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Non piangere | La sconosciuta (Cofanetto)
Non piangere | La sconosciuta (Cofanetto)
Non piangere | La sconosciuta (Cofanetto)
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Non piangere | La sconosciuta (Cofanetto)

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Questo eBook contiene due emozionanti thriller di Mary Kubica

LA SCONOSCIUTA
Un incontro casuale. Un atto di gentilezza. Un'intricata rete di menzogne. Heidi vede la ragazzina su un binario alla stazione, immobile sotto la poggia torrenziale, mentre stringe tra le braccia un neonato. La ragazzina sale su un treno e se ne va. Heidi non riesce a togliersi quella scena dalla testa...
Heidi Wood è sempre stata una donna dal cuore d'oro, ma la sua famiglia inorridisce quando un giorno torna a casa con Willow e la sua neonata di soli quattro mesi: trasandata e senza casa, la ragazzina potrebbe essere una criminale, o anche peggio. Tuttavia Heidi invita Willow e la bimba a restare...
A poco a poco, mentre Willow comincia a riprendersi, vengono alla luce inquietanti dettagli sul suo passato e così, quello che è iniziato semplicemente come un gesto gentile precipita sempre più velocemente verso l'abisso...

NON PIANGERE
A Chicago, la giovane Esther Vaughan scompare senza lasciare traccia dall'appartamento che condivide con un'altra ragazza, Quinn Collins. Quando tra i suoi effetti personali viene ritrovata una lettera che inizia con le parole Mia adorata, la coinquilina inizia a chiedersi dove sia finita e se sia davvero la persona che lei credeva.
Contemporaneamente, in una piccola cittadina portuale alle porte di Chicago, una donna si presenta nella caffetteria in cui Alex Gallo lavora come lavapiatti. L'attrazione tra i due è istantanea, ma quella che inizia come una cotta innocente presto si sviluppa in qualcosa di molto più torbido.
Mentre Quinn continua a cercare Esther, tra dubbi sempre più pressanti e foschi presentimenti, e Alex sprofonda sempre di più nella rete di seduzione della misteriosa sconosciuta, la tensione cresce e in un susseguirsi di colpi di scena conduce il lettore a un'ineluttabile conclusione: non importa quanto sei veloce, il passato ti raggiungerà ovunque tu vada.
LanguageItaliano
Release dateJan 10, 2019
ISBN9788858998458
Non piangere | La sconosciuta (Cofanetto)

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    Non piangere | La sconosciuta (Cofanetto) - Mary Kubica

    MARY KUBICA

    NON PIANGERE - LA SCONOSCIUTA

    Non piangere/La sconosciuta

    © 2018 Mary Kubica

    Titolo originale dell'edizione in lingua inglese:

    Pretty Baby

    Mira Books

    © 2015 Mary Kyrychenko

    Traduzione di Barbara Piccioli

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Titolo originale dell'edizione in lingua inglese:

    Don't You Cry

    Mira Books

    © 2016 Mary Kyrychenko

    Traduzione di Chiara Alberghetti

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2018 HarperCollins Italia S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5899-845-8

    NON PIANGERE

    Dedica

    Per Pete

    DOMENICA

    1

    QUINN

    Con il senno di poi, avrei dovuto capire subito che qualcosa non andava. Quel rumore stridente nel cuore della notte, la finestra aperta, il letto vuoto. In seguito, ho attribuito quella mia superficialità a un sacco di fattori, a partire da un semplice mal di testa fino alla stupidità più totale.

    Eppure avrei dovuto capire subito che c'era qualcosa che non andava.

    A scuotermi dal sonno è il suono della sveglia. La sveglia di Esther, che strepita a distanza, due porte dopo la mia camera.

    «Spegnila» mugugno, premendomi il cuscino sulla testa. Mi giro a pancia in giù e scivolo sotto un secondo cuscino per attutire il suono.

    Niente.

    «Accidenti, Esther» borbotto, mentre calcio via le coperte e mi alzo. Dall'altro lato del letto giunge un mormorio di protesta, un sospiro scocciato. Occhi imbambolati che reclamano la coperta. Sento tornarmi su il sapore dell'alcol di ieri sera, qualcosa che si chiamava cranberry smash, più un bourbon sour e un Tokyo iced tea. La stanza comincia a vorticarmi intorno come un hula-hoop, e ho il ricordo improvviso di me che volteggio su una pista da ballo sudicia, in compagnia di un ragazzo di nome Aaron o Darren, o forse Landon, o Brandon. Quello che mi ha chiesto di prendere un taxi insieme a me per tornare a casa, quello che è ancora qui disteso nel mio letto. Gli do dei colpetti col gomito, e strappandogli la coperta dalle mani lo informo che se ne deve andare. «La mia coinquilina si è svegliata. Devi andartene» gli dico, con qualche spintarella sulle costole.

    «Hai una coinquilina?» mi chiede, mettendosi seduto, ancora imbambolato dal sonno. Si strofina gli occhi ed è allora che lo vedo chiaramente, illuminato dalla luce di un lampione poco distante che filtra dalla finestra e raggiunge il letto sfatto: ha il doppio dei miei anni. Quei capelli che sembravano castani nella luce incerta del bar – e dopo una generosa quantità di alcol – ora sono grigio peltro. Le fossette non sono fossette, ma segni di espressione. Rughe.

    «Accidenti, Esther» borbotto di nuovo tra i denti, sapendo che presto l'anziana signora Budny del piano di sotto comincerà a battere sul soffitto con il manico della scopa per far smettere quel baccano.

    «Devi andartene» gli dico di nuovo, e stavolta lui ubbidisce.

    Seguo il rumore fino ad arrivare alla stanza di Esther. La sveglia continua con il suo trillo monotono di cicala. Impreco silenziosamente lungo il tragitto, mentre con la mano rasento il muro e procedo lungo il corridoio buio. Manca almeno un'ora perché faccia giorno. Non sono nemmeno le sei del mattino. La sveglia di Esther continua a urlarle addosso, come ogni domenica. È ora di prepararsi per andare in chiesa. Esther, con la sua voce argentina, canta nel coro della chiesa cattolica di Catalpa tutte le domeniche, da quando la conosco. Santa Esther, la chiamo io.

    Quando entro nella sua camera, la prima cosa a cui faccio caso è il freddo. Dalla finestra si insinuano gelide folate di vento novembrino. Sulla sua scrivania una pila di fogli – tenuti fermi da un grosso libro dell'università: Introduzione alla terapia occupazionale – svolazza rumorosamente. La parte interna delle finestre è coperta dalla brina, strisce di condensa attraversano i vetri. La finestra è completamente alzata. La retina in vetroresina è staccata, ed è stata appoggiata di proposito sul pavimento.

    Mi sporgo verso l'esterno per vedere se Esther si trova sulla scala antincendio, ma fuori, nel nostro piccolo quartiere residenziale di Chicago, tutto è buio e silenzioso. Ai lati della strada, l'ultima ondata di foglie cadute dagli alberi ricopre le macchine parcheggiate, incrostate di ghiaccio. L'erba gialla è ormai tutta avvizzita: presto morirà. Dalle canne fumarie delle case vicine si alzano pennacchi di fumo che vagano nel cielo ancora buio. Tutta Farragut Avenue è addormentata, tranne me.

    La scala antincendio è deserta. Esther non c'è.

    Mi allontano dalla finestra e vedo le coperte sul pavimento, una trapunta arancione vivace con sopra un plaid verde acqua. «Esther?» chiamo, e comincio a girare nella sua stanzetta angusta, in cui trova a malapena posto il letto matrimoniale. Inciampo in un mucchio di vestiti buttati sul pavimento; i piedi mi rimangono impigliati in un paio di jeans. «Forza, giù dalle brande» dico, sbattendo la mano sulla sveglia per spegnerla. Invece accendo involontariamente anche la radio, e la stanza si riempie di un'accozzaglia di rumori: un giornale radio del mattino mescolato al trillo della sveglia. «Accidenti» impreco; ormai ho perso la pazienza. «Esther!»

