che gli cavalcavano a fianco, senza sprecare troppe parole.

    «L’esercito è come una spada» si limitò a notare. «Non bisogna lasciarlo arrugginire.»

    E continuò a cavalcare, senza prestare attenzione ai mormorii che gli giungevano all’orecchio dalla folla che sciamava per la via.

    «Guarda: quello è Kull! Per Valka! Ma guarda che re! E che uomo! Guardagli le braccia! E le spalle!»

    E un sottofondo di mormorii più sinistri.

    «Kull! Ah, maledetto usurpatore, venuto dalle isole pagane... Sì, è una vergogna per Valusia che un barbaro sieda sul Trono dei Re...»

    Ma Kull non vi prestava attenzione. Si era impossessato del trono decadente dell’antica Valusia con mano di ferro, e con mano di ferro lo reggeva: un uomo solo contro tutta una nazione.

    Più tardi, nella Sala delle Udienze, Kull rispose alle formali frasi di omaggio dei nobili e delle dame, con un sinistro divertimento, celato con cura, per tutte quelle frivolezze; poi nobili e dame presero formale congedo, e Kull si abbandonò sul trono di ermellino per dedicarsi agli affari di stato, finché un assistente gli chiese il permesso di parlare e annunciò un emissario dell’ambasciata dei Pitti.

    Kull strappò i suoi pensieri dai labirinti della politica valusiana e guardò con poca simpatia l’emissario. L’uomo gli restituì lo sguardo senza batter ciglio. Era un guerriero di statura media, dai fianchi sottili e dal torace ampio, scuro come tutta la sua razza, e di costituzione robusta. Sui suoi lineamenti duri e immobili brillava uno sguardo intrepido e imperscrutabile.

    «Il Capo dei Consiglieri, Ka-nu, braccio destro del Re dei Pitti, invia i suoi saluti e dice: Alla festa della luna nascente c’è un trono per Kull, Re dei Re, Signore dei Signori, Imperatore di Valusia

    «Bene» rispose Kull. «Riferisci a Ka-nu il Saggio, ambasciatore delle Isole Occidentali, che il Re di Valusia dividerà il vino con lui quando la luna sarà alta sulle montagne di Zalgara.»

    L’emissario rimase immobile. «Ho ancora un messaggio per il Re, non...» e mosse la mano in un gesto di disprezzo, «non per questi schiavi.»

    Kull congedò i servitori con una parola, osservando il guerriero con prudenza.

    L’uomo si fece più vicino e abbassò la voce. «Venite da solo alla festa, stanotte, Maestà. Questo è il messaggio del mio Capo.»

    Gli occhi del re si socchiusero, brillando freddi come l’acciaio grigio di una lama.

    «Da solo?» chiese.

    «Sì.»

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