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L'ultima vedova: Un nuovo caso per Will Trent
L'ultima vedova: Un nuovo caso per Will Trent
L'ultima vedova: Un nuovo caso per Will Trent
Ebook630 pages13 hours

L'ultima vedova: Un nuovo caso per Will Trent

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About this ebook

Will Trend e Sara Linton sono tornati e da loro dipende la vita di migliaia di persone.

2019. In una calda notte estiva, Michelle Spivey, ricercatrice del CDC di Atlanta, il più famoso istituto al mondo per la prevenzione e il controllo delle malattie infettive, viene rapita da sconosciuti aggressori nel parcheggio di un centro commerciale. Sparita nel nulla, senza motivi apparenti, le autorità cercano disperatamente di rintracciarla. Un mese dopo, un tranquillo pomeriggio domenicale viene sconvolto dal boato di un’esplosione che scuote la terra, seguita da altre a pochi secondi di distanza. Un agguato terroristico ha devastato uno dei principali quartieri di Atlanta, sede della Emory University, di due importanti ospedali, del quartier generale dell'FBI e dello stesso CDC. La dottoressa Sara Linton e il suo compagno Will Trent, investigatore del Georgia Bureau of Investigation, si precipitano sul posto, scaraventati nel cuore di una cospirazione mortale che minaccia di distruggere migliaia di vite. Ma il loro istinto li tradisce... Quando gli assalitori rapiscono Sara, Will ne segue le tracce in incognito fino a un covo segreto sui monti Appalachi, per  salvare la  donna  che ama e sventare un massacro dalle proporzioni sconvolgenti.

Karin Slaughter, autrice bestseller in tutto il mondo, riunisce i suoi protagonisti più amati, Will Trent e Sara Linton, in un thriller a orologeria, pieno colpi di scena, segreti angoscianti e situazioni scioccanti, impossibili da prevedere prima che sia ormai troppo tardi.
LanguageItaliano
Release dateOct 31, 2019
ISBN9788830505520
L'ultima vedova: Un nuovo caso per Will Trent
Author

Karin Slaughter

Autrice regolarmente ai primi posti nelle classifiche di tutto il mondo, è considerata una delle regine del crime internazionale. I suoi quindici romanzi, che sono stati tradotti in trentatré lingue e hanno venduto più di 30 milioni di copie, comprendono la fortunata serie che per protagonista Wil Trent, L'orlo del baratro, che ha ricevuto una nomination al prestigioso Edgar Award, e Quelle belle ragazze, il suo primo thriller psicologico. Nata in Georgia, attualmente vive ad Atalanta.

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    L'ultima vedova - Karin Slaughter

    KARIN SLAUGHTER - L'ULTIMA VEDOVA (Un nuovo caso per Will Trent) - HarperCollins ItaliaKARIN SLAUGHTER

    L’ULTIMA VEDOVA

    UN NUOVO CASO PER WILL TRENT

    Traduzione di

    ADRIA TISSONI

    HarperCollins Italia

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    The Last Widow

    HarperCollins Publishers

    © 2019 Karin Slaughter

    Will Trent is a trademark of Karin Slaughter Publishing LLC.

    Brani musicali tratti da:

    I’m on Fire (written by Bruce Springsteen)

    Sara Smile, Hall & Oats (written by Daryl Hall, John Oates)

    Whatta Man, Salt-n-Pepa ft. En Vogue (written by Hurby Luv Bug Azor, Cheryl James with samples from the original song written by David Crawford and performed by Linda Lyndell)

    Love and Affection (written by Joan Armatrading)

    Sure shot, Beastie Boys (written by Adam Keefe Horovitz, Adam Nathaniel Yauch, Jeremy Steig, Mario Caldato, Michael Louis Diamond, Wendell T. Fife)

    Two Doors Down (written by Dolly Parton)

    Smalltown Boy, Bronski Beat (written by Steve Bronski, Jimmy Somerville, Larry Steinbachek)

    Because the Night, Patti Smith Group (written by Bruce Springsteen, Patti Smith)

    What I Am, Edie Brickell & New Bohemians (written by Edie Brickell, Kenny Withrow, John Houser, John Bush, John Aly)

    Give It Away, Red Hot Chili Peppers (written by Michael Balzary (Flea), John Frusciante, Anthony Kiedis, Chad Smith)

    Traduzione di Adria Tissoni

    Karin Slaughter detiene il diritto morale

    di essere identificata come autrice dell’opera.

