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Io sono (Edizione Speciale)
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Io sono (Edizione Speciale)

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EDIZIONE SPECIALE: CONTIENE L'ESCLUSIVA PLAYLIST DI GHEMON PER ACCOMPAGNARE LA LETTURA DEL LIBRO.

Per un artista non è sempre semplice trovare la via per esprimersi e farsi accettare. È un percorso lungo, fatto di “meravigliose cadute e sofferte risalite” – come ama definirle Ghemon – che porta a una profonda conoscenza e accettazione di sé. Lui stesso ha affrontato questa strada, partendo negli anni ’80 da una città di provincia, per trovare la sua espressione artistica nel mondo del rap. Passando ore ad ascoltare musica di vario genere, scrivere testi e cantare nei locali, ha costruito la sua carriera un tassello alla volta. Oggi è un artista affermato e ha voglia di raccontare la sua vita, i traguardi e gli incontri importanti, ma anche gli ostacoli e i periodi bui. Per condividere la storia nascosta dietro il palcoscenico che ognuno di noi decide di affrontare. Perché “la perdita ti costringe ad abbandonare una parte di te e comporta una crescita. Artisticamente parlando posso dire di essere passato attraverso il fuoco della sofferenza, ma quando ne sono uscito sono rinato più forte. E felice”.
LanguageItaliano
Release dateMar 8, 2018
ISBN9788858985151
Io sono (Edizione Speciale)
Author

Ghemon Giovanni Luca Picariello

Ghemon (Avellino, 1982) è lo pseudonimo di Giovanni Luca Picariello. Rapper e cantautore, ha iniziato giovanissimo con esibizioni nei locali di provincia. Trasferitosi a Roma per gli studi universitari, ha poi trovato una sua cifra stilistica e cominciato a farsi conoscere dal grande pubblico attraverso diversi album di successo e collaborazioni con grandi artisti. Ora vive stabilmente a Milano.

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    Io sono (Edizione Speciale) - Ghemon Giovanni Luca Picariello

    Again

    SOTTOVOCE

    Sapete quando un ospite poco gradito

    arriva e non puoi fare a meno di accettarlo?

    E non sai se mostrargli quello che c’è in casa,

    ch’è un attimo che lo sciacallo in lui sopito

    adocchi prima e finisca a desiderarlo

    il cuore in oro su cui far tabula rasa.

    È come aprire la porta a un pool di ladri

    il giorno dopo che hai vinto la lotteria,

    con la fobia che chissà che cosa prenderanno

    mentre li squadri, se hai un attimo di amnesia.

    Quando la pace pare fare da regista,

    i passi affondano dentro a scarpe di ghisa,

    di una pattuglia, con due cerberi in divisa,

    che sbavano a un atomo dalla tempia sinistra.

    E nel silenzio di un rilassamento innocuo,

    dove ho coscienza piena che ho dato il possibile

    e una lucidità che illumina col fuoco

    ogni mio gesto fino a renderlo visibile,

    in modo che non mi confonda con il buio,

    in cui si sveglia qualche dubbio che mi nuoce,

    che io lo senta pure se fa a bassa voce:

    Io dico che tu non ti meriti la luce.

    E all’improvviso pigia il tasto spegnimento

    e io riscopro un labirinto di domande

    senza risposte di persone interessate

    ma solo un aguzzino sempre più pressante.

    Mi toglieranno tutto perché non sono perfetto?

    Requisiranno i soldi e tutti i miei regali?

    "Mi testeranno i riflessi col martelletto

    e appureranno che non rientro nei parametri?"

    La voce muta mi ripete ogni difetto,

    dei quali, molti – dice – non sono accettabili.

    A volte quelli più curiosi mi hanno chiesto

    di quale omologo abbia timore o soggezione,

    io fermamente gli ho risposto solo questo:

    È nel mio specchio e sa benissimo il mio nome.

    È NATA UNA STELLA ;-)

    (1982-1993)

    MOMENTO PIÙ ALTO: La nascita stessa, se vogliamo. Pari merito, la volta in cui mi sono rotto la testa e sono svenuto, tentando di fare una rovesciata sul cemento.