    E allora, quando gli occhi si sono ormai abituati all'oscurità della stanza, me ne accorgo: Santa Esther non è nel suo letto.

    Alla fine riesco a spegnere la sveglia e accendo la luce. La testa prende a farmi male, faccio una smorfia di dolore. I postumi di una serata di stravizi. Riguardo più attentamente, per essere sicura che Esther non mi sia sfuggita per qualche motivo, e controllo anche sotto il mucchio di coperte sul pavimento. È ridicolo, me ne rendo conto, ma lo faccio ugualmente. Guardo dentro l'armadio, poi nel bagno, dove passo in rassegna il nutrito assortimento di cosmetici che condividiamo, buttati alla rinfusa sul mobile del lavabo.

    Ma Esther non è da nessuna parte.

    Prendere decisioni in fretta non è il mio forte. In quello la specialista è Esther. E forse è proprio questo il motivo per cui non chiamo subito la polizia: perché non c'è Esther a dirmi di farlo. E comunque, in tutta sincerità, il mio primo pensiero non è che sia successo qualcosa a Esther. Non è nemmeno il secondo, né il terzo che mi attraversa la mente, così mi lascio sopraffare dal mio post-sbronza, chiudo la finestra e me ne torno a letto.

    Quando mi sveglio per la seconda volta sono le dieci passate. Il sole è ormai alto e lungo Farragut Avenue c'è tutto un andirivieni di gente che entra ed esce dai negozietti di caffè e bagel per comprarsi la colazione, o il pranzo, o come altro si voglia chiamare quello che la gente mangia e beve alle undici del mattino. Tutti intabarrati nelle loro giacche a vento e nei cappotti di lana, le mani ficcate in tasca, i cappelli calcati in testa. Non occorre essere dei geni per capire che fa freddo.

    Io, comunque, me ne sto seduta in soggiorno sul piccolo divano rosso e aspetto che Santa Esther torni con un caffè alla nocciola e un bagel. Perché è questo che fa ogni domenica dopo aver cantato nel coro della chiesa: porta a casa bagel e caffè, e insieme ci sediamo al piccolo tavolo della cucina a mangiare, parlando di tutto, dai bambini che urlano durante la messa, al direttore del coro che ha perso lo spartito, a qualsiasi cosa insulsa possa aver fatto io la sera precedente: bere troppo, portare a casa qualche tizio che a malapena conosco, un individuo senza volto che Esther nemmeno vede ma sente attraverso i muri del nostro appartamento, sottili come carta velina.

    Ieri sera sono uscita, ma Esther non è venuta. Voleva stare a casa a riposare. Diceva di covare un'influenza, ma adesso che ci penso non le ho visto nessun segno evidente di malattia: niente tosse, né starnuti, né occhi lucidi. Era sul divano, sepolta sotto le coperte, con il suo comodo pigiama di flanella. Vieni con me, l'ho supplicata. Sulla Balmoral aveva aperto un nuovo locale, e noi morivamo dalla voglia di andarci. Era uno di quei posticini chic, con la luce soffusa, dove servono solo Martini.

    Vieni con me, l'ho implorata, ma lei mi ha risposto di no.

    Sarei solo una guastafeste, Quinn ha replicato. Vai senza di me. Ti divertirai di più.

    Vuoi che rimanga a casa con te? le ho chiesto, senza troppa convinzione. Ordiniamo qualcosa d'asporto, ho detto, ma in realtà non era quello che volevo. Avevo un nuovo vestitino baby-doll e le scarpe con il tacco, mi ero truccata e fatta la messa in piega. Addirittura mi ero depilata le gambe, in vista di quella serata: non sarei rimasta a casa per niente al mondo. Ma almeno mi ero offerta di farlo.

    Esther ha detto di no, di uscire senza di lei e divertirmi.

    Esattamente quello che ho fatto. Sono uscita senza di lei e mi sono divertita. Però non sono andata in quel locale. No, volevo che io ed Esther ci andassimo insieme. Allora sono finita in un infimo bar karaoke, ho bevuto troppo e sono tornata a casa con uno sconosciuto.

    Al mio rientro Esther era a letto, con la porta chiusa. O almeno così ho pensato.

    Ora invece, seduta sul divano, mentre ripenso a stamattina non posso fare a meno di chiedermi: per quale motivo Esther dovrebbe dileguarsi dalla finestra sulla scala antincendio?

    Penso e ripenso, ma nella mia mente prende forma una sola immagine: quella di Romeo e Giulietta, la famosa scena del balcone da cui Giulietta confessa a Romeo il suo amore per lui (che in pratica è anche l'unica nozione che mi è rimasta dal liceo, oltre alla scoperta del fusto vuoto della biro come pezzo d'artiglieria formidabile per sparare palline di carta insalivata).

    È questo che ha spinto Esther a scavalcare la finestra nel mezzo della notte? Un uomo?

    Naturalmente, alla fine della storia Romeo si avvelena e Giulietta si uccide con un pugnale. Ho letto il libro. Anzi, meglio ancora, ho visto il film, l'adattamento uscito nel 1990, con Claire Danes e Leonardo DiCaprio. So come finisce, con Romeo che beve il veleno e Giulietta che si spara in testa con la pistola di lui. Speriamo che la storia di Esther abbia un finale migliore di quello di Romeo e Giulietta.

    Per adesso non c'è nient'altro da fare che aspettare, quindi rimango sul divanetto rosso, con lo sguardo fisso sul tavolo della cucina, deserto, in attesa che Esther torni a casa, indipendentemente dal fatto che abbia trascorso la notte nel suo letto o che si sia arrampicata fuori dalla finestra del nostro appartamento senza ascensore, al terzo piano. Non mi interessa. Rimango ad aspettare. In pigiama – una maglia con il collo serafino, pantaloni di flanella e un paio di calze antiscivolo di lana ad abbellirmi i piedi – aspetto che arrivino il mio caffè e il mio bagel. Ma a quanto pare oggi non si faranno vedere, e per colpa di Esther dovrò fare a meno di colazione e caffeina.

    A mezzogiorno, faccio quello che farebbe qualsiasi adulto con un minimo di amor proprio: un'ordinazione da Jimmy John's. Ci vogliono tre quarti d'ora buoni per la consegna del mio sandwich gourmet al tacchino, e nell'attesa mi convinco che ormai il mio stomaco ha iniziato ad autodigerirsi. È da almeno sedici ore che non metto niente sotto i denti, e se considero anche la maxidose di alcol che mi sono tracannata penso che mi si stia gonfiando la pancia come a quei bambini del Terzo Mondo che si vedono in tv.

    Non ho più energie. La morte è imminente. Sì, potrei morire.

    Poi sento suonare il campanello e balzo in piedi. Eccolo! Vado alla porta e saluto il ragazzo di Jimmy John's dandogli la mancia, qualche misero dollaro che sono riuscita a trovare in una busta con la scritta Affitto che Esther ha ficcato in un cassetto della cucina.

    Consumo il mio pranzo curva sul tavolino di ferro in stile industriale, poi faccio ciò che è doveroso fare quando la propria coinquilina è assente ingiustificata: vado a curiosare. Entro in camera di Esther senza nemmeno un briciolo di senso di colpa, senza il minimo scrupolo.

    Tra le due, Esther ha la camera più piccola, più o meno delle dimensioni di un grosso scatolone. Il suo armadio minuscolo, la scrivania e il letto matrimoniale occupano tutta la stanza, le sponde toccano entrambe le pareti, verniciate a buccia d'arancia, rendendo quasi impossibile muoversi. È questo che puoi permetterti a Chicago, pagando millecento dollari al mese: uno scatolone con i muri a buccia d'arancia.