    Questa edizione è pubblicata in accordo con

    HarperCollins Publishers Ltd, London, UK

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2019 HarperCollins Italia S.p.A., Milano

    eBook ISBN: 978-88-3050-552-0

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

    Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

    Siamo condannati in ogni caso a ripetere il passato.

    È quel che significa essere vivi.

    Kurt Vonnegut

    PARTE PRIMA

    DOMENICA 7 LUGLIO 2019

    Prologo

    Michelle Spivey attraversò di corsa la parte posteriore del negozio scrutando frenetica in ogni corsia in cerca della figlia, la mente in preda a una spirale di pensieri angoscianti: come ho fatto a perderla di vista sono una madre orribile la mia bambina è stata rapita da un pedofilo o da un trafficante d’esseri umani devo avvertire la security del negozio o chiamare la polizia o…

    Ashley.

    Si bloccò di colpo, tanto che la sua scarpa stridette sul pavimento. Fece un brusco respiro cercando di costringere il suo cuore a riprendere un ritmo normale. Sua figlia non stava per essere venduta come schiava. Era al reparto profumeria e stava provando i tester.

    Il sollievo iniziò a svanire insieme al panico.

    Sua figlia undicenne.

    Al reparto profumeria.

    Dopo che le avevano detto che, al di là di quello che facevano le sue amiche, mai e poi mai si sarebbe truccata prima dei dodici anni, e anche allora si sarebbe trattato solo di un po’ di fard e di lucidalabbra, fine del discorso.

    Michelle si premette la mano sul petto. Percorse lentamente la corsia dandosi il tempo di tornare a essere una persona razionale ed equilibrata.

    Ashley le dava le spalle mentre studiava le tonalità dei rossetti. Ruotava gli astucci con fare esperto perché, ovvio, quand’era con le sue amiche provava tutti i loro cosmetici, e si esercitavano a truccarsi a vicenda perché questo facevano le ragazzine.

    Almeno alcune. Michelle non si era mai sentita invogliata a farsi bella. Ricordava ancora il tono stridulo della madre quando si era rifiutata di depilarsi le gambe: Non potrai mai portare i collant!

    Grazie a Dio!, aveva risposto.

    Era accaduto tanti anni prima. Sua mamma non c’era più da molto tempo. Michelle era ormai una donna adulta con una figlia e, come tutte le donne, aveva giurato di non commettere gli stessi errori della madre.

    Aveva ipercorretto?

    Il suo atteggiamento generale da maschiaccio si stava ritorcendo contro sua figlia? Ashley era veramente abbastanza grande da potersi truccare ma il suo disinteresse per gli eyeliner, i bronzer e qualsiasi altra cosa sua figlia guardasse per ore su YouTube le stava impedendo di compiere un passaggio della crescita?

    Michelle si era documentata sulle fasi fondamentali della giovinezza. Gli undici anni erano un’età importante, un cosiddetto anno di riferimento, il periodo in cui i bambini acquisivano all’incirca il cinquanta percento del potere. Dovevi cominciare a negoziare più che impartire ordini, il che in teoria era più che sensato ma nella pratica allucinante.

    «Oh!» Ashley vide sua madre e rimise frenetica il rossetto nell’espositore. «Stavo…»

    «Non c’è problema.» Michelle le accarezzò i capelli lunghi scostandoglieli. Nella doccia c’erano così tanti flaconi di shampoo e balsamo, saponi e creme idratanti, quando per lei l’unica routine di bellezza era mettersi lo schermo solare a prova di sudore.

    «Scusa.» Ashley si tolse la traccia di lucidalabbra dalla bocca.

    «Ti sta bene» azzardò Michelle.

