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Lo straordinario viaggio di Nujeen: Dalla Siria alla Germania in sedia a rotelle per fuggire dalla guerra
Lo straordinario viaggio di Nujeen: Dalla Siria alla Germania in sedia a rotelle per fuggire dalla guerra
Lo straordinario viaggio di Nujeen: Dalla Siria alla Germania in sedia a rotelle per fuggire dalla guerra
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Lo straordinario viaggio di Nujeen: Dalla Siria alla Germania in sedia a rotelle per fuggire dalla guerra

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About this ebook

Nujeen Mustafa ha sedici anni e soffre di una grave forma di paralisi cerebrale che l'ha costretta su una sedia a rotelle e le ha impedito di frequentare la scuola pubblica. Ma questo non l'ha fermata: ha imparato l'inglese guardando le soap opera americane trasmesse dalla tv del suo paese e nello stesso modo ha studiato storia, letteratura, scienze. Dimostrando di avere un coraggio da leone, questa adolescente che sogna di incontrare la Regina d'Inghilterra e di diventare astronauta si è messa in viaggio insieme alle sorelle e ha seguito la rotta dei migranti, oltre 6000 chilometri dalla Siria fino al confine con l'Ungheria e poi in Germania.

Con voce fresca e originale, Nujeen ci racconta cosa significa crescere in un paese in guerra e cosa si prova a dipendere dagli altri per ogni cosa; ci spiega come la guerra civile abbia distrutto una nazione orgogliosa e abbia smembrato intere famiglie, e soprattutto ci fa capire quanto coraggio occorra per continuare a sorridere e sperare nonostante tutto.

Una storia dei giorni nostri, raccontata da una ragazza incredibile.

LanguageItaliano
Release dateNov 3, 2016
ISBN9788858958087
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    Lo straordinario viaggio di Nujeen - Nujeen & Christina Mustafa & Lamb

    forte».

    PARTE PRIMA

    Perdere una Patria

    Siria, 1999 - 2014

    Prima di essere numeri, queste persone sono anche e soprattutto esseri umani.

    Papa Francesco, Lesbo, 16 aprile 2016

    1

    STRANIERI NELLA NOSTRA TERRA

    Io non faccio collezione di francobolli, monete o figurine di calciatori. Io colleziono fatti. In particolare, mi piacciono quelli relativi alla fisica e allo spazio, soprattutto la teoria delle stringhe. E poi fatti di storia e dinastie come i Romanov. E quelli che riguardano figure controverse come Howard Hughes e J. Edgar Hoover.

    Mio fratello Mustafa dice che mi basta sentire le cose una volta per ricordarle alla perfezione. Sono in grado di elencare tutti i Romanov, dal primo zar Michele I fino a Nicola II, assassinato dai bolscevichi con il resto della famiglia, inclusa la figlia minore Anastasia. Posso dirvi la data esatta in cui la regina Elisabetta II è diventata sovrana d'Inghilterra – sia il giorno in cui è morto suo padre che quello dell'incoronazione – e le date di entrambi i suoi compleanni, quello vero e quello ufficiale. Mi piacerebbe incontrarla per chiederle: «Cosa si prova ad avere la regina Vittoria come trisavola?» e: «Non è strano che tutti cantino un inno che parla di salvarla?».

    Posso dirvi pure che l'unico animale che non emette suono è la giraffa, perché non ha corde vocali. Questo era sempre stato uno dei miei fatti preferiti, finché la gente non aveva cominciato a chiamare la Giraffa Bashar al-Assad, il nostro dittatore, per via del collo lungo.

    Bene, ora eccovi un fatto che credo non piaccia a nessuno: lo sapevate che al mondo una persona su centotredici è rifugiata o profuga?

    La maggior parte è in fuga da guerre come quelle che hanno devastato e ancora devastano la nostra Siria, o l'Iraq, l'Afghanistan e la Libia. Altri scappano da squadroni di terroristi in Pakistan e Somalia o dai regimi dei mullah in Iran e dall'Egitto. Altri ancora fuggono dalla dittatura in Gambia, da coscrizioni forzate in Eritrea e da fame e povertà in regioni africane che non ho nemmeno mai visto sulle carte geografiche.

    In televisione continuo a sentire ripetere dai reporter che l'attuale flusso di profughi dal Medio Oriente, dal Nord Africa e dall'Asia centrale verso l'Europa è la più grossa crisi di migranti dalla Seconda guerra mondiale. Nel 2015, oltre 1.200.000 persone sono venute in Europa. Io sono una di loro.