    Scivolo accanto ai piedi del letto, inciampando nel mucchio di coperte ancora a terra, sul pavimento di legno tutto graffiato, e do un'occhiata fuori, alla scala antincendio fatta di grate d'acciaio. Quando mi sono trasferita qui, un anno fa, scherzavamo sul fatto che lei avrebbe avuto la camera più piccola, ma sarebbe stata l'unica a sopravvivere alle fiamme se per caso l'edificio fosse andato a fuoco. Per me andava bene così. Va ancora bene così, in realtà, perché non solo nella mia stanza ho un letto, una scrivania e un comò, ma anche una poltrona tonda papasan. E il palazzo non è mai andato a fuoco.

    Di nuovo mi chiedo cosa possa aver spinto Esther a uscire sulla scala antincendio nel cuore della notte. Non poteva passare per il portone? Non vorrei sembrare preoccupata, perché non lo sono, sul serio. Esther c'è già stata su quella scala antincendio. Una volta ce ne stavamo spesso sedute là fuori, a guardare la luna e le stelle, come se fosse un balcone, sorseggiando cocktail, con i piedi a penzoloni sopra un orrendo vicolo di Chicago. Era il nostro rito, allungarci sulle scomode grate di una squallida scala antincendio nera, e confidarci i nostri sogni e segreti, mentre il reticolo metallico delle grate ci si conficcava nella pelle, fino a farci perdere la sensibilità del sedere.

    Ma se anche Esther è andata lì, la notte scorsa, di sicuro ora non è su quella maledetta scala.

    Dove potrebbe essere?

    Sbircio nel suo armadio. I suoi stivaletti preferiti non ci sono: può averli indossati, avere aperto la finestra ed essere uscita di proposito.

    , mi dico, è così che è andata, e questa ipotesi mi rassicura. Esther sta bene.

    Resta comunque da capire dov'è finita.

    Osservo il pomeriggio silenzioso fuori dalla finestra. La frenetica caccia al caffè mattutina ha lasciato il posto alle strade deserte: non c'è un'anima in giro. Immagino metà Chicago appollaiata davanti alla tv, a guardare i Bears che infilano un'altra colossale sconfitta.

    Mi allontano dalla scala antincendio e comincio la mia indagine in camera di Esther. Quello che trovo è un pesciolino rosso lasciato senza cibo. Un mucchio di biancheria sporca che fuoriesce da un cesto nell'armadio. Jeans aderenti. Leggings. Jeggings. Reggiseni e biancheria intima adatta a una nonna. Canottiere bianche, piegate e riposte accuratamente di fianco al cesto della biancheria sporca. Una scatola di ibuprofene. Una bottiglia d'acqua. Libri di testo universitari ammucchiati in una pila alta fin quasi al soffitto, di fianco alla sua scrivania Ikea. Appoggio la mano sulla maniglia di un cassetto dell'armadio, ma non guardo all'interno. Sarebbe maleducazione, più ancora che curiosare tra le cose che Esther ha lasciato sulla scrivania: il suo computer portatile, l'iPod, le cuffie, eccetera.

    Attaccato al muro con le puntine c'è un selfie di noi due, scattato l'anno scorso. Era Natale ed eravamo tutte impettite davanti al nostro abete artificiale. Sorrido al ricordo di noi che arranchiamo tra cumuli di neve per andare a prenderlo. Nella foto io ed Esther siamo vicinissime, e si vedono i rami dell'abete che ci punzecchiano le teste e i fili d'argento che ci si attaccano ai vestiti. Io ho un sorrisetto compiaciuto, Esther la solita espressione affabile. L'albero è il suo, e al momento è in un box in fondo alla strada. Per sessanta dollari al mese, Esther ha affittato questo deposito di un metro e mezzo per tre in cui tiene vecchie chitarre, un liuto e qualsiasi altra cosa che non trova spazio nella sua minuscola camera da letto. La sua bicicletta. E l'albero, naturalmente.

    Siamo andate al deposito insieme lo scorso dicembre, per prendere l'albero. Abbiamo camminato a fatica tra i cumuli di neve fresca, e i piedi ci rimanevano intrappolati come se fossimo in mezzo alle sabbie mobili. Nevicava anche in quel momento, con fiocchi che cadevano dal cielo come soffici, voluminosi batuffoli di cotone. Le macchine parcheggiate in fila lungo il marciapiede erano sepolte sotto il manto nevoso: per liberarle sarebbe stato necessario scavare o aspettare il disgelo. A causa della bufera mezza città era rimasta bloccata e per le strade c'era un silenzio inusuale, rotto solo da me ed Esther, che cantavamo a squarciagola le canzoni di Natale. Soltanto gli spazzaneve si avventuravano fuori, e anche quelli avanzavano slittando, con movimenti a zigzag. Né io né Esther saremmo dovute andare al lavoro, quel giorno. Era tutto chiuso.

    Così abbiamo arrancato fino al deposito per cercare l'alberello di plastica da portare a casa in vista delle vacanze, e ci siamo fermate nell'androne di cemento per metterci a ballare come due sceme davanti alla telecamera di sicurezza. Ci immaginavamo l'addetto alla sicurezza – un tipo taciturno, un po' inquietante – seduto alla sua scrivania a guardare sullo schermo noi ragazze che ballavamo una giga irlandese. Abbiamo riso a crepapelle, poi, quando abbiamo smesso, Esther ha aperto il lucchetto del box numero 203 e abbiamo cominciato a cercare l'abete, mentre io continuavo a blaterare che anche i miei genitori abitavano al civico 203 di David Drive. Il destino ha detto Esther, ma io le ho risposto che era solo uno stupido caso.

    L'albero era smontato e sistemato in uno scatolone, ed è stato difficile trovarlo. In quel box gli scatoloni erano tanti. Troppi. E io devo aver inciampato in quello sbagliato. Ho alzato il coperchio, scoprendo una montagna di fotografie di una famiglia felice riunita accanto a una casa, allora ne ho presa una e mostrandola a Esther le ho chiesto: Chi sono?. Lei mi ha strappato la foto dalle mani e ha risposto secca: Nessuno. Non ho avuto il tempo di vederla bene, ma non mi è proprio sembrato che non fosse nessuno. Però non ho voluto insistere. Da quello che avevo intuito, a Esther non piaceva parlare della sua famiglia. Mentre io non facevo altro che brontolare e lagnarmi della mia, Esther non manifestava mai i suoi sentimenti al riguardo.

    Ha ributtato la foto nello scatolone e l'ha richiuso con il coperchio.

    Trovato l'abete, l'abbiamo trascinato verso casa, ma prima ci siamo fermate alla nostra tavola calda preferita. Eravamo quasi da sole nel locale vuoto, e abbiamo preso caffè e pancake anche se ormai eravamo a metà giornata. Siamo rimaste a guardare la neve che scendeva. Abbiamo riso nel vedere la gente che cercava faticosamente di farsi strada, o di tirare fuori l'automobile da sotto piramidi di neve. Quelli che erano abbastanza fortunati da farcela, cercavano di accaparrarsi un parcheggio più riparato. Lo occupavano con qualsiasi cosa avessero a portata di mano, come un secchio, una sedia, per impedire che ci si mettesse qualcun altro. I parcheggi sono preziosi come l'oro da queste parti, soprattutto in inverno. Così quel giorno, guardando fuori dalla vetrina della tavola calda, io ed Esther abbiamo notato anche i nostri vicini trascinare sedie fuori di casa per rivendicare la loro proprietà sui parcheggi appena ripuliti dalla neve, e che presto il manto bianco avrebbe di nuovo ricoperto. Ci siamo sentite fortunate a dover contare soltanto sui mezzi pubblici.

    Poi abbiamo portato l'albero a casa e abbiamo trascorso la serata ad addobbarlo con lucine e abbondanti decorazioni. Una volta finito, Esther si è messa seduta a gambe incrociate sul divano rosso e ha cominciato a strimpellare la chitarra mentre io la accompagnavo canticchiando sommessamente Astro del ciel e Jingle Bells. Questo è successo l'anno scorso, l'anno in cui Esther mi ha regalato un paio di calzini antiscivolo di lana per tenermi caldi i piedi, perché nel nostro appartamento faceva freddo ventiquattr'ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Non riuscivo mai a scaldarmi. Un gesto di premura e di sollecitudine da parte sua. Quel regalo dimostrava quanto mi ascoltasse quando mi lamentavo di continuo dei miei piedi gelati. Abbasso lo sguardo e me li vedo addosso.

