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La vita dorata di Matilda Duplaine
La vita dorata di Matilda Duplaine
La vita dorata di Matilda Duplaine
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La vita dorata di Matilda Duplaine

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About this ebook

Tutto ha inizio con l'invito a un party esclusivo.

Quando Thomas Cleary, un giovane giornalista che cerca di farsi strada lavorando al Los Angeles Times, riceve l'incarico di scrivere un articolo su Joel Goldman, il leggendario produttore cinematografico recentemente defunto, la figlia dell'uomo, Lily, lo invita a una cena esclusiva che gli apre le porte del jet-set di Hollywood. Ragazzo di umili origini, cresciuto in provincia, Thomas è un estraneo in questo mondo dorato di milionari, jet privati e dimore lussuose.

Finché non incontra Matilda Duplaine.

Bellissima e misteriosa, Matilda non ha mai lasciato i confini della splendida proprietà di Bel Air in cui è cresciuta e Thomas finisce per innamorarsi perdutamente di lei.

Ma quella che inizia come una romantica relazione clandestina si trasforma ben presto in un'intricata ragnatela di segreti e bugie, in grado di distruggere per sempre le loro vite e quelle di chi li circonda.

Romantico, coinvolgente e con protagonisti indimenticabili, La vita dorata di Matilda Duplaine non è solo una scintillante lettera d'amore a Los Angeles e un'affascinante viaggio nelle vite dorate dei suoi personaggi più in vista, ma anche una storia indimenticabile che racconta di privilegi, di ricerca della propria identità e delle difficili scelte che si fanno per ottenere il potere.



"Una lettura meravigliosa, ricca di sentimento e nostalgia, che ricorda la migliore Daphne Du Maurier."

- Kirkus Reviews
LanguageItaliano
Release dateJun 15, 2016
ISBN9788858951323
La vita dorata di Matilda Duplaine

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    La vita dorata di Matilda Duplaine - Alex Brunkhorst

    John

    1

    Il tintinnio di un antico campanello della servitù annunciò il mio arrivo.

    Il negozio traboccava di opere d'arte inestimabili e di mobili d'epoca, al punto che mi fu impossibile aprirmi un varco. Rimasi dov'ero, sperando che qualcuno venisse in mio soccorso. Sessanta secondi dopo, arrivò lei. Non sentii aprire o chiudere una porta, e non avevo idea di come fosse entrata nella stanza. Se era rimasta a osservarmi dietro il paravento asiatico che s'innalzava fino al soffitto, senz'altro mi aveva visto cercare ogni sorta di distrazione – il mio cellulare, il mio taccuino da reporter, un disegno di gesso appeso al muro.

    Niente di quello che avevo letto rendeva giustizia a Lily Goldman. Era sui cinquantacinque anni, ma ne dimostrava dieci in meno. Le sopracciglia erano modellate in una linea arcuata, i capelli biondi erano stati abilmente domati in un'acconciatura cotonata che la faceva sembrare appena uscita dal parrucchiere. Il viso era minuto e raffinato, con l'eccezione del naso importante che sarebbe stato più adatto a una persona col doppio della statura. Era il suo tratto più vistoso, e una donna meno sicura di sé se ne sarebbe sbarazzata anni prima con la chirurgia plastica.

    «Posso aiutarla?» chiese Lily. La sua voce sorprendentemente bassa ricordava quella di una fumatrice accanita – anche se ero sicuro che non avesse mai preso in mano una sigaretta in vita sua. Era di lignaggio troppo fine.

    Senza dare nell'occhio, mi sfregai la mano destra sulla gamba del pantalone, sperando di asciugarla. Mi allungai sopra un antico scrittoio di quercia, dove la mia mano rimase tesa a mezz'aria. Lily la osservò con sguardo assente.

    «Sì, sono Thomas Cleary. Sono un reporter, del Times

    Per la prima volta mi guardò negli occhi, e mi parve di cogliere una reazione vagamente positiva finché non disse: «Odio i reporter. Non parlo mai con la stampa».

