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L estate dei dieci temporali (eLit): eLit
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L estate dei dieci temporali (eLit): eLit

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Le indagini di Milena Costa vol. 1

Il vicequestore aggiunto Milena Costa non è donna da fermarsi di fronte agli ostacoli, soprattutto se il suo fiuto le suggerisce che l'apparenza inganna. Nella sua città vengono scoperti, in casa, i cadaveri di alcuni anziani e, anche se all'apparenza nulla lascia pensare a un omicidio, lei è convinta che qualcosa di strano si celi dietro questi ritrovamenti: una serie di indovinelli, recapitati via posta, sembra infatti preannunciare quelle morti. Decisa a non tralasciare il seppur minimo particolare che la possa aiutare a risolvere quel caso complicato, Milena inizia a scavare in un passato che si rivela subito scomodo, perché incredibilmente vicino al suo, e che la riporta a una estate di tanti anni prima, caratterizzata da improvvisi temporali.

Una Sicilia reale, lontana dai soliti stereotipi, fa da sfondo con le sue atmosfere a un romanzo che non è solo un giallo, ma anche l'intensa storia di due donne.

ROMANZO INEDITO
LanguageItaliano
Release dateAug 31, 2017
ISBN9788858973707
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    L estate dei dieci temporali (eLit) - Mariella Sparacino

    1

    La leggera brezza del mattino si era trasformata in un forte vento di scirocco che portava in città la sabbia del deserto e rendeva il cielo di un giallo spento e l'aria ruvida come carta vetrata. La coda dell'estate sfiorava già i bordi dell'autunno e la sera avanzava sempre più in fretta, ma di certo avrebbe continuato a far caldo per diverse settimane ancora.

    Non era quello il momento migliore della giornata per tornare, dopo molti anni, nella casa in cui ero nata e cresciuta a cercare lo scialle di pizzo nero di mia madre.

    Mia madre.

    Era partita una mattina di fine aprile per raggiungere sua sorella in Australia: primo e unico viaggio della sua vita, e non era più tornata.

    «Possibile che non riesci a trovarlo quel benedetto scialle?» chiedeva immancabilmente a ogni telefonata e io cominciavo a sospettare, anzi a temere, che i nostri rapporti sopravvivessero solo grazie a quel capo d'abbigliamento. E chissà che non fosse proprio quel pensiero a impedirmi di cercarlo.

    Guardai il cielo, adesso notevolmente più scuro e per certi versi angosciante. Non mi sorrideva l'idea di affrontare la mia vecchia casa e i suoi ricordi in quell'atmosfera carica di sabbia e di inquietudini, così rallentai il ritmo dei passi sui lastroni lisci del corso principale, i valatuni, che rendevano precario il mio equilibrio, sospeso sui tacchi alti.

    Imboccai il vicolo dietro il teatro comunale, mentre l'orologio della piazza batteva le sette, e al mio incipiente senso di colpa dissi che era troppo buio adesso per entrare in quella casa avvolta da ombre, oscurità e solitudine.

    Da qualche parte, una finestra sbatté con fragore di vetri e un cane abbaiò. Avevo la bocca asciutta e i capelli pieni di polvere e non desideravo che tornare nel mio appartamento e, dopo un bagno caldo, sprofondare nel nulla di un maniacale zapping televisivo.

    Il vento si era fatto impetuoso e lo respirai a occhi chiusi. Ma non sapeva di casa, né di ricordi, l'odore violento che improvvisamente colpì il mio olfatto. Mi guardai intorno, girando su me stessa al centro della strada deserta. Sì, il tanfo della morte era inequivocabile e sembrava provenire dalla casa di Giuseppina Cesarò, meglio conosciuta come a majara, la megera, per la sua fissazione di predire il futuro.

    Avevo lasciato borsa e telefono in ufficio, come al solito, per cui tornai indietro di qualche decina di metri e suonai il campanello di una casa vicina. Quando, dopo lunghi secondi, la porta si aprì, mi trovai di fronte la signora Mariannina. Vista da lontano, con il suo fisico alto e snello, potevi anche pensare che avesse fatto un patto col diavolo, ma da vicino senza un filo di trucco e con i capelli biondo cenere spettinati, come mi appariva adesso, gli anni pesavano eccome sul suo viso incartapecorito e sulle braccia cariche di gioielli e vene blu.