    Ma Esther dov'è?

    Continuo la mia ricerca, non so nemmeno io di che cosa, ma trovo solo qualche penna sparsa qua e là e matite portamina. Un pupazzetto della sua infanzia, logoro e sgualcito, rimane un po' nascosto sulla mensola dell'armadio minuscolo, con le ante scorrevoli che non si chiudono più. Sul fondo sono allineate scatole di scarpe. Sbircio all'interno, e vedo che sono tutti modelli comodi e noiosi: ballerine, mocassini, sneakers.

    Assolutamente niente tacchi.

    Assolutamente niente che abbia un colore diverso dal nero, bianco o marrone.

    Poi la vedo, sulla scrivania: una lettera.

    Infilata nella pila di fogli tenuti fermi dal libro di terapia occupazionale, tra una bolletta del telefono e gli appunti delle lezioni.

    Una lettera, piegata in tre parti come se Esther fosse stata sul punto di infilarla in una busta e spedirla, ma poi avesse cambiato idea.

    Riavvito il tappo alla bottiglietta d'acqua, metto il cappuccio alle penne. Come ho fatto a non accorgermi mai che Esther è così disordinata? Che cos'altro non so della mia coinquilina?

    E poi leggo la lettera. Come posso non farlo? È una lettera, e questo fa di me una specie di stalker. È scritta al computer – il che è una cosa maniacale tipica di Esther – e termina così: Con tutto il mio affetto, poi una E e una V. Con tutto il mio affetto, EV. Esther Vaughan.

    È allora che ci penso: forse Santa Esther non è poi così santa, dopo tutto.

    2

    ALEX

    Vorrei che una cosa fosse chiara: io non credo ai fantasmi.

    C'è una spiegazione logica per tutto. Qualcosa di banale, come una lampadina che non è avvitata bene. Un interruttore difettoso. Un problema nell'impianto elettrico.

    Sono in cucina a finire la mia lattina di limonata Mountain Dew, con una scarpa sì e una no, e proprio nell'istante in cui mi infilo la seconda sneaker nera vedo sfarfallare una luce dall'altra parte della strada. Accesa. Spenta. Accesa. Spenta. Come la contrazione involontaria di un muscolo. Un crampo. Uno spasmo, un tic.

    Accesa. Spenta.

    Poi più nulla, e io resto a chiedermi se è successo davvero o se si è trattato di uno scherzo della mia immaginazione.

    Quando entro nella stanza, papà è sul divano, con le braccia e le gambe allargate. Sul tavolino c'è una bottiglia aperta di whisky canadese, Gibson's Finest. Il tappo sarà da qualche parte tra i cuscini del divano, o stretto nel palmo di una mano sudaticcia. Sta russando, e il petto gli sibila come un serpente a sonagli. Ha la bocca aperta, la testa reclinata su un bracciolo del divano, e quando si sveglierà – di sicuro con i postumi della sbornia – avrà senz'altro il torcicollo. Il tanfo dell'alito del mattino impregna la stanza, emana dalla sua bocca come i gas di scarico di un'automobile. Azoto, monossido di carbonio e anidride solforosa, che fluttuano nell'aria annerendola. Scherzo, ma è così che mi immagino quell'aria, nera, mentre mi porto una mano al naso per non doverne sentire l'olezzo.

    Papà ha ancora ai piedi i suoi scarponi marroni di pelle, e quello sinistro è slacciato. I lacci logori penzolano oltre il bracciolo del divano. Indossa la giacca, un impermeabile di nylon con la zip, verde abete. Una zaffata di colonia stantia mi racconta i dettagli della serata appena trascorsa, un'altra serata patetica che sicuramente avrebbe potuto finire meglio se si fosse ricordato di togliersi la fede. Ha più capelli di quanti ne abbia in genere un uomo della sua età, tagliati corti ma ancora folti, di un colore rossiccio che ben si accompagna alla sua carnagione rubiconda. Molti suoi coetanei sono già calvi, o quando va bene hanno i capelli ormai radi. Ingrassano, magari. Ma non lui. Papà è un uomo ancora piacente.

    Eppure, anche mentre dorme, in lui vedo un atteggiamento di sconfitta. È un disfattista, il che per un quarantacinquenne è un guaio ben peggiore delle maniglie dell'amore o della calvizie incipiente.

    E poi è un ubriacone.

    La tv è accesa da ieri sera, e ora sta trasmettendo i cartoni animati della fascia del mattino. La spengo ed esco dal portone, gli occhi fissi sulla casa abbandonata dall'altra parte della strada, dove ho visto accendersi e spegnersi la luce appena qualche minuto fa. Accesa, spenta. È una casa piuttosto classica e modesta, pitturata di quel giallo tipico degli scuolabus, e ha una lastra di cemento al posto della veranda, il tetto in alluminio sfasciato.

    Non ci vive nessuno. Nessuno vorrebbe mai starci, come non si vorrebbe mai farsi devitalizzare un dente o operare di appendicite. Diversi inverni fa, una tubatura dell'acqua si è congelata ed è scoppiata – almeno così abbiamo sentito dire – e ha provocato un allagamento. Alcune finestre sono state sbarrate con pannelli di compensato, subito coperte di tag e graffiti. Le erbacce infestano il giardino, soffocano il prato. Dalla grondaia penzola la canaletta di scolo, la parte finale è addirittura staccata. Presto tutto sarà sepolto dalla neve.

    Non è l'unica casa abbandonata in questa strada, ma è quella di cui tutti parlano. Per le altre abitazioni fatiscenti e derelitte possiamo incolpare la crisi economica e quella del mercato immobiliare. Il loro degrado ha finito per svalutare anche le nostre, e ha reso questo quartiere, da residenziale che era, un posto orrendo.

    Il discorso non vale per questa casa. Questa ha una storia tutta sua.

    Mi ficco le mani nelle tasche del giubbotto grigio e continuo a camminare.

    Il lago è arrabbiato stamattina. Le onde sferzano le rive, riversano acqua sulla sabbia. Acqua gelida. Non può essere sopra i due gradi, temperatura sufficiente per non farla congelare. Almeno per adesso. L'inverno scorso, il faro si è ricoperto di ghiaccio e il lago Michigan si è bloccato in un'onda gonfia e solida, aggrappata ai bordi del molo di legno. Ma questo è successo, appunto, l'inverno scorso. Adesso siamo in autunno. Manca ancora parecchio tempo perché il lago si congeli.

    Faccio qualche altro passo per allontanarmi dall'acqua e non inzupparmi le scarpe, ma mi bagno lo stesso. L'acqua arriva lateralmente, a grossi spruzzi, le onde saranno alte almeno un metro e mezzo. Se fossimo in estate, la stagione turistica, la spiaggia sarebbe chiusa, per via delle acque troppo mosse e dell'eccessiva corrente.

    Ma non siamo in estate, e i turisti non ci sono.

    La città è silenziosa, alcuni negozi rimarranno chiusi fino a primavera. Il cielo è scuro. Fa giorno tardi, e notte presto, in questo periodo. Alzo lo sguardo: non ci sono stelle, né luna. Sono nascoste dietro un cumulo di nubi grigie.

    I gabbiani garriscono forte. Volano in alto a fatica, in ampi cerchi, e solo il bagliore del faro li rende visibili. Il vento sferzante attraversa l'aria, flagella la superficie del lago, e impedisce loro di procedere in linea retta. I gabbiani rimangono sospesi, in posizione obliqua. Adesso sbattono le ali ostinatamente, ma rimangono fermi nello stesso punto. Non vanno proprio da nessuna parte, come me.

    Mi tiro su il cappuccio per non farmi andare la sabbia nei capelli e negli occhi.