    «Sul serio?» Ashley le sorrise in un modo che le toccò il cuore. «Hai visto?» Si riferiva all’espositore dei lucidalabbra. «Ne hanno uno colorato, quindi dovrebbe durare di più. Ma questo sa di ciliegia e Hailey dice che ai…»

    Michelle completò la frase tra sé: ai ragazzi piace di più.

    Non le erano sfuggiti i vari Hemsworth sulle pareti della sua camera.

    «Quale preferisci?» chiese.

    «Be’…» Ashley scrollò le spalle, ma non c’era molto su cui un’undicenne non avesse un’opinione. «Penso che quello colorato duri di più, giusto?»

    «Mi pare logico.»

    Ashley stava ancora soppesando i due prodotti. «Quello alla ciliegia sa tipo di sostanze chimiche. Io mi mordo sempre il labbro… Voglio dire, se lo mettessi probabilmente me lo toglierei a forza di mordermi il labbro perché mi darebbe fastidio.»

    Michelle annuì soffocando la polemica che stava imperversando in lei: sei bella, sei sveglia, sei così spiritosa e dotata, dovresti fare solo le cose che ti rendono felice perché questo attira i ragazzi in gamba, quelli che trovano interessanti le ragazze serene e sicure di sé.

    «Prendi quello che ti piace, ti darò un anticipo sulla paghetta» disse invece.

    «Mamma!» Strillò tanto forte che la gente le guardò. Il balletto che seguì fu più in stile Tigro che Shakira. «Dici sul serio? Voialtre avete detto…»

    Voialtre. Michelle gemette tra sé. Come spiegare quell’improvviso dietrofront quando avevano concordato che Ashley non si sarebbe truccata fino a dodici anni?

    È soltanto un lucidalabbra!

    Compirà dodici anni tra cinque mesi!

    So che avevamo deciso non prima del suo effettivo compleanno, ma tu hai lasciato che avesse l’iPhone!

    Ecco la soluzione. Rigirarla e puntare tutto sull’iPhone, perché per puro caso era stata lei a perdere quella battaglia.

    «Penserò io al capo. Però solo il lucidalabbra. Nient’altro. Prendi quello che ti fa contenta» disse a sua figlia.

    E il lucidalabbra la fece contenta. Tanto che Michelle si sentì sorridere alla donna in coda alla cassa, la quale aveva sicuramente capito che quel tubetto glitterato di gloss rosa confetto non era per la trentanovenne con i pantaloncini da corsa e i capelli sudati raccolti sotto il cappellino da baseball.

    «È…» Ashley era così euforica che non riusciva quasi a parlare. «È fantastico, mamma! Ti voglio un sacco di bene e sarò responsabile, molto.»

    Dal sorriso di Michelle, intenta a mettere la spesa nelle borse di tela, trasparivano già i primi segni di rigor mortis.

    L’iPhone. Doveva puntare tutto sull’iPhone perché si erano accordate anche su quello, poi però gli amici di Ashley si erano presentati al campo estivo con il telefono e, mentre Michelle era a una conferenza, il no, assolutamente no si era trasformato in non potevo lasciare che fosse l’unica a non averlo.

    Ashley prese felice le borse e si diresse all’uscita. Aveva già ­l’iPhone in mano. Fece scorrere il pollice sullo schermo per avvisare le amiche del lucidalabbra prevedendo con molta probabilità che nel giro di una settimana avrebbe sfoggiato un ombretto azzurro e si sarebbe fatta quella riga curva sugli occhi che conferiva alle ragazze uno sguardo da gatte.

    Michelle iniziò a fare pensieri catastrofici.

    Condividendo i trucchi per gli occhi si sarebbe potuta prendere una congiuntivite, un orzaiolo o una blefarite. Scambiandosi lucidalabbra e matite per labbra, il virus dell’herpes simplex o dell’epatite C, per non parlare del fatto che si sarebbe potuta graffiare la cornea con lo scovolino del mascara. Alcuni rossetti non contenevano metalli pesanti e piombo? Stafilococchi, streptococchi, E. coli. Cosa diavolo le era saltato in mente? Rischiava di avvelenare sua figlia. C’erano centinaia di migliaia di studi attendibili sui contaminanti di superficie rispetto a quelli, relativamente meno numerosi, che ipotizzavano una correlazione indiretta tra tumori cerebrali e cellulari.