    «Lei deve essere Ms. Goldman.» Prima di affidarmi quella missione, Phil Rubenstein, il mio caporedattore, mi aveva messo in guardia sul disprezzo che Lily Goldman nutriva per i giornalisti. Sembrava decisamente convinto che non avrei cavato un ragno dal buco.

    Lily distolse lo sguardo, concentrandosi su un candeliere di bronzo a forma di uccello. Lo ruotò di centottanta gradi.

    «Gli uccelli non migrano verso nord, ma verso sud. Siamo in autunno, dopotutto. Questo posto è un vero caos. Devo parlare con il personale. Che scuola ha frequentato, Mr. Cleary?»

    «Può chiamarmi Thomas. Sono andato ad Harvard.»

    «Vada per il tu. Scommetto che ad Harvard ti hanno insegnato che gli uccelli migrano verso sud per l'inverno e verso nord per l'estate, Thomas.»

    «Ricordo di avere appreso questa informazione alla St. Mary, la scuola elementare che ho frequentato a Milwaukee.»

    «Un ragazzo cattolico» commentò con un sorriso sardonico.

    Rimase in attesa di una risposta che non arrivò. Ero nervoso, perché speravo che quell'incarico avrebbe segnato un punto di svolta nella mia carriera. Era il mio primo e unico articolo sul mondo dello spettacolo – una breve retrospettiva su Joel Goldman, da poco defunto.

    Sebbene fossimo a pochi passi da uno degli incroci più trafficati di Los Angeles, nel negozio di Lily regnava una strana quiete. Ero arrivato direttamente dalla sede del giornale, che era animata dallo squillo dei telefoni, dal ticchettio delle tastiere, da scadenze frenetiche da rispettare. Lì, invece, non vi fu una sola telefonata, un solo cliente. Non si sentì passare nemmeno una macchina. Davanti al negozio si estendeva un classico giardino all'inglese, ma le poltrone a sdraio erano spoglie e non scorsi nemmeno un uccello nelle vaschette o sugli alberi.

    «Sei stato educato dalle suore a Milwaukee? So che possono avere effetti devastanti sull'autostima» osservò Lily.

    «Sì» risposi, cambiando nervosamente posizione. Il legno rigenerato sotto di me scricchiolò. «Però è stata Harvard ad annientare la mia autostima. Le suore non erano poi così male, a confronto.»

    «Da Milwaukee ad Harvard. Un bel viaggetto. Speriamo almeno che fosse un biglietto di sola andata.»

    «Questo è ancora da vedere» replicai, minimizzando.

    «E Los Angeles? È un'altra tappa verso la tua destinazione finale?»

    «Anche questo è ancora da stabilire.»

    Lily mi puntò gli occhi addosso. Erano profondi e avevano una straordinaria gradazione di verde.

    «I tuoi genitori sentono la tua mancanza?»

    «Mia madre è morta l'anno scorso.» Il ricordo era ancora fresco e ricacciai giù il nodo che mi si era formato in gola. «E sì, mio padre sente la mia mancanza. Sono figlio unico. Vorrebbe che tornassi a casa e lavorassi per il giornale locale. Ma con centomila dollari in prestiti universitari non posso permettermi un'inversione di rotta del genere.»

    «Mi spiace per tua madre... e per i prestiti universitari.»

    Non colsi alcun giudizio nelle sue parole, ma all'improvviso mi vergognai di avere menzionato la morte di mia madre e i miei debiti scolastici nella stessa frase.

    «Quanti anni hai?» chiese.

    «Ventisei.»

    «È morta giovane, dunque?»

    «Aveva quarantotto anni. Tumore al pancreas.»

    «Sarà stato devastante.»

    Poche persone avevano mostrato un simile interesse nella mia vita da quando mia madre era morta, e quasi mi dimenticai il motivo della mia visita.

    Avrei voluto sedermi sulla poltrona di pelle anticata alla mia destra, accendermi una sigaretta e raccontare tutto a Lily Goldman – di mia madre, che si era ridotta a uno scheletro mentre io sgobbavo su articoli insignificanti a migliaia di chilometri di distanza, a Los Angeles, una città che odiavo; della mia insegnante di pianoforte delle elementari, sorella Cecilia, che mi bacchettava le nocche con un righello di ferro; dei bambini che mi sceglievano per ultimo per giocare a Red Rover.