    MOMENTO PIÙ BASSO: Cenone di Natale con incursione di ambientalisti vestiti da Dr. Zoidberg di Futurama. I manifestanti protestano contro le mie nonne, Mafalda e Luisa, principali complici dell’estinzione dei gamberi. Incriminate in primo grado per aggiotaggio, peculato in atti d’ufficio, spionaggio industriale e imboscamento di alimenti forzato, furono poi assolte in secondo grado e prosciolte per aver cucinato le prove.

    Nasco ad Avellino il 1° aprile 1982, poi cresco e mi moltiplico.

    Ho una mamma di nome Antonietta, un papà di nome Salvatore e una sorella minore, Serena.

    Per tutta la mia infanzia faccio solo tre cose: vado a scuola, mangio, gioco (o vedo giocare) a qualche sport che preveda una palla. Calcio, basket, pallavolo, tennis, fatti tutti.

    A questi, possiamo aggiungere anche due momenti di fascinazione per le arti delle mazzate volanti. Prima il karate attorno ai dieci anni, poi la kickboxing verso i quattordici, che va indicata con speciale menzione perché, durante un combattimento, tale Dante, alto un metro meno di me, mi poggia delicatamente il suo tallone sul naso, come in una carezza un po’ fetish. Oggi spesso discuto sull’aspetto greco di questo mio tratto, attribuendo la paternità a quel piccolo incidente. Dante, io ricordo come sei fatto. Occhio che adesso ho il 45 di piede e sono alto 1 metro e 89 per diversi chili di peso.

    Il resto rappresenta sprazzi di memoria, una sorta di opera impressionista composta da: otto tonnellate di ragù, polpette, lasagne, sartù di riso, bocconcini di ogni tipo, struffoli di Carnevale e pane di Picarelli (frazione di Avellino). Il pane ha poi tutta una sua poetica e un sottouniverso declinabile in: pane col sugo, pane con la mozzarella, pane coi pomodori, pane con le melanzane sottolio, pane da solo, pane per la scarpetta, pane e marmellata, pane e Nutella, pane vecchio nel caffellatte e il disperato pane con la mela.

    Nei weekend mio padre scorrazza me e tutta la famiglia in macchina in giro per l’Italia. È un giovane direttore di banca, ama guidare e grazie a lui posso conoscere e ammirare il nostro Paese, nonché assaggiare un antipasto di quella che sarà la mia vita di adulto, con la valigia sempre pronta.

    Quando torna dal lavoro, di solito si rilassa accendendo lo stereo e registrando le canzoni dalla radio; in macchina ci sono sempre di sottofondo le compilation che si è fatto su cassetta, principalmente di musica italiana e di successi del momento. Un album che ricordo molto bene è …But Seriously di Phil Collins, del 1989. Sebbene abbia solo sette anni, lo memorizzo al punto che dopo quasi trent’anni saprò riconoscere le canzoni dalle prime note.

    Cresco con i miei cugini che abitano vicino a noi (cento metri). Il mio punto di riferimento è Maurizio, sette anni più grande di me e in pieno boom adolescenziale, praticamente un fratello maggiore e un role model per la sua ampia collezione di capi Stone Island. Lui mi fa scoprire i primi dischi dei Litfiba, di Ligabue, dei Cure, le fondamenta dei miei ascolti musicali nel passaggio alle scuole medie, una specie d’importante step di crescita verso l’età adulta.

    Un giorno d’autunno, Maurizio mi porta a casa sua a vedere il nuovo stereo, che – udite, udite! – ha persino il lettore cd incorporato. Mi fa ascoltare una registrazione su cassetta fatta da Radio Deejay (l’unica radio che da questo momento ascolterò per molto tempo): è un pezzo intitolato Tocca qui di un gruppo emergente chiamato Articolo 31. Ha un linguaggio nuovo che mi incuriosisce molto e che ho già sentito in radio e in qualche pezzo di Jovanotti (in primis Serenata rap).

    INCONTRO CON IL RAP E IL WRITING

    (1994)

    MOMENTO PIÙ ALTO: La scoperta delle ragazze, di cui col mio amico Remigio faccio, classe per classe, elenco e graduatoria in ordine di bellezza.

    MOMENTO PIÙ BASSO: Tutte le volte che ho chiesto all’edicolante Aelle e mi ha risposto: "Elle? È per tua madre?. Aggiungo anche, tutte le volte che ho risposto al telefono e mi hanno detto: Buongiorno signora, c’è suo marito?".

