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La sconosciuta
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Ebook419 pages6 hours

La sconosciuta

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About this ebook

Un incontro casuale. Un atto di gentilezza. Un'intricata rete di menzogne. Heidi vede la ragazzina su un binario alla stazione, immobile sotto la poggia torrenziale, mentre stringe tra le braccia un neonato. La ragazzina sale su un treno e se ne va. Heidi non riesce a togliersi quella scena dalla testa...

Heidi Wood è sempre stata una donna dal cuore d'oro, ma la sua famiglia inorridisce quando un giorno torna a casa con Willow e la sua neonata di soli quattro mesi: trasandata e senza casa, la ragazzina potrebbe essere una criminale, o anche peggio. Tuttavia Heidi invita Willow e la bimba a restare...

A poco a poco, mentre Willow comincia a riprendersi, vengono alla luce inquietanti dettagli sul suo passato e così, quello che è iniziato semplicemente come un gesto gentile precipita sempre più velocemente verso l'abisso...

LanguageItaliano
Release dateJan 19, 2016
ISBN9788858949955
La sconosciuta

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    La sconosciuta - Mary Kubica

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    Pretty Baby

    Mira Books

    © 2015 Mary Kyrychenko

    Traduzione di Barbara Piccioli

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2015 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5894-995-5

    www.harlequinmondadori.it

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

    Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

    1

    HEIDI

    La prima volta che la vedo, è in piedi sulla banchina alla stazione metropolitana di Fullerton, e stringe fra le braccia un bambino molto piccolo. Pianta saldamente i piedi a terra quando l’espresso della linea viola passa ruggendo, diretto a Linden. È l’otto di aprile, la temperatura è sotto ai nove gradi e piove. La pioggia scroscia qui, là e dappertutto, il vento è furioso. Una giornata da dimenticare.

    La ragazza indossa un paio di jeans strappati all’altezza delle ginocchia. La giacca, di nylon leggero, è verde militare con il cappuccio. Niente ombrello. Affonda il mento nella giacca e guarda fisso davanti a sé mentre la pioggia la infradicia. Quelli che le passano accanto se ne stanno curvi sotto gli ombrelli, nessuno la invita a dividere il proprio. Il bambino, infilato nella giacca della madre come un cucciolo di canguro nel marsupio, tace. Ne vedo sbucare ciuffi di lana rosa e unta e io mi persuado che il lattante profondamente addormentato in mezzo a quella che a me sembra un’autentica bolgia – gelo fin nelle ossa, il suono rombante di un treno della rete L che passa sfrecciando – sia una femmina.

    La ragazza si tiene vicina una valigia antiquata di logora pelle marrone, e porta un paio di stivali con le stringhe, anche quelli completamente zuppi.

    Non può avere più di sedici anni.

    È magra. Denutrita, mi dico, ma forse la sua è solo magrezza. I vestiti le pendono addosso, i jeans le stanno larghi, la giacca è troppo grande.

    Un annuncio della Chicago Transit Authority segnala l’arrivo di un convoglio, ed ecco che un treno della linea marrone entra in stazione. Un gruppo di pendolari dell’ora di punta del mattino si affolla nell’interno caldo e asciutto, ma la ragazza non si muove. Esito un momento, perché avverto il bisogno di fare qualcosa, poi però salgo come gli altri-che-non-fanno-niente, e guardo fuori dal finestrino mentre le porte si chiudono e noi ci allontaniamo, lasciando la ragazza e la bambina sotto la pioggia.

    Ma lei resta con me tutto il giorno.

    Arrivo nel Loop, alla stazione metropolitana di Adams/Wabash, e lentamente esco, scendo le scale ed emergo nella strada inondata, nell’odore acre di fogna che aleggia agli angoli delle strade, dove i piccioni avanzano lenti in cerchi vacillanti, accanto a cassonetti dei rifiuti e senzatetto e milioni di residenti che sotto la pioggia corrono dal punto A al punto B.