    E avrei voluto parlarle di Manhattan. Di quello che era successo lì.

    Prima regola di giornalismo del professor Grandy: non permettere mai al tuo soggetto di cambiare argomento.

    «Basta parlare di me. Mi scuso per averti rubato tutto questo tempo» dissi. Fin da ragazzo rifuggivo sempre dalle attenzioni, in particolare da quelle degli sconosciuti, eppure avevo appena condotto Lily negli angoli bui della mia vita, anziché esplorare la sua. «Mi è dispiaciuto molto sapere della morte di tuo padre. Stiamo preparando un pezzo su di lui, e speravo che potessi concedermi una citazione o un aneddoto, qualcosa che lo faccia conoscere meglio ai lettori... qualcosa per cui ricordarlo.»

    «Ah, giusto, mio padre.»

    All'inizio non aggiunse altro. Non la biasimavo, perché suo padre era un tipo tosto.

    La vita di Joel Goldman era leggendaria ed epica quanto i film che aveva portato sullo schermo. Era cresciuto nella Polonia occupata dai nazisti, sfuggito alle camere a gas, arrivato giovanissimo a Ellis Island con appena cinque centesimi in tasca, e nel giro di dieci anni aveva capovolto il suo destino passando dalla lettura di soggetti nell'ufficio sceneggiature della RKO alla creazione di uno dei più importanti studi cinematografici.

    Stando al suo ex socio in affari, Joel Goldman era famoso per la sua microgestione, per usare un eufemismo. Quando si presentava sul set – cosa che faceva quasi ogni giorno – provava le battute con le attrici protagoniste, sussurrava all'orecchio dei registi, rimproverava il catering per qualsiasi cosa, dagli strudel secchi al caffè troppo leggero. Nell'era della macchina da scrivere, Joel era noto per strappare interi primi atti e gettarne a terra i brandelli sotto lo sguardo inorridito degli sceneggiatori. Sfrondava le spese fino all'ultimo centesimo ed era un negoziatore spietato. Come mi aveva rivelato l'ex direttore di uno studio cinematografico quel pomeriggio al telefono, in forma anonima: «Se Joel Goldman era seduto di fronte a te e ti cadeva un centesimo a terra, lo raccoglieva e se lo infilava in tasca, considerandolo un colpo di fortuna».

    Il mio punto forte come giornalista non era chiedere, ma ascoltare. Perciò aspettai.

    «Un vero diavolo, mio padre» commentò infine Lily. «Il primo uomo a produrre un film che ha incassato cento milioni di dollari. Ti sembra possibile? Ha fondato uno studio cinematografico ad appena ventotto anni. Inimmaginabile. Oggi i ragazzi della tua età spingono i carrelli della posta nelle agenzie di spettacolo, non vincono gli Oscar. Era l'età d'oro del cinema, di Hollywood. Bogart e la Bacall venivano spesso a prendere un tè nella nostra casa a Cap d'Antibes.»

    Sorrise a quel ricordo, poi scomparve dietro il paravento asiatico. «Sei mai stato ad Antibes?» chiese a gran voce.

    «Purtroppo no.»

    Riemerse dal paravento. Fissò un punto immaginario in lontananza, oltre l'antico vetro piombato che distorceva il giardino. «Sedevamo in veranda guardando le barche e sorseggiando un tè con il rum. So che sembra disgustoso, ma è una bevanda veramente gradevole. È stato lì che Bette Davis ha fatto il provino per Che fine ha fatto Baby Jane? Lì il mare è incredibile, così verde... così diverso dal mare di Los Angeles.»

    «Sembra magnifico» dissi.

    «Il periodo più eccitante della mia vita. Penso spesso... be', ti sembrerà sciocco, ma penso spesso che se andremo in Paradiso ci verrà concesso di rivivere le nostre vite, facendo scorrere velocemente i momenti brutti, s'intende.» Distolse lo sguardo come se temesse di essersi aperta troppo con un estraneo. «Tornerei volentieri a quei tempi con mio padre nel sud della Francia. Non so che farmene di Hollywood. Mi interessa solo quello che ci ha procurato.»