    La mia prorompente adolescenza dei cui ormoni – volente o nolente – sono diventato l’avatar, i doppi sensi di Tocca qui e la mia urgente voglia di distinguermi, mi fanno appassionare a questo nuovo genere chiamato rap e all’hip hop. Trovo in edicola il primo numero di Aelle (unica pubblicazione italiana in materia), che mi serve da Bignami per imparare a discernere le basi. Il resto lo imparo anche grazie a Venerdì Rappa, trasmissione condotta da Albertino in tarda serata ogni venerdì. Lascio la registrazione con l’autoreverse e vado a letto. Il giorno dopo, la porto con me nel walkman e inizio la mia personalissima scuola privata. È così che metto un po’ di bandierine su una gigantesca mappa senza punti cardinali.

    Il rap è uno stile musicale nato a metà degli anni ’70 negli Stati Uniti e in quel sostrato culturale, insieme a graffiti, breakdance e djing, ha formato un vero e proprio movimento, l’hip hop. Il suo codice di identità – vestiario, tradizioni, slang e abitudini – accomuna tutte le persone che si avvicinano a questa cultura. Il rapper Krs-One ha detto: Il rap è ciò che fai, l’hip hop è ciò che sei.

    Parlare seguendo il ritmo di una base strumentale non richiede una preparazione classica in ambito di teoria musicale: devi sapere stare a tempo, il che spesso è più un istinto, e sviluppare da solo le tue capacità. Non ti è richiesto di essere intonato, di conoscere le note e le scale. Il creare qualcosa partendo dal nulla ha consentito a chiunque avesse un concetto da dire (o anche no) di esprimersi, senza fare distinguo o preselezioni di sorta a seconda della preparazione scolastica in materia. Il rap è perciò uno strumento fortemente democratico e meritocratico, a cui tutti possono avere accesso.

    Nei movimenti giovanili italiani dei primi anni ’90 l’hip hop ha trovato nei centri sociali una casa in cui potersi fare le ossa, insieme alla cultura punk, al reggae e ad altre derivazioni minori. Ci si riferiva spesso a questo periodo come l’era delle posse, riunendo tutta la produzione alternativa di quegli anni, ma spesso facendo confusione tra i generi. All’epoca, infatti, il rap veniva utilizzato come strumento di comunicazione musicale anche da artisti e gruppi che c’entravano poco con il movimento hip hop italiano. Oggi saprei dire con estrema consapevolezza la differenza tra Curre Curre Guagliò dei 99 Posse e Cani sciolti dei Sangue Misto ma al tempo la differenza mi era davvero poco chiara, perché pochissime erano le fonti a cui potevo attingere per capire le differenze. Vasco Rossi e i Queens Of The Stone Age fanno rock, ma non sono la stessa cosa, giusto? No di certo. L’hip hop nei suoi dettami è giustamente rigido, quasi formulaico: due piatti, un microfono e un campionatore. Le altre varianti erano da considerarsi spurie. Fare confusione era abbastanza facile per me in quel momento.

    Legato a doppio filo al rap c’è anche il writing, l’arte dei graffiti, più banalmente conosciuta come che cosa vuol dire quella cosa che hai scritto sui muri? o (più arcaico) se prendo questi che mi hanno sporcato la serranda, gli uso la bomboletta come deodorante per le ascelle.

    L’ANNO DEL CONTATTO

    (1995)

    MOMENTO PIÙ ALTO: Viaggio per andare ad acquistare le bombolette spray in un grande magazzino. Immaginate due ragazzoni di 1 metro e 90 su un Sì Piaggio che impenna naturalmente per il nostro peso. Se non sapete di che motorino sto parlando e soprattutto siete là a dire: Motorino? Ma sei proprio un matusa! Si dice ‘scooter’!, vi consiglio di googlare il mezzo in questione.

    MOMENTO PIÙ BASSO: Prime convulsioni di disperazione di mia madre perché le viene sottratto il figlio bravissimo e bellissimo dalla dura legge della strada e da un ragazzo drogato (che non è vero, però, ti porta in brutti giri quello là!).