    Più avanti Ashley rise. Le sue amiche le stavano rispondendo. Fece dondolare energicamente le borse della spesa attraversando il parcheggio. Aveva undici anni, non dodici, e dodici anni erano terribilmente pochi, no? Perché il trucco era un segnale. Comunicava un interesse a suscitare interesse, il che era una cosa spaventosamente non femminista da dire ma quello era il mondo reale, e sua figlia ancora una bambina che non sapeva come respingere le attenzioni indesiderate.

    Michelle scosse in silenzio la testa. Era una china così scivolosa. Dal lucidalabbra all’MRSA a Phyllis Schlafly. Doveva bloccare il turbinio di pensieri per essere in grado, una volta a casa, di spiegare perché avesse comprato un prodotto per make-up ad Ashley quando avevano giurato solennemente di non farlo.

    Proprio come con l’iPhone.

    Infilò la mano in borsa per cercare le chiavi. Fuori era buio. Le luci in alto non erano sufficienti o forse aveva bisogno degli occhiali perché stava diventando vecchia. Lo era già abbastanza da avere una figlia che voleva mandare segnali ai ragazzi. Tra qualche anno sarebbe potuta diventare nonna. All’idea si sentì attanagliare lo stomaco dall’ansia. Perché non aveva comprato il vino?

    Alzò lo sguardo per assicurarsi che Ashley non fosse finita contro un’auto o non fosse caduta da una rupe mentre mandava messaggi.

    Michelle sentì la bocca spalancarsi.

    Un furgone si fermò accanto a sua figlia.

    La porta laterale si aprì.

    Un uomo saltò giù.

    Michelle strinse le chiavi. Partì di corsa coprendo la distanza tra lei e la bambina.

    Si mise a urlare, ma era troppo tardi.

    Ashley era fuggita proprio come le avevano insegnato.

    Il che andava bene perché l’uomo non voleva Ashley. Voleva lei.

    UN MESE DOPO

    DOMENICA 4 AGOSTO 2019

    1

    Domenica 4 agosto, 13.37

    Sara Linton si appoggiò alla sedia borbottando un sommesso: «Sì, mamma». Si chiese se sarebbe mai venuto il giorno in cui agli occhi di sua madre sarebbe stata troppo grande per essere rimproverata come una bambina.

    «Non usare quel tono condiscendente con me.» La rabbia di Cathy ristagnò sopra il tavolo della cucina mentre puliva i fagiolini su un giornale. «Non sei come tua sorella, tu non svolazzi di qua e di là. Alle superiori c’era Steve, poi Mason per ragioni che ancora non capisco, poi Jeffrey.» Guardò al di sopra degli occhiali. «Se hai scelto di stare con Will, allora sta’ con lui.»

    Sara attese che zia Bella aggiungesse gli uomini mancanti, invece si limitò a giocherellare con il suo filo di perle sorseggiando il tè ghiacciato.

    Cathy continuò. «Tuo padre e io siamo sposati da quasi quarant’anni.»

    «Non ho mai detto…» provò a ribattere Sara.

    Bella fece un verso simile in parte a un colpo di tosse, in parte a uno starnuto di gatto.

    Sara non colse l’avvertimento. «Mamma, la pratica di divorzio di Will si è appena conclusa. Sto ancora cercando di orientarmi nel nuovo lavoro. Siamo contenti della nostra vita. Dovresti essere felice per noi.»

    Cathy spezzò un fagiolino come se fosse il collo di qualcuno. «È già abbastanza brutto che lo vedessi quand’era ancora sposato.»

    Sara fece un profondo respiro e lo trattenne.

    Guardò l’orologio.

    Le 13.37.

    Le sembrava che fosse mezzanotte e non aveva nemmeno ancora pranzato.