    Lanciò un'occhiata al taccuino, ancora chiuso nella mia mano. Non avevo scritto nulla. Forse era colpa del nervosismo, o forse consideravo i ricordi personali di Lily come monete cadute a terra per sbaglio. A differenza del padre, non avrei mai potuto raccoglierle quando era a pochi passi da me. Sarebbe stato un furto.

    «Stavi cercando qualcosa del genere?» chiese.

    «Come?»

    «La citazione.»

    «Ah, sì, è perfetta.» Scribacchiai qualcosa per mettermi in pari.

    «Lo immaginavo. L'intimità, è quello che cercano tutti.»

    Mi puntò di nuovo gli occhi addosso, questa volta concentrandosi sui vestiti. Indossavo una camicia comprata molti anni prima in un discount di Cambridge, che avevo stirato quella mattina insieme ai pantaloni. Il risultato erano grinze più profonde di quelle che avrei ottenuto lasciando i vestiti nell'asciugatrice.

    «Mi stupisce che il giornale permetta ai suoi reporter di vestirsi come se fossero appena tornati da una nottata di bisboccia.»

    Lily era vestita interamente di marrone – maglione, gonna al ginocchio e décolleté tacco cinque. Nonostante il colore singolare e la semplicità, il suo abbigliamento stillava ricchezza. Nell'insieme evocava l'immagine di un sarto parigino carponi e con gli spilli tra i denti. L'unico tocco distintivo era una vistosa collana d'avorio. Ne capivo il senso, anche se conoscevo Lily da pochi minuti. I diamanti si potevano ancora comprare sul mercato libero, le zanne d'elefante no.

    Mi diede una sistematina al colletto e mi appoggiò le mani alla base del collo. Era da tempo che una donna non mi toccava, e mi irrigidii.

    Da bravo reporter, ero stato addestrato a cogliere i minimi indizi – quei frammenti e quelle impronte che gli altri avrebbero potuto vedere solo attraverso un microscopio. In quel momento una scintilla fugace illuminò gli occhi verdi di Lily. Poi, così come erano sbocciati, in un istante avvizzirono, diventando quasi neri.

    Credevo che Lily avrebbe messo a nudo la sua anima in quell'intervista, invece aveva fatto in modo che fossi io a rivelare troppo di me.

    «Sei un giovane molto attraente. Non lasciarti ostacolare dalle tue pessime scelte in fatto di vestiario» disse, quindi gridò verso l'altra stanza: «Ethan, vieni qui».

    Dopo qualche secondo, dalla portafinestra sul retro entrò un uomo esile che avrà avuto più o meno la mia età.

    «Sì, Ms. Goldman?» La sua voce era poco più di un sussurro, e se il completo attillato che indossava non era fatto su misura, doveva essere comunque costoso.

    «Thomas parteciperà alla cena di questa sera. Dai disposizioni a Kurt perché passi a prenderlo, per cortesia.»

    «Ti ringrazio per l'invito» intervenni. «Ma ho una scadenza, e purtroppo la mia penna non è delle più veloci.»

    «È un'abilità che credevo insegnassero dalle suore» commentò Lily. «Ci sarà un gruppo favoloso, alcuni degli ospiti lavoravano con mio padre e sono decisamente degni di nota. Ti prometto che non resterai deluso.»

    Per la verità, in condizioni normali avrei declinato un invito a una cena di gala, ma se c'era la possibilità che rimpolpasse il mio articolo su Joel Goldman, non potevo tirarmi indietro.

    Comunicai a Ethan il mio indirizzo a Silver Lake, un quartiere nella zona est di Los Angeles noto per essere un rifugio di artisti – tutti più alla moda di me. Lui diede disposizioni perché mi passassero a prendere alle sette in punto.

    «Bene. È deciso, allora» concluse Lily. «A presto, Thomas. Ethan, assicurati che fili tutto liscio.»

    A breve Lily sarebbe scomparsa dietro il paravento asiatico, ma un attimo prima di farlo si voltò e posò gli occhi su di me un'ultima volta.