    Quel giorno passo parecchio tempo – fra una riunione sull’alfabetizzazione della popolazione adulta, la preparazione al GED, il test di educazione generale, e le lezioni private a un uomo di Mumbai che studia l’inglese – a immaginare la ragazza e la bambina che sprecano buona parte della giornata sulla banchina, a guardare i treni L andare e venire. E invento storie. La bambina soffre di coliche e dorme solo in mezzo al movimento. Le vibrazioni dei treni in avvicinamento sono la chiave per farla dormire. L’ombrello della donna – lo immagino rosso fiammante, con vistose margherite gialle – le era stato strappato da una folata di vento e si era capovolto, come tendono a fare in giornate come questa, rompendosi. L’ombrello, la bambina, la valigia: più di quanto lei potesse trasportare con due braccia. E la valigia? Cosa c’era nella valigia di più importante di un ombrello in una giornata del genere? Forse la ragazza è stata lì tutto il giorno, in attesa. Forse aspettava un arrivo, non una partenza.

    O forse è saltata sulla linea rossa pochi secondi dopo che la marrone è scomparsa alla vista.

    Quella sera, quando torno a casa, lei non c’è. Non ne parlo a Chris perché so già cosa mi direbbe: chi se ne importa?.

    Aiuto Zoe a fare i compiti di matematica sedute al tavolo in cucina. Non sono sorpresa quando lei dice di odiare la matematica. Di questi tempi Zoe odia quasi tutto. Ha dodici anni. Non ne sono sicura, ma credo di rammentare che il mio periodo di odio indiscriminato sia iniziato molto più tardi: verso i sedici, diciassette anni. Ma oggigiorno tutto comincia prima. Io andavo all’asilo per giocare, per imparare l’alfabeto; Zoe è andata all’asilo per imparare a leggere, a diventare tecnologicamente più esperta di me. Maschi e femmine entrano precocemente nella pubertà, in certi casi fino a due anni prima rispetto alla mia generazione. I decenni hanno il cellulare; alcune bambine sviluppano già il seno.

    Chris cena e poi come sempre scompare nel suo studio, a esaminare noiosi fogli di calcolo che inducono al coma; finirà solo dopo che Zoe e io saremo andate a dormire.

    Il giorno dopo lei è di nuovo lì. La ragazza. E di nuovo piove. Solo la seconda settimana di aprile, e già i meteorologi prevedono piogge da record per tutto il mese. L’aprile più piovoso che sia mai stato registrato, dicono. Ieri, la stazione dell’aeroporto O’Hare ha riportato un centimetro e mezzo di pioggia in una sola giornata. L’acqua ha cominciato a insinuarsi nelle cantine, a raccogliersi nelle strade più basse della città. Alcuni voli sono arrivati in ritardo o sono stati cancellati. Aprile piovoso fa il maggio grazioso, ricordo a me stessa, infagottata in un giaccone impermeabile color crema. Ai piedi ho un paio di stivali di gomma in previsione del tragitto fino al lavoro.

    Lei porta gli stessi jeans strappati, la stessa giacca verde militare, gli stessi stivali con le stringhe. La vecchia valigia riposa lì accanto. Vedo che trema nell’aria gelida e che la bambina è agitata, irrequieta. Lei la fa saltare su e giù, e sulle sue labbra leggo: Shh. Sento parlare dietro di me delle donne che bevono caffè bollente protette da enormi ombrelli da golf: «Non avrebbe dovuto portare fuori quel povero bambino. In una giornata come questa?» sbuffa una. «Cosa c’è che non va in quella ragazza? Dov’è il berretto del piccolo?»

    Passa rombando l’espresso della linea porpora; quello della linea marrone entra in stazione e si ferma e quelli-che-non-fanno-niente sfilano all’interno come artefatti in movimento di una catena di montaggio.

    Ancora una volta indugio, con la voglia di fare qualcosa ma restia a sembrare offensiva o invadente. È molto sottile la linea fra l’essere utili e l’essere irrispettosi, ed è una linea che non voglio oltrepassare. Potrebbero essere milioni le ragioni per cui lei se ne sta lì con la sua valigia, tenendo la bambina sotto la pioggia, milioni di ragioni oltre a quella con cui si trastulla la mia mente: non ha una casa.

    Lavoro con persone spesso afflitte dall’indigenza, in gran parte immigrati. A Chicago, le statistiche sull’alfabetizzazione sono sconfortanti. Circa un terzo degli adulti ha un bassissimo livello di scolarizzazione, il che significa che non sono in grado di compilare i moduli per una richiesta di lavoro. Non sanno leggere le indicazioni stradali, né individuare la loro fermata lungo il percorso dei treni. Sono incapaci di aiutare i figli a fare i compiti.