    Naturalmente la conoscevo bene, visto che in quel quartiere ero nata e cresciuta, ma sperai vivamente che fosse lei a non riconoscere me.

    «Buonasera, sono Milena Costa...» Evitai di specificare il mio titolo di dirigente del locale commissariato.

    «Buonasera, chi è lei?» Si asciugò le mani sul grembiule che copriva una vecchia vestaglia di un azzurro stinto.

    «Milena Costa...»

    «La figlia di Carmelina? Come sta la mamma?»

    «Sta bene, grazie.»

    «Ma che, ha intenzione di restare in Australia?»

    Bella domanda! Anch'io avrei voluto conoscere le intenzioni di mia madre...

    «Me la deve salutare tanto, tanto. Beddamatri, come passa u tiempu!»

    «Già, il tempo passa quando ci si diverte...» mormorai. Lei non afferrò il mio sottile umorismo e se ne venne fuori con un mezzo sorriso, una scrollatina del capo e un eeeh, tipico di chi fa solo finta di capire. La sua titubanza mi permise comunque di andare subito al nocciolo della questione.

    Seppi che erano tre giorni almeno che la Cesarò non si vedeva in giro, ma che non era un fatto insolito perché a volte spariva per qualche tempo.

    Le chiesi di chiamare lei il commissariato, perché avevo fretta di tornare a casa della majara, nonostante avessi l'amara consapevolezza che ogni umano affanno fosse, a quel punto, semplicemente inutile.

    La porta finestra della casa sembrava chiusa dall'interno, ma uno degli sportelli era appena accostato e non mi fu difficile rompere il vetro, infilare un braccio e aprire il chiavistello dall'interno. L'operazione non fu precisamente silenziosa e presto sentii posarsi su di me gli sguardi curiosi dei vicini. Deglutii un paio di volte per ricacciare la nausea, mentre l'aria fetida mi faceva lacrimare gli occhi; e tenendo un fazzoletto premuto su naso e bocca, entrai.

    La casa non era il macabro antro della strega che avevo teorizzato da bambina; non c'erano pentoloni, né gabbie con ingenui fanciullini dentro: solo il cadavere di Giuseppina Cesarò. La sua testa era riversa contro l'alto schienale intagliato della sedia e la bocca spalancata in un urlo silenzioso che lasciava scoperti i denti, gialli e irregolari come antiche canne d'organo tarlate. A guardarla da vicino, col viso alterato dalla morte e il corpo disfatto da un avanzato stato di decomposizione, mi sembrò più vecchia di quanto ricordassi. In realtà, nessuno sapeva quanti anni avesse di preciso. Era una di quelle persone col tempo in bilico sul volto, senza un'età precisa, come se non fosse mai stata giovane, e ormai non avrebbe potuto essere più vecchia di così.

    Nella mia memoria, aveva avuto sempre quella faccia, con gli occhiali dai vetri fumé a nascondere uno sguardo di fuoco. La ricordavo mentre passava per la strada con i suoi vestiti sgargianti, l'andatura a gambe larghe, dondolante ma decisa, l'antiquato cappellino con la veletta, la borsetta nera dal manico piccolo e rigido, che teneva col braccio piegato a novanta gradi, come se dovesse porgerla a qualcuno.

    Un personaggio d'altri tempi, che aveva terrorizzato, e insieme affascinato, i filuvespiri della mia infanzia, i caldi pomeriggi che le brave persone dedicavano alla siesta, mentre per le strade si aggiravano i malafruscùli e u monacu saccunaru, esseri malvagi che rapivano i bambini, infilandoli in fetidi sacchi o in un cesto, come minacciava il monaco dal grande sacco: Sugnu u monacu saccunaru e t'anfilu 'nto panaru!

    La mia età matura aveva privato la majara dell'antico fascino perverso, restituendole sembianze banalmente umane, mentre il flash della morte, scattato nell'infinitesimo istante di un battito di ciglia, le aveva lasciato sul volto una espressione di angosciante incredulità.