    «Di nuovo, mi spiace per tua madre, Thomas. Ti sentirai terribilmente solo.»

    Prima che potessi rispondere era già svanita tra gli oggetti d'antiquariato.

    2

    E fu così che cominciò. Semplicemente, senza la fanfara che ci si aspetterebbe da una serata che finirà per capovolgere il corso di una vita.

    Chiamai Phil Rubenstein per fargli sapere che avrei ritardato la consegna dell'articolo. Rubenstein non sopportava che si posticipassero le scadenze, ma quando lo informai che avrei cenato insieme a Lily e a un cast degno di nota, mi concesse qualche ora in più per approfondire le mie ricerche. Poi mi sconvolse raddoppiando la lunghezza del mio articolo a due colonne.

    Avevo solo una giacca sportiva – presa in saldo in un negozio di Milwaukee specializzato in taglie comode. Ero alto e ben piazzato, come tutti gli americani del Midwest di origini tedesche, ma non ero abbastanza robusto da riempire a dovere la giacca, che mi era sempre stata larga. Speravo che Lily non lo notasse. Mi diedi una passata del dopobarba che avevo comprato per la laurea, quindi infilai il taccuino e il registratore nella tasca interna della giacca.

    Alle sette in punto suonò il citofono al pianterreno del mio palazzo. Sulla porta trovai un uomo asiatico sulla cinquantina, con un'espressione dura quanto la sua stretta di mano.

    «Sono Kurt» disse, neanche stesse salutando una ragazza bruttina che non voleva portarsi a letto.

    «Io sono Thomas, del Times.» Aggiunsi l'ultima parte dopo una pausa, come una sorta di legittimazione.

    Kurt aprì la portiera posteriore di una Mercedes argentata, modello berlina, e salii. Profumava di pelle nuova. Sospettavo che Lily fosse il genere di donna le cui macchine profumano sempre di pelle nuova. Nel portaoggetti c'era dell'acqua Evian e, per un caso più o meno fortuito, il Los Angeles Times di quel giorno. Lo aprii alla sezione locale. Il mio articolo di una colonna sulla proposta di ampliamento dell'autostrada 405 era in terza pagina.

    Riposi il giornale nel portaoggetti mentre ci dirigevamo a ovest lungo il Sunset Boulevard, verso il mare, come lo aveva definito Lily. Non ero mai stato accompagnato da un autista privato e non sapevo se avrei dovuto fare conversazione o stare seduto in silenzio. Decisi di seguire l'esempio di Kurt. Non mi rivolse una sola parola in quel viaggio di un'ora; si limitò ad ascoltare musica classica alla radio e non guardò mai nello specchietto retrovisore se non per cambiare corsia.

    Dopo un tragitto lungo e tortuoso attraverso la città, Kurt mise la freccia preparandosi a compiere una brusca svolta a destra in una stradina che si insinuava tra due imponenti muri bianchi. Un cartello di ferro nero in filigrana annunciò la nostra destinazione. La scritta Bel Air tinse il crepuscolo di una curiosa sfumatura bianco-azzurrognola, il colore di una pista di pattinaggio su ghiaccio. Le lettere erano in caratteri antiquati e sfarzosi, abbelliti da mezzelune e ghirigori. Quella scritta rimandava a un'epoca in cui maggiori erano le risorse, maggiori le opportunità.

    Bel Air non era recintato, come alcuni quartieri di Los Angeles. Aveva semplicemente la fama di essere un posto precluso ai comuni cittadini come me.

    Compimmo una leggera svolta a sinistra, poi una brusca a destra, e ci inerpicammo sulle colline. Abbassai per metà il finestrino oscurato. Eravamo ad appena venti chilometri dal mio appartamento, eppure l'aria sembrava soffiare da un'altra vita. Era fresca e brumosa, pregna del fumo di veri camini, dell'odore di erba appena tagliata, di siepi appena potate e di fiori autunnali. L'odore di Silver Lake, invece, era quello dell'asfalto e delle persone che vi dormivano sopra.