    Nel 1995 in una cittadina come Avellino, con poco più di cinquantamila abitanti, gli appassionati dell’hip hop sono quattro. Attorno al mese di novembre, una domenica pomeriggio incontro in discoteca un ragazzo poco più grande di me di nome Alessandro. Indossa la maglietta dei Das Efx (gruppo semisconosciuto di New York). Ci riconosciamo come fratelli perché anch’io, portando i pantaloni di mio zio Mimmo di quattro taglie più grandi, rispondo al codice di vestiario predefinito. Alessandro diventa il mio partner in crime, anche se vive con sua mamma in provincia di Ravenna e ritorna ad Avellino di tanto in tanto a trovare il resto della famiglia. Veniamo eletti cliente del mese, del semestre e del biennio della Sip (l’attuale Telecom Italia) per l’intenso traffico settimanale di interurbane. L’ufficio vendite e i contabili del colosso di telefonia vengono motivati nella giornata lavorativa da nostre gigantografie appese ai muri dei loro uffici, affiancate a quelle di Scalfaro (allora Presidente della Repubblica).

    Al telefono ci cantiamo a vicenda (strettamente senza base musicale) le strofe dei nostri primi rap, finché verso fine anno non decidiamo di formare un gruppo che usi il dialetto avellinese per preservare la nostra identità territoriale dalle ingerenze esterne. Lo chiamiamo 15/ (leggi: barrato).

    Il nome lo sceglie il mio compare. Credo si tratti del numero di un autobus, ma me lo faccio andare bene. Entro a far parte anche della crew di writing formata dallo stesso Alessandro, denominata KCS (Kella Cessa è Soreta / Karramba Che Sorpresa). A rileggere oggi i nomi non sembrano tanto a fuoco, ma allora sicuramente ci suonavano più cattivi di Ragazzi Italiani o Piglia Questo (Take That), i gruppi che andavano per la maggiore. Col tempo si aggiungono al gruppo anche Daniele, Alfredo e poi Giuseppe e Pietro.

    Il resto ce lo inventiamo da soli dando sfogo alla nostra fantasia. Le limitazioni ti rendono creativo. Nessuno di noi è bravo a disegnare ma ci cimentiamo con lo spray; non abbiamo studiato musica, ma scriviamo delle canzoni in rima; non sappiamo nulla di danza ma ci spacchiamo le ossa cercando di emulare sul pavimento quello che vediamo nelle videocassette recuperate con mezzi di fortuna. È lì che, scherzando, nasce una parte importante di ciò che sono oggi. I miei soci di allora sono due animali rarissimi: Alessandro è un capobanda estroso e intelligente che ci sprona a distinguerci a tutti i costi, perché vuole (anche per semplice campanilismo) che ci facciamo un nome senza venire considerati da meno dei nostri coetanei delle altre province della Campania. Oggi che tutto il mondo è paese e che viviamo lontani dalla nostra terra, se incontriamo un ragazzo di Benevento o di Salerno ci sentiamo in qualche modo a casa, ma all’epoca sapersi differenziare era il motto di ciascuno.

    Domenico, invece, è nato a Milano e si è trasferito successivamente a Chiusano di San Domenico, di rado gli ho sentito dire una parola in dialetto. Scrive in un italiano forbito, da letterato. È scioccante la maniera in cui domina il vocabolario a poco più di diciott’anni. Domenico mi dà il La per far uscire cose che sono già dentro di me: in fondo sin dalle elementari sono il più bravo a scrivere i temi, non il più diligente ma il più originale.

    Sono anche gli anni di Michael Jordan, i campioni americani sono icone globali e ambasciatori di un nuovo modo di pensare l’abbigliamento sportivo, così mi appassiono alla pallacanestro. Le divise, i cappellini, le scarpe escono dal campo di gioco e diventano parte della moda di tutti i giorni. I giovani rapper americani mettono le Nike di Jordan, Penny Hardaway o di Barkley. Nel 2018 i giocatori di basket si vestono come dei rapper. Sono due culture che s’intrecciano.

    PRIMO GRUPPO RAP, I SANGAMARO

    (1996-1998)

    MOMENTO PIÙ ALTO: Scelgo Ghemon come nome da rapper, ispirandomi al silenzioso samurai Goemon del cartone animato Lupin III.

    MOMENTO PIÙ BASSO: Primo esaurimento nervoso di mia madre + prima formulazione di anatemi lanciati da mio padre, così composti: nomi di Santi e beati, animali di vario tipo e specie, parole al contrario, iperboli e parallelismi tra la mia testa e i genitali maschili.