    Distolsi lo sguardo dalla vittima e lo concentrai sul tavolo che le stava davanti. Era coperto da una tovaglia di plastica colorata con sopra una bottiglia d'acqua piena per metà, un bicchiere vuoto e otto carte divinatorie, sistemate in un cerchio quasi perfetto, rovinato dall'ultima carta alla sua sinistra, scivolata sul pavimento.

    Mi abbassai e la presi delicatamente, aiutandomi con un fazzolettino: la nera signora con la falce.

    «Se ha fatto le carte per sé, ci ha proprio azzeccato!» mormorai, mentre la sirena di una volante si spegneva con un ultimo lamento davanti alla porta.

    L'ispettore Macaluso entrò come una furia e, quando mi vide, non riuscì a dissimulare del tutto l'irritazione. Sapevo di non essere nei primi tre o quattrocento posti della sua personale hit-parade dei vice questori, ma devo ammettere che anche la mia simpatia nei suoi confronti era notevolmente sotto il livello di guardia.

    Basso, tarchiato, con grossi baffi che coprivano labbra inesistenti, aveva una voce che sembrava uscire da un buco totalmente opposto a quello della bocca. Sentirlo parlare era come leggere uno dei suoi noiosi rapporti e cominciavo a sospettare che si esprimesse in quel modo anche per ordinare un caffè o perfino nell'intimità coniugale.

    Decisi di non dirgli che era stato il caso a farmi arrivare prima di lui in casa della majara e che, di certo, avrei preferito evitare quell'ennesimo contatto con la morte, combattuta come ero, da sempre, tra il senso del dovere e la voglia di rifuggire dal dolore e dalle tragedie dei miei simili.

    Macaluso, bontà sua, aveva già risolto il caso.

    «Porta chiusa, nessun segno di effrazione o di violenza; probabilmente il decesso è dovuto a un attacco di cuore. Il corpo è stato scoperto grazie a una telefonata anonima.»

    Feci una smorfia: la gratitudine non era esattamente il mio sentimento primario nei confronti di chi trovava coraggio solo all'ombra dell'anonimato; mi chiesi quando i miei concittadini avrebbero capito che non c'era nulla di compromettente a lasciare il proprio nome alla polizia.

    «Sono stata io a far telefonare in commissariato, ispettore» specificai.

    «Davvero?!» Sembrò deluso.

    «Chiami Caronia» risposi.

    «La scientifica?!»

    «Qualcosa in contrario?» La sua faccia assunse una palese espressione da: Chi me l'ha mandata questa?, ma non fece altre discussioni.

    Già, cosa mi aveva riportata lì? Perché ero venuta in quella casa? Perché mi intestardivo a stare in quella città? Perché mi ostinavo a fare quel lavoro in un mondo di uomini che malvolentieri sopportavano di essere comandati da una donna? La mia vita era piena di domande lasciate in aria, come le nuvolette di un fumetto: tanti punti interrogativi, nessuna risposta. Non una sensata, almeno.

    Mi avvicinai alla porta. Scostai le tendine, fragili e ingiallite come foglie d'autunno, e guardai fuori nella notte logorata dal vento. L'indicatore del mio morale segnava nettamente sconforto e avevo voglia di andare a infilarmi nel letto e affogare in uno di quei sonni purificatori che al mattino ti fanno scordare chi sei, sia pure per pochi misericordiosi istanti.

    «Dottoressa...?»

    Ritirai le dita dalla tenda e mi girai di scatto come una scolaretta sorpresa dalla maestra a fantasticare. «Sì?...»

    «Il medico legale è arrivato» disse un agente.

    «E la scientifica?»

    «L'ispettore Caronia è entrato adesso.»

    «Quando avrà finito, dite a Macaluso di chiamare in procura per l'autorizzazione a rimuovere il corpo. Dov'è il medico legale?»

    «Eccolo» fece una voce alle mie spalle.

    «Buonasera, dottor Iemmolo» mormorai, senza far nulla per nascondere il mio disappunto.