    Attraverso il parco, allontanandomi dal lago, e supero la vecchia giostra in stile retrò. Guardo gli occhi inespressivi di un cavallo, una giraffa, una zebra. Un mostro marino, a bordo del quale cinque o sei anni fa ho dato il mio primo bacio. A Leigh Forney, che ora è matricola all'università del Michigan, dove mi sembra che studi biofisica, biotecnologie o bio-non-so-che-cosa. Leigh non è l'unica a essersene andata. Anche Nick Bauer e Adam Gott si sono trasferiti. Nick è all'università della California, Adam alla Wayne State di Detroit, dove gioca come playmaker nella squadra di basket. Poi c'è Percival Allard, Percy per gli amici, che è studia in un college prestigioso del New Hampshire.

    Se ne sono andati tutti. Tutti tranne me.

    «Sei in ritardo» dice la signora Priddy. Il campanello collegato alla porta, con il suo tintinnio, non fa che confermarlo. È seduta davanti al registratore di cassa, e conta le banconote che vi inserisce. Dodici, tredici, quattordici... Non mi guarda nemmeno quando entro. Ha i capelli sciolti, riccioli argentati che le ricadono sulla camicia inamidata. Qui dentro è l'unica autorizzata a portare i capelli sciolti. Le cameriere che si affaccendano tutt'intorno con le loro divise bianche e nere, riempiendo spargisale, spargipepe e bricchi del latte, hanno la coda, le treccine o la treccia. Ma non la signora Priddy.

    Una volta ho provato a chiamarla Bronwyn. In fondo è il suo nome. C'è scritto sul suo badge. Bronwyn Priddy. Ma non è stata una buona idea.

    «Il traffico» le rispondo, e lei fa una risatina sommessa. All'anulare porta la fede, quella del matrimonio con il suo ultimo marito, il signor Priddy. Si mormora che l'uomo sia morto per il continuo brontolare di lei. Che sia vero o no, riesco a immaginarmelo. Ha un porro sulla faccia, proprio tra la bocca e il naso, piuttosto sporgente, marrone scuro e perfettamente rotondo, su cui cresce un unico pelo grigio. È il porro che ci rende assolutamente certi del fatto che Priddy sia una strega. Quello, e la sua malevolenza. Si dice che tenga la scopa in uno sgabuzzino, nella cucina della caffetteria. La scopa, il calderone e qualsiasi altra cosa di cui abbia bisogno per esercitare la Wicca: un pipistrello, un gatto, un corvo. Sono lì, nascosti dietro una porta di metallo chiusa a chiave, anche se tutti noi siamo sicuri di sentirli, di tanto in tanto: il miagolio del gatto, il gracchiare del corvo, il battito d'ali del pipistrello.

    «Traffico a quest'ora?» dice Priddy. Sul viso, da qualche parte, nasconde un sorriso, sotto quella peluria che avrebbe bisogno di una bella ceretta. Peluria a cui cerca di porre rimedio disegnandosi le sopracciglia con la matita – se le fa marrone scuro, mentre dovrebbero essere grigie – per distogliere l'attenzione dai baffi. Priddy interrompe brevemente il conteggio delle banconote per alzare lo sguardo su di me. «Quei piatti non si lavano da soli, sai, Alex? Forza, al lavoro.»

    Secondo me, in fondo, le piaccio.

    La mattinata comincia e prosegue come sempre. Ogni giorno è una replica di quello precedente. Gli stessi clienti, gli stessi discorsi. L'unica cosa che cambia sono i vestiti. Il primo ad arrivare sarà il signor Parker, che porta a spasso all'alba i suoi due cani, un border collie e un bovaro del bernese. E li legherà fuori, a un lampione, entrerà portando pezzetti di foglie sotto le scarpe e lasciando impronte di fango davanti al bancone, che più tardi toccherà a me pulire. Ordinerà un caffè, nero, d'asporto, e si lascerà convincere da Priddy a prendere una pasta, che lei spaccerà per artigianale. Lui dirà di no per due volte, poi cederà, annusando l'aria in cerca di un sentore di lievito e di burro che in realtà non ci sono.

    Almeno una delle cameriere farà cadere un vassoio carico di cibo. Quasi tutte si lamenteranno per le mance da fame. Nel weekend i clienti più mattinieri ciondoleranno per tutto il locale, bevendo infinite tazze di caffè e chiacchierando di cose inutili finché la colazione non si trasformerà in pranzo. Dopodiché finalmente se ne andranno. Ma durante la settimana gli unici avventori, dopo le nove del mattino, sono i pensionati, o gli autisti degli autobus del distretto scolastico. Lasciano i loro pulmini parcheggiati in doppia fila sul retro e trascorrono tutta la mattinata a mugugnare sulla mancanza di rispetto di quelli con cui hanno a che fare, cioè tutti i bambini e i ragazzi di età compresa tra i cinque e i diciotto anni.

    Non ci sono sorprese in questo periodo dell'anno. Ogni giornata è identica alla precedente, a differenza dell'estate, quando arrivano turisti inaspettati. Allora può succedere di tutto. Che finiamo il bacon. O che qualche saccentone voglia sapere che cosa c'è davvero nel croissant al cioccolato, cosa che costringe Priddy a mandare uno di noi a riprendere lo scatolone dalla spazzatura e controllare. I vacanzieri fanno le foto all'insegna del caffè; le fanno alle cameriere, come se fossimo chissà quale attrazione turistica e chissà che locale gettonatissimo. Continuano a blaterare di non so quale guida turistica del Michigan che ci segnala come il caffè migliore della città. Ci chiedono di poter comprare le banalissime tazze con il nome del locale scritto in stile retrò, e Priddy, che le paga all'ingrosso un dollaro e cinquanta l'una, le vende a nove dollari e novantanove. Un furto.

    Ma non accade niente del genere in bassa stagione, quando ciò che succede oggi corrisponde a quello che succederà domani e a quello che è successo ieri. E nulla di diverso dal solito sembra profilarsi anche questa mattina, quando il signor Parker arriva con i suoi due cani e ordina un caffè, nero, d'asporto, e Priddy gli propina un croissant, che lui rifiuta per due volte e poi accetta.

    Ma poi, a fine giornata, accadrà qualcosa, qualcosa di anomalo, che la renderà diversa da tutte le precedenti.

    3

    Tesoro mio,

    è uno degli ultimi ricordi che ho di te, le tue braccia strette attorno alla sua scollatura, il dolce pendio del suo seno, che ti premeva sulla pelle attraverso il cotone leggero di una sottile camicetta bianca. Lei era bellissima, ma era da te che non riuscivo a distogliere lo sguardo. La tua pelle lucente, gli occhi che brillavano, il profilo delle tue labbra, che lei ha seguito con un polpastrello. Un bacio.

    Ho visto tutto dalla finestra. Ero lì, in mezzo alla strada, non nascosta nell'ombra, o appostata dietro un albero. Proprio in mezzo alla strada, incurante del traffico. Mi sorprende che lei non mi abbia notata, che non abbia sentito il clacson assordante di una macchina che mi consigliava di spostarmi, e con una certa urgenza. Ma io non mi sono mossa. Non me ne importava nulla. Ero troppo occupata a guardare il vostro abbraccio appassionato. Rapita e arrabbiata al tempo stesso.

    Forse tu mi hai vista. Forse sì, ma hai fatto finta di niente.

    Era sera, poco dopo il tramonto, quando ho premuto il viso contro il vetro per guardare dentro. Le tende erano alzate, e tutte le luci accese, come se ci tenessi a farmi vedere. Quasi gongolando, volevi proprio infierire, esultare della tua vittoria. O forse, dato che si trattava della sua personale vittoria, è stata lei a voler lasciare le luci accese, come un riflettore che illumina i ballerini sul palco, perché io potessi vedere. Vedere il modo in cui tu ridevi, in cui lei sorrideva, senza che nessuno di voi notasse la mia assenza. Ero già stata rimpiazzata, forse in realtà non ero nemmeno mai esistita.