    Tutto inizia così: registriamo le prime cose in cantina, in presa diretta su tape. Davide, già mio compagno alle scuole elementari, sta muovendo i suoi primi passi come dj e in cantina ha tutto il necessario per una jam improvvisata: mette una base strumentale al giradischi e noi ci alterniamo col microfono a fili, recitando le parole che abbiamo scritto sui nostri quaderni. All’inizio ho il fiato corto, nemmeno so come e quando respirare per dire una frase intera sul beat. Continuiamo però con entusiasmo, e iniziamo a fare il giro dei locali per poter organizzare delle serate a tema, invitando gli altri pazzi del Centro Sud che hanno la nostra passione. Arrivano macchinate da ovunque e tutti abbiamo accesso al palco. Artisti e pubblico sono le stesse persone, per il concetto di democrazia del rap.

    Nel 1998 non ho ancora internet (!!!), perciò, per trovare altri appassionati/adepti dell’hip hop, lasciamo un appello scritto, contenente anche i nostri numeri di telefono, sulla bacheca di un negozio di dischi, il mitico Ananas & Bananas (poi Camarillo Brillo).

    Se siete arrivati vivi fin qui, sappiate che è in questo periodo che si paleserà Domenico, a bordo della Ford Skorpio azzurrina del padre, su cui iniziano i nostri drive by sul lungomare di Mercogliano (paesino ai piedi del santuario di Montevergine, mille metri di altezza). Decidiamo di formare il duo Sangamaro, mutuandolo dall’espressione Farsi il sangue amaro, cioè prendersela a male. È un nome che suona bene e con un alone da poeti maledetti.

    Accantonato il dialetto, perché io e Domi scopriamo di conoscere l’italiano decisamente meglio (livello: quinta elementare), iniziamo a scrivere i primi pezzi su strumentali prese da singoli in vinile di artisti americani, recuperati qua e là in negozi di fortuna. A ogni jam o microfono aperto di cui veniamo a conoscenza, noi ci siamo. In una delle tante serate in giro per le province della Campania, incontriamo Fabio e Pio (conosciuti come Musta e Dj Pio), già attivi con varie produzioni indipendenti ufficiali in ambito hip hop italiano, col nome DCP (Dentro al Covo Produzioni). Questi ultimi diventano i due membri fantasma del gruppo, iniziando a collaborare assiduamente con noi, ma non facendo mai parte della formazione ufficiale.

    Dalla cantina passiamo al covo, cioè i loro piccoli ma funzionali studi casalinghi a Sarno ed Eboli. Non si accetta la battuta Cristo si è fermato a Eboli dopo aver sentito le tue prime canzoni, perché profondamente scorretta nei confronti di chi scrive.

    A diciassette anni incido il primo demo (lo trovate sicuramente su YouTube col nome di Sangamaro) nei pomeriggi liberi o nei fine settimana, e miglioro la mia tecnica registrazione dopo registrazione. È il confronto con un mondo nuovo, in cui le persone sapranno che esisto senza conoscermi dal vivo.

    Sono certo che siamo bravi e so che ci stiamo distinguendo sul serio. Verso la fine delle scuole, complice il film Space Jam con MJ e i cartoni animati Looney Tunes, scopro che mi piace il singolo principale della colonna sonora (I Believe I Can Fly di R. Kelly). Inizio a cercare di più sull’argomento e piano piano recupero anche altri dischi di questo genere chiamato R’n’B, quello che una volta era il rhythm and blues, che ormai è molto simile al rap nel fraseggio e nelle strumentali, ma che sostanzialmente viene cantato invece che scandito. Mi piace, eccome se mi piace!

    L’innocenza della scena hip hop a volte però si rivela ottusa ignoranza. Per mantenere l’identità di un genere che non è di massa e che deve a tutti i costi evitare di essere commerciale (non so da dove venga questo diktat, dato che in America già spuntano i primi macchinoni nei video) bisogna mantenerlo più puro e vicino alla forma originale. Che un pezzo rap abbia una parte cantata è assolutamente vietato e se succede viene bollato come una via di mezzo non conforme, soprattutto in un Paese come il nostro che non ha quasi mai concepito musica black in italiano. Il fatto che per me non ci sia distinzione tra questi stili musicali (che di fatto sono fratelli, al massimo cugini) mi rende, come minimo, strano.