    I volti della povertà sono lugubri: donne anziane raggomitolate a palla sulle panchine dei parchi, tutti i loro beni caricati su un carrello della spesa da cui non si separano mai, mentre frugano tra la spazzatura in cerca di qualcosa da mangiare; uomini addossati alle facciate dei grattacieli in pieno gennaio, che dormono accanto a un cartello: Aiutatemi, per favore. Ho fame. Dio vi benedica. Le vittime della povertà occupano alloggi al di sotto di qualunque standard di vivibilità, in quartieri pericolosi; nel migliore dei casi si nutrono in modo inadeguato e spesso soffrono la fame. Hanno scarso o nessun accesso ai servizi sanitari, alle vaccinazioni; i loro figli frequentano scuole sottofinanziate, sviluppano turbe comportamentali, assistono a episodi di violenza. Per loro è maggiore il rischio, fra le altre cose, di avere rapporti sessuali in giovane età, ed ecco che di conseguenza il ciclo ricomincia. Adolescenti mettono al mondo bambini sottopeso; privati delle cure mediche, i piccoli non vengono vaccinati e si ammalano. Torna la fame.

    La povertà, a Chicago, è più elevata fra i neri e gli ispanici, ma questo non esclude che una ragazza bianca possa essere povera. Tutto questo mi passa per la testa nella frazione di secondo in cui mi chiedo cosa fare. Aiutare la ragazza. Salire sul treno. Aiutare la ragazza. Salire sul treno. Aiutare la ragazza.

    Poi però, sorpresa, la vedo salire a bordo. Lo fa pochi secondi prima dell’annuncio... bing, bong, bong... le porte stanno per chiudersi, e io la seguo mentre mi domando dov’è che stiamo andando, la ragazza, la bambina e io.

    La carrozza è affollata. Un uomo si alza e le offre gentilmente il suo posto; lei accetta senza una parola, si cala sulla panca di metallo vicino a un tipo con l’aria del maneggione e un lungo soprabito nero, che guarda la bambina come se fosse arrivata da Marte. I passeggeri si perdono nelle consuete attività del pendolarismo, si attaccano ai cellulari, ai laptop, ad altri gadget tecnologici, leggono romanzi, quotidiani, la relazione da presentare quel giorno. Sorseggiano caffè e contemplano lo skyline fuori del finestrino, smarriti in quella lugubre giornata.

    Con cautela, la ragazza estrae la bambina dal marsupio, svolge la copertina di lana rosa e sotto di essa, miracolosamente, la piccola appare asciutta. Il treno corre sobbalzando verso la stazione di Armitage, quasi si libra alle spalle di fabbricati in mattoni e tre o quattro edifici di appartamenti, così vicini che non posso fare a meno di immaginare come vibrino al passaggio dei treni, i bicchieri che tintinnano nelle credenze, i televisori momentaneamente tacitati ogni pochi minuti durante il giorno e fino a tarda notte. Lasciamo Lincoln Park e ci dirigiamo verso Old Town, e da qualche parte lungo il tragitto la bambina si calma, le grida che si spengono in un sommesso piagnucolio, con evidente sollievo degli altri passeggeri.

    Io sono in piedi, costretta a stare più lontana di quanto vorrei dalla ragazza. Pronta ad affrontare l’imprevedibilità dei movimenti del convoglio, sbircio la neonata al di là di corpi e ventiquattrore: perfetta carnagione color avorio, ora chiazzata di rosso per via del pianto, le guance incavate della madre, una tutina Onesies bianca, il disperato e avido succhiare di un ciuccio, gli occhi vuoti. Passando, una donna dice: «Che bella bambina». La ragazza si costringe a sorridere.

    Sorridere non le viene naturale. La immagino accanto a Zoe e mi rendo conto che lei è più vecchia: il senso di disperazione nel suo sguardo, tanto per cominciare, la mancanza della nuda vulnerabilità di Zoe. E naturalmente c’è la bambina (mi sono convinta che secondo Zoe è ancora la cicogna a portare i bambini), benché accanto all’uomo d’affari la ragazza appaia piccola come una ragazzina. Ha un taglio di capelli asimmetrico: corti su un lato, lunghi fino alle spalle sull’altro. Sono di un marrone scialbo, come quello delle vecchie foto che ingialliscono col tempo, e ci sono tracce di rosso, ma non è quello il suo colore naturale. La pioggia ha sbavato il trucco scuro, pesante, ora quasi invisibile dietro la lunga frangia.