    Se non fosse che tu non eri su un palcoscenico, ma nel soggiorno della casa in cui io avrei dovuto abitare insieme a te.

    Devo saperlo: mi hai vista? Volevi farmi arrabbiare?

    Con tutto il mio affetto,

    EV

    4

    ALEX

    Ha i capelli castano scuro. Un castano scuro che però si schiarisce rapidamente fin quasi al biondo a mano a mano che gli occhi percorrono tutta la lunghezza della chioma. Effetto ombré. Hanno delle onde appena accennate, discrete, tanto che non capisco se le ciocche che le arrivano sotto le spalle sono proprio ondulate o solo mosse dal vento. Capelli castani che si accompagnano a occhi marroni: anche questi sembrano cambiare di colore quando li si guarda. Arriva sola, e tiene la porta aperta a una coppia di vecchi bacucchi che si infila proprio dietro ai suoi costosissimi scarponcini Ugg. Si fa da parte e aspetta che loro si siedano, anche se è chiaro che è arrivata prima lei. Rimane lì, all'ingresso, e in lei c'è sicurezza e indecisione al tempo stesso. La sua postura indica padronanza di sé: è composta, non dà segnali di nervosismo o irrequietezza, aspetta semplicemente il suo turno.

    Ma lo sguardo è perso nel vuoto.

    Non l'ho mai vista da queste parti, ma immagino il suo arrivo da sempre.

    Quand'è il suo turno, le viene dato un tavolo accanto alla vetrata. Da lì può vedere il solito viavai di persone, anche se naturalmente per lei nulla qui è abituale. La guardo sfilarsi il cappotto caban a quadretti bianchi e neri. In testa ha un cappello nero mélange. Se lo leva e lo appoggia su una sedia marrone libera, accanto alla borsa di tela. Poi si toglie dal collo una sciarpa lavorata ai ferri e appoggia anche quella sulla sedia. È una ragazza minuta, ma non scheletrica come le modelle che si vedono sulle riviste di moda, sugli scaffali del supermercato e dell'edicola. No, non così. Non è uno stecco, ha semplicemente una corporatura sottile. È più bassa che alta, più magra che grassa. Eppure non è né bassa né magra. Diciamo nella media, o normale, ecco, anche se in realtà non è nessuna delle due cose.

    Sotto il caban, il cappello e la sciarpa, indossa un paio di jeans. E una felpa con il cappuccio. Blu. Con le tasche.

    Fuori è giorno. Un altro giorno senza sole. Il marciapiede è coperto di foglie, secche e fragili; quelle che rimangono sugli alberi sono destinate a cedere entro il pomeriggio, se il vento di ponente non cala. Si insinua sferzante intorno agli angoli dei palazzi in mattoncini rossi, si infila nel caleidoscopio di tende esterne, dove rimane in attesa del momento migliore per ghermire il cappello a qualcuno o per rubare scontrini e pezzi di carta da mani guantate.

    Non minaccia di piovere. Non ancora, almeno. Ma il freddo e il vento spingeranno molti a rimanere in casa, anticipando le promesse dell'inverno.

    Lei ordina un caffè. È seduta accanto alla vetrata, beve dalla tazza di ceramica dozzinale e intanto guarda fuori: i palazzi a mattoncini, le tende variopinte, le foglie cadute. Da qui non si vede il lago Michigan. Ci troviamo nel cosiddetto Harbor Country, una fascia di cittadine costiere a circa un centinaio di chilometri da Chicago, cento chilometri che equivalgono a tre Stati e un altro mondo. È da lì che proviene la maggior parte della nostra clientela, comunque. Chicago. A volte Detroit o Cleveland o Indianapolis. Ma più spesso Chicago. Giusto per una gita di un weekend, perché qui non c'è niente che possa tenerti occupato per più di due giorni.

    Comunque, questo succede soprattutto in estate, quando abbiamo i turisti. Ma adesso non c'è nessuno. Nessuno tranne lei.

    Il nostro caffè è piuttosto lontano dalla zona più frequentata, tanto che nel punto in cui ci troviamo, e cioè nella parte più periferica della cittadina, i negozi e i ristoranti confinano con la zona residenziale. In realtà non mancano un negozio di souvenir e un bed and breakfast. Dall'altra parte della strada c'è lo studio di uno psicologo, seguito una fila di villette a schiera. Poi condomini. Un distributore di benzina. Un altro negozio di souvenir, chiuso fino a primavera.

    Una cameriera mi passa accanto e fa schioccare le dita davanti ai miei occhi. «Il tavolo due» dice. È la cameriera che chiamo la Rossa. Ho dato un soprannome a tutte: Rossa, Trecce, Apparecchio. «Bisogna sparecchiare il tavolo due.»

    Ma io non mi muovo. Continuo a fissare la ragazza. Do un soprannome anche a lei, mi sembra la cosa giusta da fare. La ragazza che guarda fuori dalla vetrina sta costruendo castelli in aria. Sogna a occhi aperti. È qualcosa di davvero straordinario, un diversivo in questo posto in cui non accade mai niente. Se Nick o Adam abitassero ancora da queste parti, e non fossero partiti per l'università, li chiamerei e gli racconterei della nuova arrivata. Dei suoi occhi, dei suoi capelli. E loro vorrebbero sapere i dettagli: se è diversa dalle ragazzette insulse che si vedono tutti i giorni, o da quelle che conosciamo dalla prima elementare. E io gli risponderei che è proprio così.

    Anche mia nonna aveva i capelli castani, anche se in vita mia l'ho sempre vista con una specie di ragnatela grigia in testa. Mio nonno la chiamava Cappuccetta, un soprannome che deriva dai frati cappuccini – almeno così sosteneva il mio nonno italiano – e ha a che fare con il cappuccio della loro tonaca, il cui colore ricorda quello del caffellatte. Questo almeno è ciò che disse il nonno, quando guardò mia nonna negli occhi e la chiamò Cappuccetta.

    Mi è sempre piaciuto il suono di questo nome, devo dire. E credo che starebbe bene a questa ragazza, con la tonalità scura dei suoi capelli e l'alone di mistero che la riveste, come il cappuccio di un saio monacale. Ma io non vado matto per il caffè, e piuttosto lo sguardo mi cade sul suo polso sottile, attorno a cui noto un braccialetto di perle che sembra troppo stretto perfino per l'ossatura minuta di questa ragazza. È teso al massimo, e tra le perline bianco panna si vede il filo elastico che vi passa all'interno. Immagino che le lasci un segno rosso sulla pelle. Le perle sono un po' consumate ai bordi, hanno perso la loro lucentezza. L'osservo mentre giocherella con il braccialetto, tirando l'elastico e poi lasciandolo di scatto. Un movimento molto semplice ma quasi ipnotico. Tic. Tic. Tic. La osservo a lungo, incapace di distogliere lo sguardo dal braccialetto o dal movimento fluido delle sue mani.

    E allora mi viene l'illuminazione. Ho deciso che non la chiamerò Cappuccetta, ma Pearl.

    Pearl.

    Proprio in questo momento entra un gruppo di fedeli appena usciti dalla messa; ogni domenica arrivano più o meno alla stessa ora. Prendono il solito tavolo, quello rettangolare in cui riescono a sedersi tutti e dieci. Gli vengono servite due brocche di caffè, una decaffeinata, l'altra con la miscela più forte. Non c'è nemmeno bisogno che qualcuno di loro lo chieda. È scontato. Perché è quello che fanno ogni domenica mattina: si radunano attorno allo stesso tavolo e discutono appassionatamente di cose come sermoni, pastori e Scritture.

    Nel frattempo la cameriera Trecce, dai denti gialli, scompare per tre pause-sigaretta consecutive, e quando torna puzza come una ciminiera. Si lascia cadere una misera manciata di spiccioli nella tasca del grembiule, mugugnando. Un dollaro e cinquanta, tutti in monetine da venticinque centesimi.

    Dice di dover andare al bagno e sparisce di nuovo.