    Mentre divoro un disco dopo l’altro e sfamo la mia immensa curiosità sul rap, il movimento in ambito soul e R’n’B negli Stati Uniti sta rinascendo attraverso le sue nuove generazioni. Scopro Music of My Mind, un album classico di Stevie Wonder e allo stesso tempo mi imbatto in Baduizm di Erykah Badu, originalissima dea della musica afroamericana.

    PRIMO DISCO DEI SANGAMARO

    (2000)

    MOMENTO PIÙ ALTO: Compio diciott’anni. Ex aequo: vengo eletto Mister Liceo. Non commentate.

    MOMENTO PIÙ BASSO: Grazie ai nostri nuovi amici conosciamo anche i loro genitori che, di diritto, partecipano al monte ore di sonno per notte delle nostre famiglie. Grazie a questa aggiunta, riusciamo a farli dormire fino a un totale di 5 h x 4 coppie, distribuite su ogni weekend, con in regalo due esaurimenti nervosi e una fornitura di camomilla solubile per un anno.

    Negli ultimi giorni di gennaio Bloodstains dei Sangamaro viene stampato in 250 copie su cassetta, contiene 11 canzoni scritte da noi e musicate da Musta e Dj Pio. In aprile, il giornale Aelle lo recensisce come uno dei prodotti migliori dell’anno. Iniziamo a fare le nostre prime apparizioni anche fuori dalla regione: la prima in Calabria, a Praia a Mare, poi ancora a Roma, due volte di seguito in pochi mesi, più infinite volte in qualsiasi anfratto esistente all’interno dei confini campani. Alcuni sparuti detrattori (nel 2000 non erano ancora stati inventati gli haters) sostengono che non siamo all’altezza perché facciamo il rap in milanese.

    Il 25 gennaio – me lo ricordo perfettamente – compro Voodoo di D’Angelo, che tuttora considero il mio album preferito. È soul nella tradizione di Marvin Gaye, di Prince, ma riveduto e corretto, aggiornato al suono di oggi coi migliori musicisti e produttori del mondo hip hop. Gli stessi che poi sono su Like Water for Chocolate di Common e Things Fall Apart dei The Roots o per via traversa su Aquemini degli Outkast, e ancora gli ATCQ, J Dilla, Dwele, gli Slum Village e così via. I miei rapper e cantanti preferiti sono uno sul disco dell’altro… Avevo ragione. Anche se a molta gente non sembra così, questi mondi sono assolutamente uniti o perlomeno contigui!

    Questa consapevolezza influenza tantissimo il mio approccio con la musica che sto facendo e la maniera di scrivere. Se prima mi concentravo su testi che potevano sembrare un rebus, incastrati tecnicamente come un cruciverba, fatti per e dagli stessi che li avrebbero poi ascoltati, adesso inizio a desiderare di poter parlare delle cose che sto vivendo, a capire come si può raccontare una storia.

    Il ragazzino in controdipendenza dal mondo inizia a far posto all’ometto che vuole parlare di ciò che sente.

    ROMA

    (2001-2004)

    MOMENTO PIÙ ALTO: Primi play-off della Scandone Avellino contro la Virtus Roma e un Roma-Barcellona 3-0 vista allo stadio Olimpico.

    MOMENTO PIÙ BASSO: Il pomeriggio in cui, nell’aula studio dell’università, fisso una ragazza carina per tutto il pomeriggio, finché non mi alzo e le consegno un bigliettino con su scritto: Ah però!. Quando a fine giornata mette via i libri, esco anch’io e davanti all’entrata le dico: Scusami, non vorrei sembrarti uno stalker, ma dal primo momento che ti ho vista volevo chiederti… (momento di suspance) … per che squadra tieni?.

    In settembre mi trasferisco a Roma per frequentare Scienze Giuridiche alla Luiss. Convivo per qualche mese con l’amico d’infanzia Remigio (con cui ho smesso di fare la classifica delle ragazze più belle) in zona quartiere Africano; dopodiché mi sposto in un piccolo appartamento dove vivo da solo fino all’arrivo di mia sorella Serena, due anni dopo.

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