    Rallentiamo entrando nel Loop. Guardo la bambina che viene nuovamente avvolta nella copertina rosa e infilata all’interno della giacca di nylon, e mi preparo a vederle scendere. Ma la ragazza mi precede scendendo a State/Van Buren, e io non posso fare altro che osservarla dal finestrino, sforzandomi di non perderla di vista nel traffico che a quest’ora invade la città.

    La perdo comunque, ed ecco che non c’è più.

    2

    CHRIS

    «Com’è andata la giornata?» mi chiede Heidi quando entro in casa. Mi accolgono l’aroma troppo intenso del cumino, il suono del notiziario trasmesso dalla TV via cavo in soggiorno, lo stereo di Zoe in fondo al corridoio. Al notiziario: record di precipitazioni nel Midwest. Una catasta di oggetti umidi staziona in pianta stabile vicino alla porta d’ingresso: impermeabili e ombrelli e scarpe. Aggiungo il mio contributo, poi scrollo la testa, come un cane dopo il bagno. Entrando in cucina, pianto un bacio sulla guancia di Heidi, più per abitudine che altro.

    Lei è già in pigiama: di flanella a quadri rossi, i capelli castano ramati e naturalmente ondulati appiattiti dalla pioggia. Ha sostituito le lenti a contatto con gli occhiali. «Zoe, la cena è pronta!» grida, anche se fra la porta chiusa e il rumore assordante della musica di una qualche boy band, non c’è speranza che lei senta.

    «Cosa c’è per cena?» chiedo.

    «Chili. Zoe!»

    Adoro il chili, ma di questi tempi quello che prepara Heidi è vegetariano, pieno non solo di fagioli neri e fagioli rossi e ceci (e, a quanto pare, cumino), ma anche di quelli che lei chiama crumble vegetariani, per dare l’impressione che ci sia la carne senza la mucca. Dalla credenza prende i piatti fondi e comincia a riempirli di chili. Heidi non è vegetariana, ma da quando Zoe ha cominciato a strepitare sulla percentuale di grasso nella carne, due settimane fa, ha preso la decisione di rinunciare per qualche tempo ai prodotti animali. Da allora abbiamo mangiato polpettone di soia, spaghetti con polpette vegetariane e hamburger vegetariani. Ma niente carne.

    «Vado a chiamarla» mi offro, e imbocco l’angusto corridoio dell’appartamento. Busso alla porta e, con la benedizione di Zoe, metto dentro la testa per comunicarle che la cena è pronta e lei dice okay. È sdraiata sul letto a baldacchino, con in grembo un taccuino a fogli gialli, quello con le foto delle celebrità idolatrate dalle ragazzine, che ha strappato dalle riviste e incollato sulla copertina. Lo chiude di scatto appena entro e cerca a tentoni le schede di studi sociali, che giacciono ignorate accanto a lei.

    Non accenno al chili vegetariano. Inciampo nella gatta e mentre vado verso camera nostra, mi sciolgo la cravatta.

    Poco dopo siamo seduti al tavolo in cucina, e ancora una volta Heidi mi chiede: «Com’è andata la giornata?».

    «Bene» rispondo. «E la tua?»

    «Odio i fagioli» annuncia Zoe mentre prende una cucchiaiata di chili e quindi lo lascia sgocciolare di nuovo nel piatto. In soggiorno il televisore è acceso senza volume, ma i nostri occhi continuano a spostarsi in quella direzione, nel tentativo di leggere il labiale del conduttore del notiziario. Zoe si accascia sulla sedia, rifiutandosi di mangiare. È il clone di Heidi, dal viso rotondo fino ai capelli ondulati e gli occhi castani; sono simili in tutto e per tutto, compresi l’arco di cupido del labbro superiore e la spruzzata di lentiggini sul nasino a patata.

    «Cos’hai fatto?» chiede ancora Heidi, e internamente io sussulto. Non sono per nulla desideroso di rivivere la giornata e i suoi racconti – profughi sudanesi in cerca di asilo e uomini adulti analfabeti – sono deprimenti. Ho voglia soltanto di decifrare in silenzio le notizie della sera.

