Le parole di mio padre
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Declan O'Brien aveva sempre una parola buona per tutti e spesso usava espressioni curiose. E amava cantare. Cantava mentre giocava a basket e quando preparava la colazione.
I suoi figli, Fiona e Finn, lo adoravano e sapevano che il loro profondo affetto era ricambiato.
Ma un giorno un terribile incidente cambia le loro vite per sempre, e Fiona e Finn rimangono senza papà. Il vuoto sembra incolmabile, la mamma è disperata e non sa come sostenerli... Cosa si può dire loro per aiutarli a superare un dolore così grande?
Poi un amico, Luke, suggerisce ai due fratellini di fare volontariato in un rifugio per cani abbandonati, e qui Fiona e Finn stringono una tenera amicizia con due cagnoline che hanno altrettanto bisogno di essere consolate. E iniziano a pensare che forse, con il tempo e le dolci parole del papà nel cuore, anche per loro la scintilla della speranza si accenderà di nuovo...
Scritto con una semplicità che arriva dritta al cuore, Le parole di mio padre è un romanzo commovente che parla di tristezza e di speranza, di generosità e di amicizia, e ci insegna che a volte la forza di ricominciare si trova nei luoghi più impensati.
Patricia Maclachlan
Patricia MacLachlan ha scritto moltissimi romanzi e libri illustrati per bambini e ragazzi con cui ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti internazionali tra cui, nel 1986, la prestigiosa Newbery Medal per il romanzo Sara né bella né brutta. Vive a Williamsburg, nel Massachusetts.
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Le parole di mio padre - Patricia Maclachlan
1
L’ETERNA ADATTABILITÀ DELLE COSE
Mio padre, Declan O’ Brien, amato strizzacervelli, canta mentre ci prepara le omelette per la colazione.
A lui non piace che lo chiami strizzacervelli
. Preferisce psicologo
. Ma con me è paziente.
«Parli durante le sedute?» gli ho chiesto una volta.
Lui ha sorriso.
«A volte sì, a volte no» ha risposto.
Non sono sicura di aver capito, ma un giorno forse comprenderò il significato delle sue parole.
Sta cantando la sua canzone preferita di quando cucina le uova, di quando fa trekking, di quando gioca a basket; si intitola Dona nobis pacem.
«Dona nobis pacem, pacem.
Dona nobis pacem.»
La voce di mio padre è dolce e intonata.
Le omelette saranno poco cotte. Le fa sempre così, e lo sa che poi io e mio fratello più piccolo, Finn, le rimettiamo in padella e le facciamo cuocere finché non diventano compatte. Finn una volta si è messo a giocare a frisbee in giardino con una montagnola di omelette dure, tipico esempio di senso dell’umorismo da bambino di seconda elementare.
«Passivo-aggressivo?» ho provato a suggerire a mio padre, che di psicologia mi ha insegnato due o tre concetti.
So che passivo-aggressivo
vuol dire che ci sta facendo la gentilezza di cuocerci le uova, ma non nel modo che piace a noi.
Mio padre è colpito. Mi sorride e scuote la testa.
«È l’eterna adattabilità delle cose, Fiona» mi dice, scrutandomi.
«È cresciuto mangiando uova poco cotte» dice Finn.
«Come fai a saperlo?» chiedo.
«Me le dice, le cose» risponde Finn. «Perché io gliele chiedo.»
«Che storia è? L’eterna adattabilità delle cose?» chiedo a mio padre.
Il suo telefono suona. Problemi in vista.
Non sento risposta all’eterna adattabilità delle cose
. Non arriva subito. Né arriverà mai da lui.
Mio padre mette giù il telefono e si infila la giacca.
«Emergenza» dice in fretta. «Dillo alla mamma quando torna, Fiona. È a lezione ora.»
Mia madre sta prendendo una laurea in qualcosa che non mi è chiaro. Qualcosa che sta tra la filosofia, la danza e cucire bambole di lana per bambini piccoli.
Una volta, mentre io, Finn e mio padre giocavamo a basket davanti a casa, ho fatto l’imitazione di mia madre studiosa dell’infanzia.
«I bambini sono bambini» ho detto.
Mio padre non ha sorriso. Era serio, e io l’ho capito.
Mi ha tolto la palla di mano.
«Dai bambini possiamo imparare più di quello che spesso impariamo dagli adulti. Sono aperti. Senza pregiudizi. E vostra madre lo sa.»
Poi ha fatto canestro con un perfetto tiro in sospensione.
«Uuff» ha detto, tutto contento. «Presto il mio tiro sarà buono come quello di vostra madre.»
Io ho preso nota. E ora, quando vedo dei bambini piccoli, penso alle parole di mio padre. I bambini sono saggi, e non sanno neanche quanto. E a volte non hanno le parole per dire tutto quello che sanno.
Mio padre corre alla macchina e fa retromarcia nel vialetto.
Sulla strada verso la clinica un camion lo investe mentre lui sterza per evitare un bambino che corre in strada dietro a un pallone.
Quando è arrivata la telefonata, mio padre non c’era già più.
«Il dottor O’Brien è morto sul colpo, signora O’Brien» mi ha detto il medico, credendo di parlare con mia madre. Per qualche motivo, il telefono era in viva voce, così anche Finn ha sentito quello che ho senti-to io.
Non ho potuto proteggerlo.
«Signora O’Brien?» ha ripetuto il dottore a bassa voce. Mi ha dato altri dettagli, ma io ho smesso di ascoltarlo.
Ho riattaccato, lentamente.
La faccia di Finn era pallidissima. Cominciavano a scendergli lacrime sulle guance.
Senza sapere cosa stavo facendo, ho preso due piatti bianchi.
Ci ho adagiato sopra le due omelette e li ho portati in tavola.
Ci siamo messi a mangiare le omelette