    La parola inglese refugee è quella che più detesto. In tedesco si dice Flüchtling, che suona altrettanto dura. Ciò che significa davvero è: cittadino di seconda classe con un numero scarabocchiato sulla mano o stampigliato su una fascetta identificativa da polso e che tutti desiderano che in un modo o nell'altro possa scomparire.

    Il 2015 è l'anno in cui sono diventata un fatto, una statistica, un numero. Per quanto i fatti mi piacciano, noi non siamo numeri, siamo esseri umani, ognuno con la propria storia. Questa è la mia.

    Mi chiamo Nujeen, che significa vita nuova, e immagino si possa dire che sono stata una sorpresa. Mamma e papà avevano già quattro maschi e quattro femmine, e quando sono nata io, a Capodanno del 1999, ventisei anni dopo il mio primo fratello maggiore Shiar, alcuni di loro erano già sposati e la più piccola, Nasrine, aveva nove anni. Insomma, la famiglia era al completo.

    Mamma per poco non è morta nel darmi alla luce, e dopo era così debole che in pratica è stata mia sorella maggiore Jamila a prendersi cura di me, e infatti ho sempre pensato a lei come alla mia seconda madre. All'inizio erano tutti contenti di avere ancora in casa una bambina, ma io non smettevo di piangere. L'unica cosa che riusciva a placarmi era ascoltare a ripetizione la colonna sonora di Zorba il greco sul mangianastri, cosa che tirava tutti matti quasi quanto il mio pianto.

    Vivevamo in una polverosa e desolata cittadina del deserto chiamata Manbij, nel nord della Siria, non lontano dal confine con la Turchia nonché a una trentina di chilometri a ovest dell'Eufrate e della diga di Tishrin, che ci forniva l'elettricità.

    Il mio primo ricordo è il fruscio del lungo abito elegante di mia madre, un caffettano chiaro che le arrivava alle caviglie. Mamma aveva anche i capelli molto lunghi. Chiamavamo lei Ayee e mio padre Yaba, e non sono parole arabe. Il primo fatto da sapere su di me è che sono curda.

    Eravamo una delle cinque famiglie curde in una via di una città per lo più araba. Loro erano beduini, ma ci guardavano dall'alto in basso e chiamavano la nostra zona la collina degli stranieri. Dovevamo parlare la loro lingua a scuola e nei negozi, e potevamo usare la nostra, il kurmanji, solo a casa. Era molto difficile per i miei genitori, che non conoscevano l'arabo e, oltretutto, erano analfabeti. Era dura anche per mio fratello maggiore, Shiar, che a scuola veniva preso in giro per lo stesso motivo.

    Manbij è un posto tradizionalista riguardo all'Islam, perciò i miei fratelli dovevano frequentare la moschea e se Ayee aveva bisogno di acquistare qualcosa al bazar, uno di loro, o mio padre, dovevano accompagnarla. Anche noi siamo musulmani, ma non così rigidi. Alle superiori, le mie sorelle e le mie cugine erano le uniche ragazze che non si coprivano la testa.

    Ci eravamo trasferiti lì dalle nostre terre in un villaggio curdo a sud di Kobane per via di una faida con un villaggio limitrofo. Noi curdi siamo una popolazione tribale e la mia famiglia appartiene alla grossa tribù Kori Beg, discendente dal famoso leader della resistenza curda Kori Beg, il che a quanto pare significa che quasi tutti i curdi sono cugini. Anche l'insediamento vicino era Kori Beg, ma di un clan diverso. Il problema tra i due era insorto molto prima della mia nascita, ma la storia era di dominio pubblico. Entrambi i villaggi avevano delle pecore, e un giorno alcuni ragazzi, pastori dell'altro borgo, avevano portato le greggi a pascolare sulla nostra erba, ed era scoppiata una lite con i nostri pecorai. Qualche tempo dopo alcuni nostri parenti stavano andando all'altro villaggio per un funerale e lungo la strada due uomini gli hanno sparato. Il nostro clan ha risposto al fuoco, e uno dei due è rimasto ucciso. Loro hanno giurato vendetta, e così siamo dovuti scappare tutti. Ecco come eravamo finiti a Manbij.

    La gente non sa molto dei curdi, a volte ho l'impressione che il resto del mondo non abbia proprio la minima idea di chi siamo. Siamo una popolazione fiera con una lingua, dei cibi e una cultura nostri, e una lunga storia che risale a 2.000 anni addietro. Le prime testimonianze parlano di noi chiamandoci curti. Siamo qualcosa come 30 milioni, ma non abbiamo mai avuto un nostro Stato. Di fatto, siamo la più grande tribù apolide del mondo.