    Tuttavia le parlo della revisione di un potenziale investimento, di aver redatto un contratto di acquisto e di una conferenza telefonica a un’ora ridicolmente mattiniera con un cliente di Hong Kong. Alle tre del mattino sono scivolato fuori dal letto e mi sono infilato in studio per rispondere alla chiamata, dopo di che ho fatto una doccia e sono uscito per andare al lavoro, molto prima che Heidi o Zoe aprissero un occhio.

    «Parto domattina per San Francisco» le ricordo. Lei annuisce. «Lo so. Quanto starai via?»

    «Una notte.»

    Poi le domando a mia volta della sua giornata e Heidi mi parla di un ragazzo emigrato dall’India sei mesi fa. Viveva negli slum di Mumbai, per la precisione a Dharavi, uno degli slum più grandi del mondo, dove guadagnava meno di due dollari al giorno. Racconta dei loro bagni, che erano pochi e distanti, così che gli abitanti del ghetto usavano il fiume. Heidi sta aiutando il giovane indiano, che chiama Aakar, a imparare la grammatica inglese, e non è facile. Mi rammenta: «L’inglese è una lingua complicata da imparare».

    Rispondo che lo so.

    Mia moglie è un cuore tenero. Una caratteristica assolutamente adorabile quando le ho chiesto di sposarmi, ma ora, dopo quattordici anni di matrimonio, le parole immigrato e profugo toccano in me un nervo scoperto, di solito perché sono sicuro che è più interessata al loro benessere che al mio.

    «E tu, Zoe?» chiede lei. «Com’è stata la tua giornata?»

    «Una stronzata» mugugna Zoe, che sta fissando il chili come se fosse cibo per cani. Rido fra me e me. Uno di noi, almeno, è sincero. Voglio cambiare la mia risposta. Anche la mia giornata è stata una stronzata.

    «Una stronzata, in che senso?» vuole sapere Heidi. Mi piace quando usa quella parola. La sua mancanza di naturalezza è comica. E poi: «Il chili non va bene? Troppo caldo?».

    «Te l’ho detto. Odio i fagioli.»

    Cinque anni fa, Heidi le avrebbe ricordato i bambini che morivano di fame in India, in Sierra Leone, o nel Burundi. Ma di questi tempi convincere Zoe a mangiare qualsiasi cosa è un successo di per sé. Odia tutto, oppure dice che è pieno di grasso, proprio come la carne. Così mangiamo crumble vegetariano.

    Dai recessi della ventiquattrore, appoggiata sul pavimento vicino alla porta, il mio cellulare comincia a squillare, e sia Heidi sia Zoe si voltano a guardarmi, chiedendosi se nel mezzo della cena andrò a rintanarmi nello studio, la terza camera da letto che è stata trasformata quando è risultato evidente che non ci sarebbero stati altri figli per Heidi e me. A volte, quando siamo insieme nello studio, la sorprendo ancora a contemplare i mobili da ufficio, la scrivania e le librerie e la mia sedia di pelle, mentre immagina qualcosa di completamente diverso, una culla e un fasciatoio, e le immagini di allegri animali esotici allineate lungo le pareti.

    Heidi ha sempre desiderato una famiglia numerosa. Le cose, semplicemente, non sono andate così.

    È raro che riusciamo a cenare senza che l’odioso trillo del mio cellulare ci interrompa. A seconda delle sere, del mio umore o, ancora più importante, di quello di Heidi, o ancora di qualunque emergenza si sia verificata quel giorno, posso o meno rispondere. Stasera mi caccio in bocca una cucchiaiata di chili, a esprimere la mia indisponibilità, e Heidi sorride con dolcezza, un sorriso che io interpreto come un grazie. Heidi ha un sorriso dolcissimo, delizioso. È un sorriso che nasce da dentro, non solo una smorfia di quelle labbra con l’arco di cupido.

    Quando sorride, ripenso al nostro primo incontro, a un ballo di beneficenza in città, lei avviluppata in un abito vintage di tulle, senza spalline. Era un’opera d’arte. Un capolavoro. Frequentava ancora il college, interna nell’associazione non-profit dove ora fa tutto tranne dirigerla. Ai tempi in cui passare la notte in bianco non era un problema, e quattro ore di sonno equivalevano per me a una buona notte. Ai tempi in cui trent’anni sembravano un’età da vecchi, così vecchi, anzi, che non pensavo mai come sarebbe stato averne trentanove.

