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Ho ballato con uno sconosciuto
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Ho ballato con uno sconosciuto

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"Ogni mattina mi alzo e la prima cosa che faccio è indossare il sorriso." Un gesto semplice ma molto efficace che Carolyn Smith ha imparato da sua madre fin da piccola. Perché per lei sorridere è il modo migliore per affrontare tutti gli "intrusi" della vita, dal decidere se abbandonare la carriera da ballerina il ballo è la sua più grande passione per venire a vivere in Italia alla perdita dei suoi cari, per arrivare fino all'ultimo ospite indesiderato, un tumore al seno. Da lì inizia un periodo molto difficile: una cura lampo per non mollare il lavoro, un'operazione con delle complicazioni, una mobilità compromessa Ma Carolyn non si lascia abbattere e affronta ogni momento con grinta, forza ed energia. Perché per lei anche le cose brutte che possono capitarci alla fine si rivelano delle lezioni di vita importanti grazie alla quale abbiamo l'opportunità di imparare a conoscerci meglio.

Una testimonianza unica, una storia di femminilità e di amore per sé che insegna a fronteggiare qualsiasi sconosciuto sia venuto a bussare alla porta.

LanguageItaliano
Release dateOct 12, 2017
ISBN9788858971772
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    Ho ballato con uno sconosciuto - Carolyn Smith

    BB

    1

    Glasgow, 1979. Stanno per pronunciarlo. Stanno per dire al microfono la coppia che ha appena vinto il campionato scozzese di danza sportiva. I finalisti sono tutti schierati davanti ai giudici federali. Ho diciannove anni, la faccia radiosa e un vestito azzurro con una colata di paillettes che abbiamo applicato una a una io e la mamma.

    Stringo la mano del mio partner. Si chiama Kenny McKechnie, ha la mia stessa età e balla con me da un paio di anni. Anche lui sta per esplodere dalla gioia. Lo sento dalle vibrazioni che mi trasmette la sua mano.

    Ci credo, stanno per pronunciare il nostro numero.

    Stanno per dire il numero cinque, quello ancora appuntato sulla schiena dall’inizio delle gare.

    Abbiamo fatto una performance spettacolare, almeno dieci spanne sopra gli altri. Siamo arrivati tra i finalisti, ma era abbastanza scontato. L’unica coppia davvero competitiva che poteva darci del filo da torcere non è mai arrivata al Plaza Ballroom.

    Partiti da Manchester in direzione di Glasgow, sono rimasti bloccati in qualche angolo della Scozia per un guasto al motore.

    Non sono contenta, perché sono troppo sportiva per godere di una cosa del genere. La vittoria avrebbe avuto un sapore più gradevole, se ci fossero stati loro. Ci saremmo divertiti di più. Purtroppo è successo, mi è spiaciuto, ma ormai stanno per dire il nostro numero.

    «La coppia vincitrice è la numero…»

    Io e Kenny facciamo un passo in avanti. Ho un sorriso che potrebbe illuminare lo stadio di Glasgow.

    «… otto!»

    Il numero otto?

    Non siamo noi.

    Facciamo un passo indietro. Sento Kenny agitarsi accanto a me. Gli afferro il polso forte, fortissimo. Praticamente glielo sto stritolando.

    «SMILE!»

    Tra i denti serrati e dietro il sorriso che non mi sono ancora tolta dalla faccia gli dico di sorridere. Non è un invito, è un ordine.

    «Smile!» gli ripeto.

    E torniamo al nostro posto, in riga con gli altri finalisti.

    La coppia che ha appena vinto il campionato scozzese è la numero otto. Due ballerini che definirli tali è un complimento.

    Com’è potuto succedere?

    L’organizzazione dei campionati era stata affidata a un mio ex maestro di ballo. Mi ero allenata con lui fino ai quattordici anni e mi ero trovata benissimo, perché era avanti di almeno dieci anni rispetto alla media dei tecnici scozzesi. Non lo avrei mai sostituito con nessun altro se non avessimo avuto problemi in famiglia. Ci eravamo dovuti trasferire fuori Glasgow e allenarmi con lui era diventato troppo impegnativo sia per me sia per i miei genitori. Il mio livello era tale che dovevo andare in palestra almeno due volte la settimana e fare quindi quattro ore di macchina, tra andata e ritorno, per raggiungere la città, visto che la distanza era più o meno quella che separa Padova da Milano.