    Sui pochi cartelli che riuscii a scorgere dal finestrino spiccavano nomi regali, e dalla strada si aveva l'impressione che non vi fossero case ma soltanto siepi alte dieci metri, cancelli di ferro e telecamere. Le viuzze strette, i lotti da un ettaro e il traffico scorrevole facevano pensare a un quartiere, eppure mancavano i marciapiedi. Avevo la sensazione che i residenti non chiedessero lo zucchero in prestito ai vicini, ma mandassero i loro autisti a comprarlo al negozio.

    I rampicanti carichi di fiori invadevano le strade strette, rendendole ancora più anguste. Nel resto di Los Angeles non c'era una vegetazione simile, e mi sorse il dubbio che quei fiori fossero indigeni solo di quei quindici chilometri quadrati. Forse lì la pioggia era diversa, magari perfino il sole preferiva Bel Air. Mi sporsi dal finestrino e staccai un bocciolo madido di rugiada da un rampicante, lasciandolo avvizzire tra il pollice e l'indice prima di sistemarlo nella tasca interna della giacca accanto al mio registratore.

    Fin da ragazzino avevo avvertito il fascino dalla ricchezza. Ero cresciuto in una famiglia della classe operaia, e durante l'adolescenza, mentre i miei amici si accontentavano di giocare per le strade caotiche del centro di Milwaukee, io preferivo andare a correre lungo il lago Michigan, tra le ville imponenti che rimandavano a un'altra epoca, un'epoca in cui l'industria del Midwest sfornava milionari. Sognavo di abitare in quelle ville, i cui proprietari non avevano una sola preoccupazione al mondo. A quindici anni, quando era giunto il momento di cercare un impiego, avevo girato al largo da fast food e stazioni di servizio. Ero andato a lavorare per un signore anziano e agiato, un tale Mr. Wayne. Ero sempre stato portato per la meccanica, così di sera me ne stavo con la testa sprofondata nelle viscere della sua costosa collezione di auto d'epoca elaborate, riportando in vita quelle defunte. D'estate facevo il caddie nel circolo sportivo più elitario della città, anche se questo mi costringeva a molteplici trasferimenti in autobus per andare al lavoro. E poi, ad Harvard, mi trovai immerso in un'opulenza inimmaginabile per un ragazzo cresciuto nella classe operaia dell'entroterra. Per la prima volta il denaro sembrava accessibile, alla mia portata. Non dovevo fare altro che lavorare nel mondo degli investimenti, come quasi tutti i miei compagni di college. Eppure, quando era stato il momento, avevo scelto una strada diversa – una strada che mi avrebbe tenuto saldamente ancorato al ceto medio per il resto della vita.

    L'antico cancello di ferro si aprì. Non avevamo annunciato il nostro arrivo, ma negli occhi dei leoni di pietra notai i puntini rossi di minuscole telecamere.

    Il vialetto stretto e scosceso culminava in un cortile di ciottoli con una fontana riccamente decorata raffigurante i giochi delle Oceanine. Una vegetazione dall'aspetto preistorico circondava la vecchia villa di pietra in stile spagnolo. C'erano cactus alti tre metri, e luci blu a illuminare gli alberi con foglie acuminate e fiori esotici.

    Bussai alla porta d'ingresso usando il pesante batacchio. Sentii il rumore di tacchi su un pavimento piastrellato, quindi la porta si aprì. Un gatto domestico con il pelo leopardato attraversò l'atrio di corsa.

    La donna che mi accolse andava per i quaranta e sembrava vestita per una festa in costume rococò, non per una cena formale. Il suo abbigliamento includeva un accessorio per capelli di tartaruga e piume, uno scialle di pelliccia bianco, pantaloni di serpente talmente attillati che sembravano dipinti sulla pelle, e scarpe di struzzo tacco quindici. Pensai alla collana d'avorio di Lily. Mi chiesi se indossare specie protette fosse uno status symbol nell'intera stratosfera sociale di Los Angeles, o solo in quella cerchia specifica.

    «Tu devi essere Thomas. Entra pure. Sei pallido. Penso proprio che tu abbia bisogno di un drink. E di un viaggio a Tahiti. Ma di quello ci occuperemo dopo.»