    Heidi pensa che lavori troppo. Per me, settanta ore alla settimana sono la norma. Ci sono notti in cui non rincaso prima delle due; ce ne sono altre in cui torno a casa, ma resto chiuso nello studio fino al levar del sole. Il mio telefono suona di giorno e di notte, come se fossi un medico di turno e non qualcuno che tratta fusioni e acquisizioni. Ma Heidi lavora in un’organizzazione non-profit; solo uno di noi guadagna quanto basta per pagare un appartamento in condominio a Lincoln Park, per coprire le spese della costosa scuola privata di Zoe e mettere da parte il denaro per il college.

    Il cellulare smette di suonare e Heidi si rivolge a Zoe. Vuole sapere di più della sua giornata.

    Viene fuori che la signora Peters, l’insegnante di scienze di settima, non c’era e la supplente era... Zoe si interrompe, pensa a un aggettivo più adeguato di quello radicato nel suo cervello da preadolescente disadattata... «una perfetta scocciatrice.»

    «Perché?» domanda Heidi.

    Zoe evita il contatto visivo, fissa il piatto. «Non lo so. Era così e basta.»

    Heidi beve un sorso d’acqua, le pianta addosso i suoi grandi occhi inquisitori. Gli stessi che ha posato su di me quando ho raccontato dell’appuntamento telefonico alle tre del mattino. «Era cattiva?»

    «Non proprio.»

    «Troppo severa?»

    «No.»

    «Troppo... brutta?» butto lì per alleggerire l’atmosfera. A volte Heidi ha bisogno di esagerare. Si è convinta che essere un genitore partecipe (e con questo intendo iperpartecipe) farà sì che Zoe si senta amata mentre fa il suo ingresso in quelli che lei chiama i tumultuosi anni dell’adolescenza. Quello che io ricordo dei miei tumultuosi anni dell’adolescenza era il bisogno di fuggire dai miei genitori. Se mi seguivano, io correvo più forte. Ma Heidi ha preso dei libri dalla biblioteca: testi di psicologia sullo sviluppo infantile, su come essere genitori amorevoli, sui segreti per avere una famiglia felice. È decisa a fare le cose nel modo migliore.

    Zoe ridacchia. Quando lo fa, e non capita spesso, ha di nuovo sei anni, puro oro a ventiquattro carati. «No» risponde.

    «Solo una scocciatrice, allora? Un’odiosa vecchia scocciatrice» suggerisco. Spingo da parte i fagioli neri e cerco qualcos’altro. Un pomodoro. Mais. Una caccia al tesoro nel chili. Evito i crumble vegetariani.

    «Sì. Credo.»

    «Che altro?» chiede ancora Heidi.

    «Huh?» Zoe porta una maglietta di tessuto tinto a nodi con le parole pace e amore in rosa carico. La T-shirt è coperta di paillettes. Ha legato i capelli in una coda di cavallo che la fa sembrare troppo sofisticata per l’apparecchio che deve correggere i denti disordinati. Il braccio sinistro è pieno di disegni: il simbolo della pace, il suo nome, un cuore. Il nome Austin.

    Austin?

    «Che altro faceva schifo?» insiste Heidi.

    Chi diavolo è Austin?

    «A pranzo Taylor ha rovesciato il latte. Sul mio libro di matematica.»

    «È stato possibile recuperarlo?» vuole sapere Heidi. Taylor è la Migliore Amica di Zoe da quando avevano entrambe quattro anni. Hanno perfino un girocollo da migliori amiche fatto di teschi, fra tutte le cose. Quello di Zoe è verde lime, e lo porta sempre, notte e giorno. Jennifer, la madre di Taylor, è l’amica più cara di Heidi. Se non ricordo male, Zoe e Taylor si sono conosciute al parco, due ragazzine che giocavano nel recinto di sabbia, mentre le madri si concedevano una pausa sedute sulla stessa panchina. Heidi la definisce una combinazione, sebbene io creda in realtà che Zoe abbia gettato della sabbia negli occhi di Taylor, e che quei primi momenti non siano in effetti stati dei più felici. Non fosse stato per Heidi che con l’acqua che aveva con sé aveva lavato via la sabbia, e se Jennifer non fosse stata nel pieno di un divorzio e con un gran bisogno di sfogarsi con qualcuno, forse l’episodio avrebbe avuto una conclusione molto diversa.