    Convinta che i miei allenamenti stessero creando troppa tensione in casa, stavo quasi per lasciare la danza ma, spinta dai miei genitori, cercammo una soluzione alternativa. Loro non mi avrebbero mai permesso di mollare e avrebbero continuato a portarmi dal mio vecchio allenatore, ma mi sentivo troppo in colpa per l’impegno che gli davo e ci ingegnammo per fare diversamente. Nella scuola del mio allenatore c’era un grande campione disposto a prendermi sotto la sua ala e a farmi da coach in una palestra a dieci minuti da casa. Era la situazione perfetta per tutti, tranne per il mio vecchio maestro che la prese malissimo. Il suo rancore aumentò nel tempo alla luce dei risultati che raggiungevo gara dopo gara. Non riusciva ad accettare che quanto da lui seminato stesse dando i suoi frutti con un altro insegnante.

    Quel campionato era stata la sua occasione per vendicarsi. Poco prima dell’inizio della finale, aveva radunato sul palco tutti i sette giudici della gara e imposto un diktat: «Carolyn Smith non deve arrivare prima!». Mio padre, che faceva lo scrutinatore, si trovava a pochi metri e aveva sentito tutto. Non poté tuttavia fare nulla poiché era la sua parola contro quella degli altri. E la sua parola poteva sembrare leggermente di parte. Se ne stette zitto, anche per evitare che io sbroccassi in pubblico e facessi un casino.

    Accetto il mio secondo posto e mi sforzo di continuare a sorridere mentre assisto alla premiazione della coppia numero otto.

    I glaswegians, gli scozzesi di Glasgow, se li fai incavolare diventano parecchio irritabili. Il pubblico infatti comincia a scaldarsi. Puoi corrompere la giuria, ma non gli appassionati di ballo, quelli non li freghi mai. Sul palco dei federali cominciano a cadere monetine e bottiglie di vetro scagliate con una violenza inaudita. I giudici vengono bersagliati da una scarica di insulti che non finisce più. Scoppia il delirio.

    Con Kenny ne approfittiamo per andarcene. Entro negli spogliatoi, mi cambio alla velocità della luce, raccolgo le mie cose e scappo in macchina con i miei genitori.

    Appena dentro l’abitacolo, urlo con tutta la forza che ho: «Basta, io con le gare ho chiuso!».

    Partiamo.

    Arrivata a casa sono più calma. È stata una sfuriata del momento. Io non lascerò mai la danza, ma faccio a me stessa una promessa: «Nella mia vita non mi farò mai corrompere!».

    Noi Smith siamo così, impariamo anche dalle esperienze negative e affrontiamo tutto con il sorriso. Smile no matter what, ovvero sorridi nonostante tutto, è il mio mantra da sempre e non solo perché ce l’ho nel DNA – Glasgow è anche nota per essere la città del sorriso – ma perché me lo ha insegnato la mamma. Lei era incredibile: aveva un sorriso genuino e un sorriso di circostanza. Quest’ultimo era quello che si stampava sul viso anche nelle situazioni peggiori. Stai affondando nella cacca? Smile, comunque e sempre. Il sorriso turpe era quello che riservava a me quando ne combinavo una delle mie. Era quello che mi faceva dire: «Oddio, a casa mi ammazza!».

    La casa era il posto giusto per sfogarsi, per dare spazio alla rabbia, per mostrarsi indifesi, ma anche per questi sentimenti c’era un limite di tempo. Lamentarsi all’infinito era rigorosamente vietato. Rimboccarsi le maniche, trovare il positivo nelle situazioni peggiori era invece una specie di comandamento.

    Ho fatto mia questa regola di vita. Sorridere sempre, qualsiasi cosa ti stia succedendo.

    Il sorriso è un’arma disarmante, disorienta il tuo nemico, è più potente di ogni parola e di ogni discussione. E poi, fa bene all’anima.

    Con il sorriso ho combattuto la mia battaglia più importante.