    Di tutti i medici legali, proprio lui doveva capitarmi ogni volta! Alto e magrissimo, mi dava l'idea di un rotolo di pasta morbida, allungata maldestramente col matterello. I capelli, ribelli e ancora nerissimi, coprivano solo la nuca, mentre un baffetto a farfalla, pallido di nicotina, proprio al centro del labbro, faceva della sua faccia un incrocio tra Charlot, Oliver Hardy e Hitler. Sprizzava ansia da tutti i pori, il dottore, ansia che, immancabilmente, finiva per adagiare su di me. Qualcuno lo aveva soprannominato curri ca ciovi, perché sentirlo parlare era come assistere al fuggi fuggi di una folla, sorpresa da un improvviso acquazzone.

    «Dottor Iemmolo, le abbiamo rovinato la serata?»

    «Dottoressa carissima!»

    Assunse subito la sua posizione preferita, quella a uso e consumo del genere femminile: braccia incrociate, testa alta, petto in fuori, dondolio sui piedi, punta e tacco, tacco e punta, avanti e indietro. Non si poteva guardare a lungo quel pendolo umano senza rischiare il mal di mare.

    «No di certo. Anzi. Mi ha solo distolto da uno di quegli insulsi programmi in cui, per-stupide-risposte, danno un sacco di soldi.»

    Nelle sue frasi le parole cominciarono a prendere velocità, unendosi fra di loro. Sollevai mezzo labbro, ma più che un sorriso fu una smorfia di insofferenza; lui sembrò non accorgersene.

    «... secondo lei non è più redditizio partecipare a uno di quei giochi che lavorare tutta la vita? Ah, uno-di-questi-mesi telefono e mi iscrivo anch'io... Ma lo sa che la-trovo-sempre-più-affascinante?»

    «Forse perché non mi ha cercata bene.» Appoggiai la battuta, delicatamente, sul percorso delle sue idee e, quasi avessi tirato un freno di emergenza, le parole del dottore gli si ribaltarono in gola fino a diventare mugugni: uhm, ehm uh di fine corsa. Ne approfittai per assumere il controllo della conversazione.

    «Quando e di cosa è morta?» chiesi senza esitazioni.

    «La morte dovrebbe risalire ad almeno quattro giorni fa, forse di più...» farfugliò. «Credo sia stato un infarto...»

    «Crede...?»

    «Tutto sembrerebbe portare a questa ipotesi.»

    «Morte naturale, quindi...»

    «Sì, anche se l'attacco può essere stato provocato da un principio di soffocamento, a giudicare dal volto cianotico.»

    «E cosa l'avrebbe soffocata?»

    «Non ne ho idea. Potrebbe esserle andata di traverso anche un po' di quell'acqua nel bicchiere...»

    «Come dire che sarebbe annegata in un bicchier d'acqua?»

    «Non proprio. Forse si è sentita soffocare e il suo cuore non ha retto. Vuole chiedere lo stesso l'autopsia?»

    «Penso proprio di sì. Grazie. Se vuole scusarmi, adesso...»

    E prima che potesse aggiungere altro, gli girai le spalle e cominciai il mio giro di ricognizione.

    La casa era piccola e squallida. A parte la stanza da letto e quella in cui mi trovavo, c'erano un cucinino e uno stanzino che fungeva da bagno. Lanciai un'occhiata di disgusto al water e tornai in cucina. Aprii gli sportelli sotto il lavabo ma, oltre a un forte odore di fogna e di gas, a pentole e a mestoli anneriti, non trovai nulla di interessante.

    Fu mentre stavo per uscire che notai il mucchietto di cenere.

    «Ispettore Caronia, guardi un po' qui...»

    «Cos'è?»

    L'ispettore della scientifica venne alle mie spalle. Era alto, con un'espressione giovanile sul volto da cinquantenne e un corpo d'atleta solo leggermente appesantito dagli anni. Gli occhi uno verde intenso, l'altro marrone, i capelli folti e ricci, da un lato quasi grigi, dall'altro ancora scuri, gli davano l'aspetto di una sorta di identikit eseguito sulle indicazioni di un testimone indeciso. Per il resto, era divorziato, aveva un raro senso dell'umorismo e sospettavo nutrisse per me un interesse che esulava dal campo strettamente professionale.