    «Non lo so. Credo di sì» risponde Zoe.

    «Dobbiamo ricomprarlo?»

    Nessun commento.

    «È successo qualcos’altro? Qualcosa di simpatico?»

    Lei scuote la testa.

    E questa, in breve, è la giornata da schifo di Zoe.

    Che viene autorizzata ad alzarsi anche se non ha mangiato quasi nulla. Heidi la persuade a mandar giù qualche boccone di muffin al mais e a bere il latte, quindi la spedisce in camera sua a finire i compiti. Ora Heidi e io siamo soli. Quando il mio cellulare squilla di nuovo, lei salta in piedi e comincia a sparecchiare mentre io indugio a chiedermi se anch’io sono stato autorizzato. Ma alla fine raccolgo qualche piatto e li porto a Heidi, che sta gettando il chili di Zoe nel recipiente dell’umido.

    «Era buono.» Mento. Il chili non era buono. Impilo i piatti sul piano di lavoro e indugio alle sue spalle, una mano premuta sulla flanella a scacchi rossi.

    «Chi viene a San Francisco?» chiede Heidi. Chiude il rubinetto e si volta verso di me e io mi appoggio a lei, ricordando quello che provo quando le sto accanto, un senso di familiarità così radicato in entrambi da essere diventata una seconda natura. Ho passato con Heidi quasi metà della mia vita. So quello che sta per dire prima che lo dica. Conosco il suo linguaggio del corpo, e so interpretarlo. Riconosco il suo sguardo invitante quando Zoe dorme da un’amica oppure è a letto da un pezzo. Come ora so che il suo circondarmi la vita con le braccia per attirarmi a sé, non è una dimostrazione di affetto, ma di possesso.

    Tu sei mio.

    «Solo un paio di persone dell’ufficio» rispondo.

    Di nuovo quell’occhiata inquisitoria. Vuole che sia più esauriente. «Tom» dico. «E Henry Tomlin.» Poi esito e probabilmente quell’esitazione mi tradisce. «Cassidy Knudsen.» Butto lì il nome come se lei non sapesse chi è Cassidy. Cassidy Knudsen, con la K muta.

    E a quel punto Heidi lascia cadere le braccia e si volta di nuovo verso il lavello.

    «È un viaggio di lavoro» le ricordo. «Rigorosamente d’affari.» Affondo il viso nei suoi capelli. Hanno il profumo delle fragole, dolce e succoso, e di un miscuglio di odori cittadini: lo sporco della strada, gli sconosciuti sui treni, il gusto muschioso della pioggia.

    «E lei lo sa?»

    «Mi assicurerò di dirglielo» rispondo. E quando la stanza è silenziosa, fatta eccezione per il ronzio indelicato della lavastoviglie, ne approfitto per sgattaiolare fuori e andare in camera a fare i bagagli.

    Non è colpa mia se ho una collega bella da guardare.

    3

    HEIDI

    Al mattino, quando mi sveglio, Chris è già uscito. Accanto a me, sul legno logoro del comodino, c’è una tazza di caffè, tiepido e probabilmente con troppa crema alla nocciola, ma pur sempre caffè. Mi alzo a sedere e prendo la tazza e il telecomando, e quando accendo la TV mi imbatto nelle previsioni del tempo. Pioggia.

    Quando finalmente arranco fino in cucina, passando vicino alle foto che ritraggono Zoe dai tempi dell’asilo fino alla settima classe, la trovo che versa il latte nella tazza di cereali.

    «Buongiorno» dico, facendola sussultare. «Dormito bene?» La bacio distrattamente sulla fronte e lei si raggela; di questi tempi le sdolcinatezze la mettono a disagio. E nondimeno sono sua madre e avverto il bisogno di dimostrarle il mio affetto; un cinque, o segrete strette di mano come quelle che si scambiano lei e Chris non mi bastano, così la bacio e la sento ritrarsi. Per quel giorno ho affermato il mio amore.

    Zoe indossa già l’uniforme della scuola: maglione a quadri, cardigan blu navy e le scarpe mary jane scamosciate che detesta.

    «Sì» dice, posando la ciotola sul tavolo.