    2

    Scotty è fermo sull’angolo sinistro del letto. Percorre una diagonale prendendo la rincorsa, punta le zampe, si slancia e atterra su di me. Subito dietro di lui è pronta BB, con la stessa evoluzione. Partenza, rincorsa, slancio e atterraggio. Un esercizio a corpo libero perfetto.

    Stanno giocando con me, anche se non giocano mai così. In genere il rituale della mattina è diverso.

    Lady Beautiful Butterfly Emotion, BB per gli amici, è energia pura concentrata in un chilo di Yorkshire. Appena sveglia, si mette a correre come un’indiavolata intorno al letto per poi buttarsi sulla schiena ed esigere mille grattini. Sir Scotty Smith MBE (che sta per making better everything, praticamente colui che rende tutto più bello), Scotty per gli amici, è il fratello più grande. È più pigro e si gode sempre la scena acciambellato su un cuscino.

    Il quadrato di gara è il nostro lettone. No, non è un letto normale, ma una piazza d’armi. Tino, mio marito, lo ha fatto costruire gigante, con un tipo di materasso che voleva portarsi via da un albergo di Rimini dopo quella che aveva definito la notte in cui aveva dormito meglio nella sua vita. Al titolare dell’hotel aveva detto: «O mi dai il materasso, o mi dai il nome di chi li fa!». Indovinate un po’?

    Si era segnato il contatto della ditta e dopo un mese avevamo un letto over over size di due metri per due metri e quaranta. Una roba gigantesca, nella quale io continuo comunque a dormire in un angolo con i miei due cagnolini sempre accucciati vicino a qualche parte del corpo. E pensare che lo abbiamo voluto extra per poterci stare tutti comodi…

    Questa mattina ogni cosa è strana: i cani giocano in modo bizzarro, Tino si è già svegliato e io mi sono ributtata nel letto. In genere mi alzo verso le cinque e, una volta in piedi, la mia giornata finisce dopo venti ore nelle quali non mi fermo mai (chiamatemi pure panzer, se volete).

    Oggi i cani non sono scesi a mangiare, allora sono risalita in camera per vedere che cosa combinano. Ho aperto le finestre per guardare il bellissimo albero che abbiamo in giardino e far entrare l’aria frizzante di maggio, poi mi sono stesa per giocare con i bambini.

    Scotty e BB ripetono il loro esercizio tre volte a turno, prima uno e poi l’altro. Partono dall’angolo del letto, mi puntano, saltano e atterrano sempre sulla tetta sinistra.

    Oh, non pesano che pochi chili ciascuno, ma fanno male!

    Non è un segreto: io adoro i cani, gli Yorkshire in particolare. Mi auguro che Alex e Mikee, i miei adorabili Labrador, scavatori incalliti di buche in giardino, non si offendano, ma negli anni ho capito di avere un rapporto speciale con gli Yorky. Ci sono arrivata dopo averne avuti cinque: Rambo, Miky, ancora Miky, Scotty e BB in ordine cronologico. Quelli che non ci sono più occupano un posto particolare nel mio cuore.

    Dal Jack Russel al Collie, dallo Springer Spaniel al Labrador, credo di conoscere più razze di cani che di persone… e io sono una che gira parecchio il mondo.

    Liberi di pensarla come volete, ma per me i cani sono creature uniche. Hanno un modo speciale di starti accanto, sono sensibili, sinceri, schietti e percepiscono cose che tu ancora non sai, sono empatici, intelligenti e darebbero la vita per chi amano. Anche per questo i miei cani hanno sempre nomi un po’ articolati: Alex come Alexander the Great ovvero Alessandro Magno, Cleo, una Springer Spaniel che ho avuto fino al 2014, come Cleopatra, Mikee come Mikee Introna, uno dei cantanti della Big Band di Paolo Belli a Ballando dal 2009 al 2011. Giusto per fare qualche esempio.

    Rambo, il primo Yorkshire, era un maschietto adorabile morto troppo presto e in un modo altrettanto assurdo quando ero in vacanza in Sardegna tantissimi anni fa. Il secondo si chiamava Miky ed era un maschietto anche lui. Purtroppo aveva fatto il suo ingresso nella mia vita nel momento sbagliato: mi ero appena separata dal mio ex marito e dovendo tornare a Londra lo avevo affidato a un’amica a patto che potessi rivederlo ogni volta che fossi tornata in Italia.