    Avevamo sperato di ottenere una nostra patria quando gli inglesi e i francesi si erano divisi lo sconfitto Impero ottomano alla fine della Prima guerra mondiale, proprio come gli arabi pensavano che avrebbero avuto la loro indipendenza come promesso dopo la Rivolta araba. Nel 1920 le potenze alleate avevano addirittura firmato un accordo, il trattato di Sèvres, che riconosceva un Kurdistan autonomo.

    Ma il nuovo leader turco Kemal Atatürk, che aveva condotto il suo Paese all'indipendenza, non lo accettò, e poi trovarono il petrolio a Mosul, che in teoria sarebbe dovuta appartenere al Kurdistan, e così il trattato non venne mai ratificato. Di fatto un diplomatico britannico e uno francese, che si chiamavano rispettivamente Mark Sykes e Georges Picot, avevano già firmato un patto segreto per spartirsi il Levante tra loro e avevano tracciato la loro turpe linea sulla sabbia, da Kirkuk in Iraq ad Haifa in Israele, per creare i moderni stati di Iraq, Siria e Libano. Così gli arabi sono rimasti sotto il dominio coloniale, suddivisi tra confini che tenevano ben poco conto delle realtà tribali ed etniche, e noi curdi siamo stati separati tra quattro Stati, a nessuno dei quali piacciamo.

    Oggi all'incirca la metà dei curdi vive in Turchia, alcuni in Iraq, alcuni in Iran e pressappoco 2 milioni in Siria, dove rappresentiamo la minoranza più numerosa, grossomodo il 15%. Anche se i nostri dialetti sono diversi, riesco sempre a distinguere un curdo. Prima dalla lingua, poi dall'aspetto. Alcuni di noi abitano in città come Istanbul, Teheran e Aleppo, ma la maggior parte vive sulle montagne e sugli altopiani dove si incontrano Turchia, Siria, Iraq e Iran.

    Siamo circondati dai nemici, perciò dobbiamo essere forti. Il nostro grande Shakespeare curdo, Ahmad-i-Khani, ha scritto nel XVII secolo che siamo quattro torri d'angolo che circondano i turchi e i persiani… Entrambe le fazioni hanno fatto dei curdi il bersaglio per gli strali del loro destino.

    Yaba è convinto che un giorno il Kurdistan esisterà, forse addirittura nel corso della mia vita. «Colui che ha una storia ha un futuro» dice sempre.

    Ironia della sorte, molti famosi eroi arabi sono curdi, ma nessuno lo ammette. Come il Saladino, che ha respinto i crociati e ha cacciato gli europei da Gerusalemme, o come Yusuf al-'Azma, che ha condotto le forze siriane contro l'occupazione francese nel 1920, morendo in battaglia. Nel salone del palazzo di Assad c'è un grande dipinto del Saladino con le sue armate arabe, e abbiamo moltissime piazze e statue intitolate a Yusuf al-'Azma, ma tutti tacciono la loro vera origine. Invece il regime siriano ci chiama ajanib, cioè forestieri, anche se viviamo lì dai tempi delle crociate. Molti curdi in Siria non hanno la carta d'identità, e senza quel documento arancione non si possono acquistare proprietà, svolgere lavori statali, votare alle elezioni o mandare i figli alle scuole superiori.

    Credo però che la Turchia sia il posto peggiore dove essere curdi. Atatürk diede il via a un processo di turchificazione e oggi il Paese non ci riconosce nemmeno come popolo. Ci chiama turchi di montagna! La nostra famiglia vive su entrambi i lati del confine, e una mia zia che abitava in Turchia ci raccontò che non le avevano neanche lasciato dare al figlio un nome curdo. Aveva dovuto chiamarlo Orhan, che è turco! Una volta Nasrine era andata a trovarla e ci aveva riferito che non parlavano curdo e le spegnevano la radio quando ascoltava musica curda.

    Ed ecco un altro fatto, stavolta riguardo all'alfabeto curdo. La Turchia non lo riconosce, e fino a poco tempo fa chi usava le lettere Q, W e X, che nella lingua turca non esistono, poteva essere arrestato. Immaginate di finire in carcere per una consonante!

    Da noi c'è un detto: Gli unici amici dei curdi sono le montagne. Amiamo le montagne e pensiamo di essere i discendenti dei bambini che si nascosero lì per sfuggire a Zuhak, un gigante malvagio con due serpenti che gli crescevano dalle spalle e che ogni giorno dovevano essere nutriti con un cervello di bambino ciascuno. Allora Kawa, uno scaltro maniscalco stufo marcio di perdere i figli, cominciò a dargli cervelli di pecora e a nascondere i bambini, finché un intero esercito di ragazzini riuscì a massacrare il gigante.