    Ci trovavamo in un ingresso a due piani grande quanto una sala da ballo. Le candele di cera rossa alle pareti fungevano da applique, e l'unica fonte d'illuminazione non naturale era un lampadario a soffitto decorato con draghi e cristalli. I balconcini sopra di noi erano vuoti, ma ebbi la sensazione che nei ricevimenti più sontuosi fossero occupati dai violinisti, e nelle occasioni più intime dalle coppiette.

    «Ragazzi, questo è Thomas, l'amico di Lily» annunciò la donna che aveva aperto la porta, conducendomi dall'atrio in una camera più piccola.

    Non si disturbò a presentarsi, ma i suoi modi erano teatrali quanto l'abbigliamento e le sue parole echeggiarono contro la pietra. Le altre quattro persone presenti si zittirono nello stesso istante, e fui imbarazzato dal loro silenzio, dai loro sguardi immeritati. Pur di volgere gli occhi altrove osservai le sedie zebrate, le applique ramificate e i soffitti a specchio, con la sensazione di essere caduto nella tana del coniglio.

    «Thomas, caro, cosa bevi?» mi chiese la donna dall'abbigliamento bizzarro.

    Scrutai il gruppo con la coda dell'occhio. Lily non c'era. Sentii il polso accelerare, ed ero così nervoso che per un momento temetti irrazionalmente di essermi presentato alla festa sbagliata.

    «Tesoro, va tutto bene?» insistette la donna, non ricevendo risposta.

    Era in attesa accanto a un bar a specchio che ricordava uno spaccio di alcolici in stile Art déco nella Manhattan degli anni Venti. Non c'erano bottiglie prodotte in serie, i liquori erano conservati in spessi decanter di cristallo. La cristalleria era circondata su ogni lato da fotografie in cornici d'argento sterling.

    Solo allora mi resi conto che Lily Goldman mi aveva invitato a una cena formale in casa di qualcun altro.

    Feci una breve pausa. Dovevo scegliere un drink che fosse al contempo elegante e disponibile in una di quelle bottiglie prive di nome. Pensai alla mia ex fidanzata – lei sì che avrebbe saputo cosa ordinare in una situazione del genere. Un Gimlet. Era il suo cocktail preferito.

    «Sì. Chiedo scusa. Un Gimlet, per cortesia. Con ghiaccio.»

    «Un Gimlet, un drink da uomo all'antica e facoltoso. Dovrò tenerlo a mente» disse. «Amo tutto quello che è all'antica. Vero, George?»

    «E anche facoltoso, dato che è l'unico motivo per cui ti sei innamorata di me» ribatté George con un luccichio negli occhi, come se sapesse che era vero ma ne fosse anche lusingato.

    «È quello che mi ha fatto innamorare, forse, ma non ciò che ha tenuto in vita l'amore. La California è uno stato incentrato sulla comunione dei beni. Mi sarebbe bastata la metà dei tuoi soldi per restare nel mondo dell'alta moda e del G5» disse, spremendo tre fette di lime nel drink che aveva preparato.

    George mi si avvicinò e si impossessò della mia mano, schiacciandola tra le sue. Era una stretta più adatta a un vecchio compagno di liceo che non a un tizio strambo imbucatosi a una festa, perciò lo presi subito in simpatia.

    «George Bloom. Mia moglie Emma ha molte qualità straordinarie, e la amo profondamente, ma le presentazioni non sono il suo forte. Benvenuto nella nostra umile dimora.»

    Dunque era per questo che Rubenstein aveva accettato di buon grado di posticipare la mia consegna.

    Tutti sapevano che George Bloom era l'uomo più potente dell'industria musicale. Fece un largo sorriso che ne mise in risalto i denti grandi e la mascella prominente. Era facile immaginarlo mentre elargiva quello stesso affascinante sorriso ai musicisti che voleva vincolare – con enorme successo – alla sua etichetta discografica. A differenza della moglie, il cui abbigliamento doveva derivare da una frenetica battuta di shopping di capi vintage e settimane di pianificazione, George indossava una semplice polo e pantaloni cachi più indicati a una partita a golf che a una cena formale. Ero sicuro che Emma non avesse scelto né approvato il suo stile casual, pertanto il messaggio era chiaro: era lui il padrone del castello.