    Princess Miky è stata la seconda e la più importante, la cagnolina che ha debuttato con me a Ballando con le stelle nel 2007. Una biondina nata per fare la modella, davvero. Era talmente minuscola che quasi stava nel palmo della mano. Era arrivata da noi un giorno di gennaio che fuori nevicava. Oddio, pensavo, questa piccolina deve avere un freddo… Era assolutamente necessario tenerla al caldo, coprirla, ma trovare su due piedi vestitini per un cucciolo così piccolo non era semplice. Con le forbici e la macchina da cucire sono sempre stata top! Gli abiti di gara li facevo con mia madre. Lei era una sarta bravissima e io, oltre a cucire, ero capace di trasformare un pezzo di stoffa in un vestito sfolgorante con quattro tagli, senza nemmeno il cartamodello. Fare gli abitini per la dolcissima Miky era stato un gioco. Avevo cominciato eliminando la punta alle mie calze e praticando quattro fori per le zampe, avevo continuato usando scampoli di stoffe griffate con il nome di Miky scritto sopra a strass. E avevo finito per fondare una società, la Vip by Miky, dove Vip stava per Very Important Pet, in italiano Cucciolo Molto Importante. Non c’è stata passione nella mia vita che non abbia trasformato in un lavoro. Qualche idea ha funzionato meglio di altre ma, insieme alla danza, ho sempre portato avanti tanti progetti, più o meno bizzarri, più o meno redditizi, tutti ugualmente divertenti e in qualche modo legati alla mia attività principale. La Vip by Miky era nata perché chiunque, vedendo i vestitini e i cappottini di Miky, li voleva uguali per il proprio cane. Al Labrador di una signora, una volta, ho fatto un tutù di tulle rosa, perché ovviamente avevamo una linea di vestiti da ballo. Realizzavamo pezzi incredibili, mi ricordo una tutina da sci con tessuto impermeabile e interno maculato che era un gioiello, così come il vestitino in pizzo di Burano che ora è conservato nel Museo del Merletto dell’isola.

    Miky era una trend setter nata e una modella eccezionale. È stata lei, come ho detto, a starmi al fianco quando ho iniziato Ballando con le stelle, e con lei ho fatto i primi servizi fotografici.

    «Carolyn, sorridi, sposta il capo, girati di traverso, piegati, inclinati…» mi dicevano i fotografi.

    «Scusate, ma il cane va bene?» chiedevo io.

    «Lei è perfetta!»

    Ci mancava solo che mi dicessero che il vero cane ero io, perché Miky dove la mettevi stava.

    Quando è morta, è stata una tragedia. Vi potrà sembrare strano, ma in lei vedevo mia madre che non c’era più, ci trovavo pure delle somiglianze fisiche in quella specie di caschetto biondo che aveva in testa.

    Tornando dal funerale della mamma, nel 2008, avevo portato a casa alcuni suoi vestiti. Li avevo appoggiati sul divano e Miky ci si era andata a sedere sopra. La sera, invece di venire a dormire in camera, era rimasta ferma immobile sopra quegli abiti. Tino aveva provato a prenderla, ma non c’era stato nulla da fare. Aveva ringhiato.

    Ci avevo provato anch’io e mi aveva guardato storto.

    «Mum» – con Miky parlavo in inglese – «you are inside there.» «Mamma, tu sei dentro Miky!» le avevo detto. E nel mio cuore.

    Allora lei aveva allungato la zampa, l’aveva messa sul mio viso e mi aveva asciugato le lacrime che mi stavano colando giù.

    Perdere quella cagnolina è stato come dire addio a mia madre per la seconda volta: devastante.

    Miky è stata la conferma di quello che pensavo: i cani e i loro padroni si somigliano! Lo Yorkshire è piccolo, come me. È coraggioso, come me. A dispetto di quello che si pensa comunemente, sono cani nati per la caccia ai topi nelle miniere dello Yorkshire, a nord dell’Inghilterra, vicino alla Scozia. Sono tipi intelligenti e strong, e pensare che c’è chi

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