    Nel caffè si diffonde un'atmosfera di tranquilla normalità, ma oggi qui c'è Pearl, la signorina con i capelli ombré, che guarda dalla vetrata le case variopinte e i palazzi di mattoncini rossi dall'altra parte della strada, ed è tutto fuorché normale. Mangia il cibo che le è appena stato servito: uova strapazzate con un panino abbrustolito alla piastra, spalmato di burro e marmellata di fragole. E poi un'altra tazza di caffè, con due miniporzioni di panna e una bustina rosa di dolcificante. Lo beve senza nemmeno darsi il disturbo di mescolare. Mi sorprendo a fissarla, incapace di staccare gli occhi dalle sue mani, con cui prende la tazza per portarsela alle labbra.

    È allora che mi sento chiamare per nome dalla vocina metallica di Priddy, che interrompe i miei pensieri. «Alex.» Mi volto e la vedo farmi segno di avvicinarmi a lei, con le sue lunghe dita nodose dalle unghie dipinte di arancione brillante. Davanti a Priddy, appoggiata sul banco frigo, c'è una scatola di cartone con un bicchiere di plastica, chiuso con il coperchio a beccuccio. Dentro la scatola c'è un toast con bacon, lattuga e pomodori, con una montagna di patatine fritte e un cetriolino sott'aceto di contorno. Come sempre. Non facciamo consegne a domicilio, ma Ingrid Daube è un'eccezione. E oggi è il mio turno. Di solito non vedo l'ora di andare da Ingrid – un diversivo dalla mia solita routine al caffè – ma oggi non è una giornata come tutte le altre. Oggi preferirei restare qui.

    «Io?» chiedo stupidamente, con gli occhi fissi sulla scatola, e Priddy risponde: «Sì, tu, Alex. Tu».

    Sospiro.

    «Porta questo a Ingrid» mi dice, senza per favore e nemmeno grazie, ma con un ordine perentorio: «Vai». Esito per una frazione di secondo, gli occhi fissi sulla donna con i capelli ombré, Pearl, mentre la Rossa le passa accanto e le riempie la tazza di caffè per la terza volta.

    Pearl è qui da un'ora ormai, forse due, e anche se ha finito di mangiare da un pezzo non se ne va. Hanno già sparecchiato il suo tavolo. La Rossa ha appoggiato il conto accanto alla sua tazza più di mezz'ora fa. Le ha chiesto già tre volte se ha bisogno di qualcos'altro, ma la ragazza si limita a scuotere la testa. La Rossa comincia a innervosirsi, è impaziente di prendere un'altra misera mancia di cui potersi lamentare non appena Pearl sarà uscita. Ma lei non lo fa. Rimane al suo posto accanto alla vetrata, guarda fuori e continua a sorseggiare caffè senza dare alcun segno di volersene andare.

    Mi dico che mi sbrigherò. Che sarò tornato prima che lei se ne sia andata.

    Perché? Non lo so. Per qualche strano motivo voglio essere qui quando uscirà, per vederla rimettersi il cappello nero in testa, a coprire i capelli ombré. Voglio vederla infilarsi di nuovo il caban a quadretti e alzarsi dalla sedia. Vedere quale direzione prenderà.

    Farò in fretta: sarò di ritorno prima che lei se ne vada. Me lo ripeto. Se saprò gestire bene il tempo che ho a disposizione, forse lei uscirà proprio nel momento in cui starò rientrando dalla mia consegna a Ingrid. Forse.

    Le aprirò la porta. Le dirò: Buona giornata.

    Le chiederò come si chiama. Sei nuova di queste parti?

    Forse. Se saprò gestire bene il tempo che ho a disposizione.

    E se non sarò un cacasotto, come invece sarò, probabilmente.

    Non mi prendo il disturbo di mettermi il giubbotto per arrivare solo dall'altra parte della strada. Afferro la scatola e il bicchiere e camminando all'indietro esco dalla porta a vetri, che apro spingendola con la schiena. Fuori, per poco il vento non mi fa volare via la scatola dalle mani, e penso che è in momenti come questo che vorrei avere i capelli. Più capelli. Quelli che ho sono rasati quasi a zero, e non riescono a scaldarmi la testa e le orecchie. Potrei anche mettermi un cappello, e il giubbotto. E invece rimango in tenuta da lavoro: dozzinali pantaloni con le pinces, camicia bianca con i bottoni sul colletto e papillon nero. Una divisa di pessimo gusto, con cui preferirei non farmi vedere in pubblico. Ma Priddy non mi dà altra scelta. Le maniche della camicia svolazzano al vento, che rimane intrappolato nel tessuto di poliestere, facendolo gonfiare come un paracadute, o un palloncino. Fa freddo, non ci saranno più di quattro gradi. Il vento polare, poi, è un discorso a parte ed è la cosa di cui tutti parleranno per i prossimi quattro mesi. È solo novembre e già i meteorologi hanno dichiarato che sarà un inverno gelido, uno dei più freddi di sempre, con temperature sotto zero, venti polari e abbondanti nevicate.

    È l'inverno del Michigan, santo Dio. Che c'è di nuovo?

    Ingrid Daube abita in un villino che ricorda quelli di Cape Cod, proprio dall'altra parte della strada rispetto al caffè. Una casetta in stile coloniale a cavallo tra gli anni Quaranta-Cinquanta. È una costruzione azzurra con le persiane blu scuro e un tetto alto almeno quanto è largo. È una casa bella, piena di fascino. Pittoresca e suggestiva, ma purtroppo collocata in mezzo al trambusto della via principale, anche se in questo periodo è poco trafficata. C'è silenzio. Dalla finestra dell'abbaino, Ingrid ha una visuale completa sul caffè, e infatti la vedo lì, in piedi, come un'apparizione. Mi guarda negli occhi mentre aspetto che passi una macchina per attraversare di corsa la strada. Mi saluta attraverso il vetro. Io ricambio il saluto e poi lei scompare dalla mia vista.

    Salgo i gradini dell'ampia veranda bianca, ed è allora che sento un cigolio stridulo, seguito dallo sbattere di una porta a zanzariera. Viene dalla casa a fianco, un cottage blu trasformato nello studio del dottor Giles, lo strizzacervelli della città. Ha trasferito qui il suo studio da nemmeno un anno. Lancio un'occhiata nella sua direzione e lo vedo sulla soglia, che saluta una paziente appena uscita e scruta la strada in lungo e in largo, le mani nelle tasche, come se si aspettasse di vedere comparire qualcun altro. La abbraccia? Mi pare proprio di sì, un mezzo abbraccio un po' imbarazzato, come se non volesse dare troppo nell'occhio. È questa la cosa strana. Adesso controlla l'orologio. Guarda la strada a sinistra, a destra, in su e in giù. Qualcuno è in ritardo, e al dottor Giles non piace aspettare. Sembra irritato per quell'attesa. Lo vedo da come guarda di traverso, dritto in piedi, con le braccia conserte.

    Quell'uomo non mi piace neanche un po'.

    La paziente uscita dal suo studio si copre la testa con il cappuccio bordato di pelliccia di un pesante parka nero. Se lo faccia per il freddo o per riservatezza non saprei dirlo. Non lo so. Non riesco a vederla in faccia prima che lei se ne vada di fretta nella direzione opposta alla mia. Non la vedo, ma la sento. La sente mezza città. Piange, con un lamento straziante che arriva fino a un isolato più in là. L'ha fatta piangere. Il dottor Giles ha fatto piangere la ragazza. Un motivo in più per rendermelo antipatico.

    Il suo trasferimento nel piccolo cottage blu è stato accompagnato da un fiume di pettegolezzi. Sì, perché tutte le signore della città hanno cominciato ad appostarsi intorno al caffè, a gironzolare su e giù per la strada, per osservare l'andirivieni di persone nello studio del dottor Giles e scoprire quali fossero i cittadini che avevano bisogno dello strizzacervelli. È uno degli aspetti peggiori del vivere in una piccola città: non esiste il concetto di privacy.