    «Piacere» dissi. «Grazie per l'invito.»

    «Il piacere è tutto nostro. Lily arriverà a breve. Nel frattempo, accomodati. Vieni a conoscere il resto del gruppo.»

    George mi appoggiò un palmo sulla schiena, sospingendomi verso il centro del salotto.

    Un Gimlet comparve magicamente nella mia mano, e lo osservai non sapendo se fosse il caso di aspettare un brindisi. George notò la mia esitazione. I suoi occhi mi dissero: Forza, giovanotto, bevi. Bevvi un sorso frettoloso.

    Nell'angolo intravidi David Duplaine, senza dubbio l'uomo più potente di Hollywood. Era appoggiato allo schienale della sedia, le punte delle dita unite a formare una piramide, le gambe accavallate. Distolsi lo sguardo dal suo e mi concentrai sul divano.

    «Carole, Charles, David... ragazzi, questo è Thomas. Thomas è un caro amico di Lily.»

    Carole Partridge era una delle attrici più famose del mondo, ed eccola lì, a tre metri da me, che oziava su un divano di velluto viola accarezzando il gatto leopardato. Si teneva in equilibrio su un gomito ossuto e un fianco formoso, e i suoi piedi scalzi e pallidi erano l'equivalente della polo di George – la prova di essere abbastanza importante da poter fare quello che le pareva.

    Per un istante, realtà e fantasia si fusero, ed ebbi l'impressione di guardare Carole sul grande schermo dalla prima fila di un cinema.

    Aveva un fisico rétro a clessidra degno di Playboy. Braccia e gambe erano snelle e muscolose. Gli occhi color nocciola avevano una seducente aria assonnata, e la pelle candida e priva di imperfezioni sembrava uscita da un film in bianco e nero – il technicolor, o la vita reale, la faceva sembrare quasi finta.

    «Mi devo alzare?» chiese Carole con voce annoiata, come se dopo tre minuti in quella stanza la mia presenza stesse già invecchiando.

    «Non è necessario» dichiarai.

    Il marito di Carole, Charles, si alzò al posto suo.

    «Thomas, piacere di conoscerti» disse. «Siediti, unisciti a noi. Eravamo elettrizzati quando Lily ci ha detto di averti invitato. C'è bisogno di nuova linfa da queste parti.»

    Charles aveva l'apparenza di qualcuno che non era mai stato costretto a lavorare per vivere. La sua parlata era tinta da un raffinato accento della East Coast, probabilmente coltivato insieme ai compagni di lacrosse alla Choate o in qualche posto del genere. Ad Harvard avevo conosciuto moltissimi ragazzi nati in condizioni agiate, e, come Charles, anche loro sfoggiavano sempre una certa calma, come se il denaro fosse un superpotere.

    «Grazie» dissi, accomodandomi in poltrona e bevendo un lungo sorso del mio Gimlet.

    «Lily ci ha detto che sei un reporter» intervenne George.

    «Sì, esatto.» Mi concentrai intensamente sul mio drink, un po' impaurito all'idea di parlare in pubblico. Alla parola reporter, il registratore sembrò farsi più pesante nella tasca interna della giacca, un promemoria della mia grezza vita di seconda classe.

    «Un mio amico, che riposi in pace, diceva sempre che la differenza tra giornalisti e reporter è che i giornalisti mentono, i reporter si inventano solo le cose» commentò.

    «In questo caso, allora, sono un giornalista. Non ho mai avuto un'immaginazione fervida. Altrimenti avrei fatto il romanziere, o avrei scritto per il cinema» replicai.

    «Charles ha appena scritto una sceneggiatura, la DreamWorks l'ha acquistata per una somma a sei zeri» raccontò George in tono gioviale. C'era una nota di orgoglio nella sua voce.

    George aveva qualcosa che mi ricordava Mr. Wayne, il signore con la collezione di auto d'epoca per cui avevo lavorato al liceo. Erano entrambi affascinanti e

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