    Si sporse dentro il lavandino e manovrò con destrezza una pinzetta, afferrando un piccolo lembo di carta, scampato al fuoco. «Sembrerebbero i resti di una busta.»

    «Quante possibilità ci sono di risalire a qualcosa di concreto?»

    «Zero. Se siamo fortunati forse riuscirò a decifrare il timbro postale, ma non prometto nulla.»

    «Avete trovato niente di interessante di là?»

    «Non ancora.»

    Lo seguii nella stanza da letto, minuscola e senza finestre, che mi diede un vago senso di claustrofobia. Le strisce di plastica color legno attaccate alle pareti non riuscivano più ad arginare l'umidità.

    Il mio sguardo passò dal tappeto infeltrito, al quadro raffigurante un inquietante Cristo col cuore in mano, per finire dentro l'acqua decisamente sporca di un bicchiere sul comodino. Di una cosa finora potevamo essere certi: la majara non era stata una ossessionata dalle pulizie.

    L'armadio non sembrava nascondere scheletri, ma solo vestiti e calze gettati alla rinfusa insieme a un forte odore di sudore stantio e di profumo scadente. Il comò aveva un cassetto socchiuso. Lo aprii con un forte senso di disagio: quello che mi dava più fastidio al pensiero della morte era che estranei potessero mettere il naso tra le mie cose, rovistare nel mio passato e nei miei ricordi.

    Il cassetto si aprì solo per metà; passai una mano sul fondo e, quando la ritirai, stringevo un vecchio quaderno, con la copertina verde bottiglia, tutto stropicciato.

    «Guarda, guarda... il diario di bordo della majara...» dissi, facendo scorrere le pagine su cui erano stati tracciati, con segni incerti, le dosi di strane misture. Lo misi da parte e cominciai a frugare tra golf e canottiere di lana infeltrita, finché le mie dita non si fermarono su una scatola di latta con dentro ricette mediche, il libretto della pensione, scontrini fiscali, santini e una busta dai bordi blu e rossi, di quelle usate solitamente per la posta aerea. L'inchiostro era sbiadito, ma il nome di Francesco Re e il suo indirizzo erano ancora leggibili e scritti in elegante grafia. Guardai il francobollo straniero, argentino, per la precisione, e il timbro che risaliva a diversi anni prima.

    «Dottoressa?»

    «Sì?» Richiusi il cassetto e con la busta ancora in mano mi diressi verso l'ispettore.

    «C'è un mattone che traballa sotto il tappeto, proprio dove è lei adesso.»

    «Davvero? Pensa sia importante?»

    «Non saprei, ma gli anziani hanno l'abitudine di riporre cose nei posti più impensati: può darsi che sia un nascondiglio.»

    Mi avvicinai incuriosita, infilando distrattamente la busta in una tasca della giacca.

    Caronia tolse il tappeto e si abbassò.

    «Questo mattone è stato sicuramente rimosso, vede? Manca il cemento tutto intorno...»Vedevo perfettamente. «E qui sotto è vuoto.» Batté le nocche della mano destra sulla mattonella. «Non riesco a tirarlo su... Servirebbe qualcosa di più consono delle mie unghie, per far leva. Proviamo con questa.» Prese un mazzo di chiavi dalla tasca e con la più sottile fece leva e alzò il mattone.

    M'inginocchiai accanto a lui e insieme guardammo dentro l'apertura. «È più grande di quanto mi aspettassi» constatai, lasciando scivolare dentro la mano. «Sembra vuoto... no, aspetti, c'è un altro buco qui in fondo, però non ci arrivo.»

    «Lasci fare a me.» Caronia si sdraiò sul ventre e allungò il braccio, ritirandolo insieme a un piccolo scrigno in metallo. «Che diavolo sarebbe?»

    «Sembra il forziere di un tesoro...» osservai, affascinata dall'intarsio della scatola.

    «Magari c'è davvero un tesoro, però è chiuso a chiave...»