    «Vuoi un succo?»

    «Non ho sete.» Ma la vedo occhieggiare la macchina del caffè, una porta che ha aperto in passato e che io ho richiuso con fermezza. Nessun dodicenne ha bisogno di stimolanti per darsi la carica mattutina. Io invece me ne riempio una tazza fino all’orlo e aggiungo una dose generosa di latte prima di sedermi vicino a lei, che ha davanti una montagna di Raisin Bran, per cercare di parlare un po’ della sua giornata. Vengo inondata di sì e no e non so, poi Zoe se la fila a lavarsi i denti, lasciandomi alla cucina silenziosa, al ritmo regolare delle gocce di pioggia contro la finestra a bovindo.

    Usciamo nella giornata umida, e nell’atrio passiamo accanto a un vicino. Graham. Sta premendo dei pulsanti di un raffinato orologio che emette bip e blip vari, e sorride fra sé, palesemente compiaciuto.

    «Che piacere incontrarvi, signore» gorgheggia con il sorriso più decadente che abbia mai visto. I lunghi capelli biondi gli ricadono sulla fronte lucida, ciocche che presto torneranno ben dritte grazie a una generosa dose di gel. È bagnato, se per la pioggia o il sudore, non saprei dirlo.

    Graham è appena rientrato da una corsa mattutina sul lungolago, vestito Nike dalla testa ai piedi, con al polso un orologio troppo costoso che registra i chilometri percorsi. I capi che indossa si intonano perfino troppo bene tra loro, una striscia verde lime sulla maglietta riprende quelle identiche delle scarpe.

    È quello che si potrebbe definire un metrosexual, anche se Chris è sicuro che ci sia dell’altro.

    «Buongiorno» lo saluto. «Com’è andata la corsa?»

    Appoggiato alla parete color grano rivestita di legno bianco, lui beve un sorso d’acqua e dice: «Incredibile». L’euforia che traspare dal suo viso fa arrossire Zoe, che abbassa gli occhi a terra e con una scarpa spazza via dello sporco invisibile dall’altra.

    Graham è un orfano di trent’anni e qualcosa, e vive nel condominio perché l’appartamento adiacente al nostro gli è stato lasciato dalla madre morta anni e anni fa, un evento da cui lui ha ulteriormente beneficiato ereditando anche centinaia di migliaia di dollari vincendo una disputa con l’ospedale, denaro che sta lentamente sperperando in orologi di lusso, vini pregiati e mobili sontuosi.

    Dopo la scomparsa della madre, pensava di mettere in vendita la casa, invece alla fine ci si è trasferito. I furgoni dell’impresa di traslochi hanno sostituito l’eclettico mobilio di lei con quello moderno di Graham, mobili dalle linee così eleganti e raffinate che il loro proprietario potrebbe essere uscito dalle pagine di un catalogo di Design Within Reach: le linee sagomate e gli angoli acuti, i colori neutri. Si è rivelato un minimalista: l’appartamento vuoto se non per stampate e stampate di computer a ingombrare il pavimento.

    «Gay» mi ha assicurato Chris dopo che eravamo stati da lui la prima volta. «È gay.» Non era stato solo l’arredamento a colpirlo, ma gli armadi pieni di vestiti, più vestiti di quanti io ne abbia mai avuti, e lasciati appositamente aperti perché potessimo vederli. «Tieni a mente quello che dico. Vedrai.»

    Tuttavia c’erano donne che andavano a trovarlo regolarmente, donne così belle da lasciarmi senza parole. Donne con colpi di sole nei capelli e occhi innaturalmente azzurri, con corpi da Barbie.

    Graham era arrivato quando Zoe era ancora una marmocchia. Lei ne fu attirata come le mosche della frutta sono attirate dalle banane troppo mature. In quanto scrittore freelance, lui era spesso a casa, a fissare il monitor del computer e a strafarsi di caffeina e dubbi su se stesso. È venuto in nostro aiuto più di una volta, quando Zoe era malata e né Chris né io potevamo saltare il lavoro. La accoglieva sul suo divano capitonné e insieme guardavano i cartoni animati. È impareggiabile quando hai bisogno di un po’ di burro, un lenzuolo asciutto o qualcuno che tenga aperta la porta. È anche bravissimo nell’esposizione scritta e aiuta Zoe nei compiti d’inglese quando

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