    I curdi raccontano sempre molte storie. Quella più famosa è una sorta di Romeo e Giulietta curda, Mem e Zin. Parla di un'isola governata da un principe che ha due bellissime sorelle che tiene rinchiuse, una delle quali si chiama Zin. Un giorno Zin e la sorella scappano per andare a una festa travestite da uomini e incontrano due bei moschettieri, uno dei quali è Mem. Le due coppie si innamorano e poi succedono un sacco di cose, ma il succo è che Mem viene incarcerato e ucciso e Zin è vinta dal dolore presso la tomba dell'innamorato. Persino da morti, spunta un roveto a tenerli separati. Il racconto comincia così: «Se solo ci fosse armonia tra noi, se ubbidissimo a uno solo, quest'uno ridurrebbe al vassallaggio turchi, arabi e persiani, tutti quanti», e molti curdi dicono che simboleggia la nostra lotta per una patria. Mem rappresenta il popolo e Zin lo Stato curdo, separati da circostanze avverse. Alcuni sostengono che è una storia vera, e che esiste addirittura un sepolcro da visitare.

    Sono cresciuta con questa storia ma non l'ho mai amata davvero: è troppo lunga e non la trovo per niente realistica. Preferivo La bella e la bestia, perché è basata su qualcosa di positivo: amare una persona per ciò che è, per la sua essenza, e non per come appare.

    Prima di diventare vecchio e stanco e di smettere di lavorare per passare tutto il tempo a fumare e lamentarsi dei figli che non vanno alla moschea, mio padre Yaba era un commerciante di ovini. Aveva circa sessanta acri di terra dove teneva il bestiame, come suo padre prima di lui e così fino al mio settimo avo, che aveva cammelli e pecore.

    I miei fratelli mi hanno raccontato che agli inizi Yaba acquistava solo una capra alla settimana, il sabato al mercato, per poi rivenderla quella successiva in un altro mercato per un piccolo profitto, finché con il passare del tempo arrivò a possedere un gregge di circa duecento capi. Immagino che vendere ovini non renda molto, perché la nostra casa aveva solo due stanze, un cortile e una piccola cucina… strettina per tutta quella gente. A un certo punto, però, Shiar cominciò a mandare del denaro, così potemmo costruire un altro locale in cui Ayee teneva la macchina per cucire (con cui io giocavo, quando nessuno mi guardava). Dormivo lì con lei, a meno che avessimo ospiti.

    Shiar vive in Germania ed è un regista. Ha girato un film intitolato Walking, che parla di un anziano matto che cammina tantissimo in un villaggio curdo nel sud della Turchia e diventa amico di un ragazzo povero che vende gomma da masticare, finché la loro regione viene occupata dai militari. In Turchia ha fatto scalpore perché il vecchio curdo schiaffeggia un ufficiale dell'esercito turco e alcuni hanno detto che non era una cosa da far vedere, come se non conoscessero la differenza tra un film e la vita vera.

    Io non avevo mai conosciuto Shiar, perché aveva lasciato la Siria nel 1990, quando aveva diciassette anni, ovvero molto prima che io nascessi, per evitare di venire reclutato e spedito a combattere nella guerra del Golfo in Iraq (all'epoca eravamo alleati degli americani). La Siria non voleva che noi curdi frequentassimo le sue università o svolgessimo lavori statali, però ci teneva che combattessimo nel suo esercito e ci iscrivessimo al suo partito Ba'ath. Tutti gli studenti dovevano farlo, ma Shiar si era rifiutato ed era riuscito a fuggire mentre lui e un altro ragazzo venivano scortati alla sezione per essere iscritti. Aveva sempre sognato di essere un regista, il che è strano perché nella casa di Manbij in cui è cresciuto non c'era la tv, solo una radio, perché i religiosi non approvavano. A dodici anni aveva fatto una trasmissione radiofonica con alcuni compagni di classe, e approfittava di qualunque occasione per sgattaiolare a guardare la televisione in casa d'altri. In qualche modo la mia famiglia era riuscita a mettere insieme i 4.500 dollari necessari per procurargli un falso passaporto iracheno a Damasco, e così Shiar era andato a studiare a Mosca. Non si era fermato a lungo in Russia: da lì era passato in Olanda, dove gli avevano concesso asilo. Non ci sono molti registi curdi per cui nella nostra comunità è famoso, però non potevamo nominarlo perché il regime non gradisce i suoi film.