    «Dia qua, ci penso io.» Tornammo nell'altra stanza e appoggiai la scatola sul tavolo, forzando dopo alcuni tentativi il lucchetto che la chiudeva. «Come ladra non avrei fatto molta strada...» commentai, aprendo il cofanetto con una lentezza esasperante, mentre Caronia sembrava quasi in apnea.

    «Cos'è?!» chiese impaziente, mentre posavo sul tavolo un involucro di panno grigio.

    «Chissà che c'è dentro...»

    «Perché non lo apre così lo scopriamo?» si spazientì lui.

    Usai la stessa delicatezza di prima per aprire il pacchetto e scoprire una busta gialla e una foto: una vecchia istantanea con cinque persone sedute su un muretto, con il mare sullo sfondo. La foto era in pessimo stato di conservazione e i volti resi irriconoscibili da grandi macchie gialle; solo una cosa era certa, due di loro erano donne. Sul retro c'erano il timbro del fotografo e una scritta: raffrontai la grafia con quella del quaderno che avevo appena trovato e giunsi alla conclusione che la frase non fosse stata scritta da Giuseppina Cesarò.

    «Cosa sarebbe questa estate dei dieci temporali?» chiese l'ispettore Caronia.

    «Non lo so, forse un modo per indicare l'anno in cui è stata scattata la foto.»

    «Non era più semplice mettere la data?»

    «Lo vada a chiedere alla majara, forse non l'hanno ancora portata via.» Posai la foto e presi la busta. «Niente indirizzo, niente timbro postale.» Tirai fuori un foglio a quadretti, piegato a metà, e un pezzetto di stoffa scura, ruvida, a trama spessa, sulla quale era stata ricamata in rosso la frase: L'estate dei dieci temporali.

    «Un'estate memorabile, suppongo!» disse Caronia.

    Non risposi e aprii il foglio, strappato maldestramente da un quaderno. C'erano dei versi che sembravano essere stati scritti con un normografo:

    Iu quannu muoru na littra ti mannu,

    nta mpannu niuru, scritta 'n carta bianca:

    la sula cosa ca t'arraccumannu,

    n'arrifriscu mannarimi ppi l'arma.

    «Quando morirò ti manderò una lettera dentro un panno nero, scritta su carta bianca: l'unica cosa che ti raccomando è di pregare per la mia anima» tradussi.

    «Questa cosa non ha senso!» esclamò Caronia.

    «Forse. Ma se ne ha uno, ho tutta l'intenzione di scoprirlo.» Mi strappai i guanti dalle mani e glieli lanciai.

    2

    Non mi era mai piaciuto svegliarmi presto al mattino e ancora meno mi piacque quel giorno, visto che ero andata a letto alle due passate e avevo faticato non poco ad addormentarmi.

    Lo sguardo attonito della majara mi aveva perseguitata durante il sonno leggero e agitato in cui mi ero dibattuta fino alle prime luci dell'alba e, quando alle sette la radio sveglia aveva inondato di musica da quattro soldi la stanza, ero tornata alla realtà come se uscissi da un coma profondo.

    Mi ostinavo a tenere la radio ben lontana dal letto e sintonizzata su una frequenza che detestavo, così da essere costretta ad alzarmi per mettere fine allo strazio sonoro: era una delle decine di trappole che avevo disseminato lungo il percorso della mia vita, per renderlo, se possibile, ancora più complicato.

    Sbadigliando fino a farmi lacrimare gli occhi, accesi lo stereo e feci scorrere le dita sul dorso delle centinaia di cd, perfettamente allineati. Non sapevo perché ogni volta facessi quella sceneggiata, per poi finire sempre per scegliere i soliti dischi. Inserii il cd e premetti random, così da affidare al caso almeno la sequenza dei brani.

    Chiama la polizia che ho appena fatto fuori la tua bella allegria... La voce di Baglioni risuonò nell'appartamento, mentre mi infilavo sotto la doccia. Strofinai con forza lo shampoo sulle tempie, quasi a voler raschiare con le dita il pensiero di Giuseppina Cesarò che continuava a sovrapporsi a ogni altro, primo fra tutti quello dello scialle di mia madre, la cui ricerca non potevo più rimandare.

    Non avevo ancora finito di togliere via la schiuma che

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