    Questa poi è la quintessenza della piccola città. Abbiamo un solo semaforo e un solo ubriacone, e tutti sanno chi è l'ubriacone: mio padre. Non si fa altro che spettegolare. E dato che non c'è niente di meglio che gettare fango gli uni addosso agli altri, questo è ciò che facciamo tutto il tempo.

    Ingrid apre la porta prima ancora che io bussi. Apre, e io entro, dopo avere strofinato le suole delle scarpe sullo zerbino. Lei sorride. Ingrid ha all'incirca l'età che avrebbe mia madre, se fosse ancora qui. Non fraintendetemi: mia madre non è morta (anche se a volte vorrei che lo fosse), solo che non è qui. Ingrid ha i capelli corti, come li portano certe donne sulla cinquantina, di un color sabbia bagnata. Ha un'espressione benevola negli occhi. Un bel sorriso, che però è un sorriso triste. Nessuno in città potrebbe dire qualcosa di brutto su Ingrid, semmai sulle cose terribili che le sono capitate. È di questo che parlano. La vita di Ingrid è il paradigma della tragedia. In sintesi, le è andato tutto malissimo, e il risultato è che ormai è diventata oggetto di commiserazione da parte dell'intera città. Ingrid è una donna di cinquant'anni che ha il terrore di mettere piede fuori di casa. Ogni volta che ci prova le viene un attacco di panico, senso di oppressione al petto, difficoltà a respirare. L'ho vista con i miei occhi, anche se non so esattamente quale sia la sua storia. Ci tengo a non immischiarmi negli affari degli altri, ma una volta ho visto che la caricavano su un'ambulanza e la portavano in fretta e furia al pronto soccorso. Lei pensava di essere sul punto di morire. Poi si è saputo che andava tutto bene. Era solo un normale caso di agorafobia, secondo i medici, come se fosse normale che una donna di cinquant'anni se ne stia rinchiusa in casa perché il mondo esterno la spaventa a morte. Non esce per nessuna ragione, nemmeno per ritirare la posta o dare l'acqua ai fiori o strappare via un'erbaccia. Finché rimane tra i muri di gesso della sua casa, va tutto benissimo. Fuori è un altro discorso.

    Nonostante questo, Ingrid non è matta. È una persona come tante, qui.

    «Ciao, Alex» mi dice, e io ricambio il suo saluto.

    Ingrid si veste in modo adeguato a una cinquantenne: indossa una specie di felpa arancione brillante e pantaloni neri in maglia. Al collo ha una catenina con un medaglione, e orecchini a bottone ai lobi. Ai piedi, un paio di ballerine.

    Prima che lei possa chiudere la porta, mi volto per dare una rapida occhiata. La vedo dietro la vetrata, Pearl, in parte nascosta dal riflesso delle persone, delle macchine e degli alberi. Ogni cosa, all'interno e all'esterno del caffè, si confonde nel vetro, e a volte gli uccelli ci si buttano a capofitto, precipitando poi verso la morte, sul cemento poroso del marciapiede.

    Ma, attraverso la fitta trama degli alberi e il riflesso di mezzo mondo sulla vetrina del caffè, io la vedo.

    Pearl.

    Guarda fuori, ma non verso di me. Seguo la direzione del suo sguardo, fino al cartello che pende da una staffa metallica, decorata con un ghirigoro, attaccata alla casa confinante: Dr. Giles, specialista in psicologia clinica. Ed eccolo lì, il dottor Giles, con i suoi capelli scuri, ben curati, lo stile impeccabile, che aspetta impaziente l'arrivo di qualche suo paziente.

    Che mi venga un accidente! Pearl sta guardando lui.

    Ha un appuntamento con il dottor Giles? Forse. Forse è così. Sapere che ora devo focalizzare la mia attenzione su altro non basta a farmi smettere di pensare ai suoi capelli, ai suoi occhi. Anzi.

    Ingrid chiude la porta, poi mi chiede di serrarla con il catenaccio.

    La casa di Ingrid è piccola, ma più che sufficiente per una sola persona, penso. Metto il catenaccio al portone e poi lascio il pranzo di Ingrid sul tavolo della cucina. Sul ripiano di marmo c'è uno scatolone aperto, con accanto una piccola scorta di romanzi. Qualcosa per passare il tempo. C'è anche un coltello, uno di quelli professionali che si usano per sfilettare, e che lei ha adoperato per tagliare lo scotch dello scatolone.

    La tv è accesa, una tv a schermo piatto che Ingrid non sta guardando, ma che di sicuro ascolta. Credo che sentire quelle voci le dia l'illusione di non essere sola. Che ci sia qualcuno, lì, anche se è solo per finta. Si fa beffe di se stessa. Ci si deve sentire molto soli, a non poter uscire di casa.

    Per il resto è tutto silenzioso. Un tempo c'era un chiasso festoso di bambini e il rumore di piedini che correvano, ma ora non più. Quei suoni se ne sono andati.

    «Vorrei che mi facessi un favore, Alex» dice Ingrid, e io distolgo lo sguardo dalla signora sullo schermo della tv. Tutta la casa è di un bianco smagliante. Bianche le pareti, bianchi i mobili. I pavimenti sono l'unica nota di contrasto; un parquet talmente scuro da sembrare nero. Arredamento e stile sono austeri, tutto è in tono neutro o grigio, senza fronzoli né accessori superflui, a differenza di casa mia, dove papà non riesce a staccarsi da niente, da accumulatore compulsivo qual è. Per carità, non ci sono pile di robaccia vecchia, accatastata in mezzo al soggiorno, o gatti randagi che si accoppiano in ogni angolo della casa, con tanto di gattini selvatici che spuntano qua e là, alcuni vivi, altri morti. No, non è così. Non è come quei fuori di testa che si vedono alla tv. Ma papà è un tipo incline ai sentimentalismi, di quelli che non vogliono buttare le pagelle della scuola media e i dentini da latte. Immagino sia una cosa che dovrebbe farmi piacere, e in fondo credo sia così.

    Però mi ricorda tristemente che papà non ha nessuno al mondo a parte me. Se dovessi andarmene, che ne sarebbe di lui?

    «Ho fatto una lista della spesa» dice Ingrid, e senza nemmeno aspettare il consueto: Ci andresti tu?, dico: «Certo. Domani, va bene?». Annuisce.

    Dalla finestra della cucina ho una buona visuale sull'ufficio del dottor Giles. La casa di Ingrid è proprio a ridosso della sua, e la finestra ha l'angolazione ideale per vedere all'interno. Non è un panorama stupendo, ma è pur sempre qualcosa. Ingrid rovista nella borsa in cerca di due banconote da venti e me le porge, mentre io scorgo appena un vago contorno di figure che si muovono dietro il vetro della finestra. C'è qualcuno lì dentro. Do un'occhiata, ma il mio sguardo non si sofferma a lungo. Non posso. Non voglio che Ingrid pensi che io sia una specie di guardone. Allora mi giro verso di lei e prendo le banconote, che mi ficco nelle tasche, dicendole che andrò domani mattina. Andrò al negozio di alimentari domattina. L'ho già fatto tante altre volte.

    Prendo la lista della spesa, saluto e me ne vado.

    Nell'istante in cui esco di casa e scendo gli ampi scalini della veranda che conducono al marciapiede, me ne accorgo.

    Dietro la vetrata del caffè non c'è più nessuno.

    La ragazza se n'è andata.

    5

    QUINN

    Spesso ho pensato che Esther fosse una persona trasparente, come una lastra di vetro. Che fosse proprio così come la si vedeva. Ma ora che mi ritrovo seduta sul pavimento della sua minuscola camera da letto, in una posizione che mi intorpidisce le gambe e con in mano la lettera per Tesoro mio, penso che forse mi sono sbagliata. Mi sono completamente sbagliata.

    Forse Esther non è poi così trasparente, dopo tutto. Non è una lastra di vetro, ma piuttosto un caleidoscopio, di

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