    Il nostro albero genealogico riporta solo i nomi degli uomini, ma quello di Shiar non c'era, in caso qualcuno lo avesse collegato a noi e creato problemi. Io non capivo perché non dovessero esserci le donne. Ayee è analfabeta: ha sposato mio padre che aveva solo tredici anni, il che significa che alla mia età era già accasata da quattro e aveva un figlio, però ci ha sempre cucito lei tutti i vestiti, e se le dai una cartina ti sa dire dove si trova qualunque nazione del mondo, inoltre ricorda sempre la strada per tornare da qualunque posto. È brava anche a fare le addizioni, così da capire sempre se i mercanti nel bazar cercano di fregarla. Tutta la mia famiglia è brava in matematica, tranne me. Mio nonno materno era stato arrestato dai francesi per possesso d'arma da fuoco e aveva condiviso la cella con un uomo istruito che gli aveva insegnato a leggere, ed è per via di quell'episodio che Ayee ci teneva che noi fossimo istruite. La mia sorella più grande, Jamila, ha lasciato la scuola a dodici anni perché nella nostra tribù non è previsto che le ragazze studino. Devono stare a casa, pensare a tenerla pulita, a cucinare. Dopo di lei, però, le mie altre sorelle (Nahda, Nahra e Nasrine) sono andate tutte a scuola, proprio come i maschi (Shiar, Farhad, Mustafa e Bland). Noi curdi abbiamo un detto: maschio o femmina, il leone resta un leone. Yaba diceva che potevano rimanerci finché continuavano a passare gli esami.

    La mattina io sedevo sul gradino davanti alla porta a guardarli andare via, facendo dondolare le cartelle e chiacchierando con gli amici. Quello scalino era il mio posto preferito, me ne stavo seduta là a giocare con il fango e osservare l'andirivieni della gente. C'era una persona che aspettavo più di tutti: l'uomo del salep. Se non l'avete mai provato, sappiate che il salep è una specie di frullato a base di latte addensato con radici di orchidea di montagna in polvere e aromatizzato con acqua di rose o cannella, distribuito in coppette da un venditore che gira con un piccolo carretto d'alluminio, ed è delizioso. Sapevo sempre quando l'uomo del salep stava arrivando perché il rumoroso stereo portatile del suo carretto trasmetteva versetti del Corano anziché musica come quelli degli altri venditori ambulanti.

    Mi sentivo sola quando erano usciti tutti e rimaneva solo Yaba, a fumare e sgranare il suo rosario musulmano quando non andava dalle pecore. A destra della casa, tra noi e i nostri vicini (che erano mio zio e i miei cugini), c'era un alto cipresso, scuro e terrificante. E il nostro tetto era sempre pieno di cani e gatti randagi che mi davano i brividi, perché se mi inseguivano io non potevo scappare. Non mi piacciono i cani, i gatti né qualunque animale in grado di muoversi in fretta. C'era una famiglia di gatti bianchi maculati d'arancione che sputavano e soffiavano a chiunque gli si avvicinasse. Li odiavo.

    L'unico momento in cui il tetto mi piaceva erano le calde notti estive, quando ci dormivamo, con l'oscurità tanto solida intorno a noi da poterla tagliare con il coltello e l'aria rinfrescata dal vento del deserto. Mi piaceva stare sdraiata sulla schiena a fissare la distesa infinita di stelle che si inoltrava nell'ignoto come un sentiero scintillante. Fu lì che sognai per la prima volta di diventare un'astronauta, perché nello spazio puoi fluttuare, per cui le gambe non contano.

    Tra parentesi, il buffo è che nello spazio non puoi piangere. Per via dell'assenza di gravità, le lacrime non cadono ma si ammassano nei bulbi oculari e poi formano una pallina liquida che si sparge sul viso come una strana escrescenza, quindi… occhio!

    2

    LE MURA DI ALEPPO

    Aleppo, Siria, 2003 -2008

    La gente mi ha sempre guardato in modo diverso. Le mie sorelle sono molto belle, soprattutto Nasrine, con quei lunghi capelli lucidi color mogano e la pelle chiara cui il sole regala qualche lentiggine. Io invece ho un'aria più araba, e poi… ecco, ho i denti anteriori grossi e sporgenti, gli occhi che si strabuzzano e sono un po' strabici e gli occhiali che continuano a cadermi giù. E non è tutto.

    Forse perché Ayee era un po' anziana quando mi ha avuto (quarantaquattro anni), sono nata in anticipo. Di quaranta giorni, che è il tempo che

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