    Espirò lentamente concentrandosi sui meravigliosi aromi che pervadevano la cucina. Per questo aveva rinunciato al suo pomeriggio domenicale: per il pollo fritto che si stava raffreddando sul banco. Per la crostata di ciliegie che si stava cuocendo. Per il burro che si scioglieva nella padella del pane di mais sui fornelli. Per i paninetti al forno, i piselli di campo, i fagioli dall’occhio nero, il soufflé di patate dolci, la torta al cioccolato, la torta di noci pecan e il gelato tanto compatto da spezzare il cucchiaino.

    Sei ore al giorno in palestra la settimana seguente non avrebbero compensato il danno che stava per fare al suo corpo, eppure il suo unico timore era scordarsi di portare a casa gli avanzi.

    Cathy spezzò un altro fagiolino distogliendola dalle sue fantasticherie.

    Il ghiaccio tintinnò nel bicchiere di Bella.

    Sara ascoltò il tagliaerba nel giardino posteriore. Per motivi che non riusciva a comprendere, Will si era offerto di fare il giardiniere per sua zia nel fine settimana. La pelle le vibrò come un diapason al pensiero che udisse per caso qualsiasi parte di quella conversazione.

    «Sara.» Cathy sbuffò prima di riprendere da dove si era interrotta. «In pratica adesso vivi con lui. Ci sono le sue cose nel tuo armadio. La sua roba da barba, tutti i suoi articoli da toilette in bagno.»

    «Oh, tesoro.» Bella le picchiettò la mano. «Mai dividere il bagno con un uomo.»

    Cathy scosse la testa. «Questa storia finirà per uccidere tuo padre.»

    Eddie non sarebbe morto ma non ne sarebbe stato contento, così come non lo era mai stato di nessun uomo che desiderava frequentare le sue figlie.

    Per questo Sara stava tenendo per sé la sua relazione.

    O almeno era parte della ragione.

    Cercò di prendere in pugno la situazione. «Sai, mamma, hai appena ammesso di aver ficcato il naso in casa mia. Ho diritto alla mia privacy.»

    Bella fece un verso di disapprovazione. «Oh, piccola, è così dolce che tu la veda così.»

    Sara riprovò. «Io e Will sappiamo quello che facciamo. Non siamo due adolescenti esaltati che si passano i bigliettini in corri­doio. Ci piace trascorrere il tempo insieme. È l’unica cosa che conta.»

    Cathy grugnì ma Sara non fu tanto stupida da scambiare il silenzio che seguì per accettazione.

    «Be’, sono io l’esperta qui. Sono stata sposata cinque volte e…» intervenne Bella.

    «Sei» precisò Cathy.

    «Sorella, sai che quello è stato annullato. Dico solo: lascia che la ragazza capisca da sé ciò che vuole.»

    «Non le sto dicendo cosa fare. Le sto dando un consiglio. Se non fa sul serio con Will, allora è il caso che vada avanti e si trovi un uomo a cui legarsi seriamente. È troppo razionale per avere storie occasionali.»

    «È meglio essere senza logica che senza sentimenti.»

    «Non considererei Charlotte Brontë un’esperta per quanto riguarda la serenità sentimentale di mia figlia.»

    Sara si sfregò le tempie cercando di prevenire il mal di testa. Le brontolò lo stomaco ma il pranzo non sarebbe stato servito fino alle due, dettaglio privo di importanza perché, se avesse continuato quel discorso, una di loro o forse tutte e tre sarebbero finite ammazzate in cucina.

    «Tesoro, hai visto questa storia?» fece Bella.

    Sara alzò lo sguardo.

    «Non pensi che quella donna abbia ucciso sua moglie perché aveva un’altra? Voglio dire, una delle due ha una relazione, quindi la moglie uccide la compagna.» Ammiccò. «Questo temevano i conservatori. I matrimoni gay hanno tolto ogni importanza ai pronomi.»

    Sara ebbe difficoltà a capire finché si rese conto che Bella stava indicando un articolo di giornale. Quattro settimane prima Michelle Spivey era stata rapita nel parcheggio di un centro commerciale. Era una scienziata dei CDC, i centri per il controllo e la prevenzione delle malattie, quindi le indagini erano in mano all’FBI. La foto sul giornale era quella della sua patente di guida. Mostrava una donna attraente sotto i quaranta con una luce particolare negli occhi che persino la macchina fotografica scadente della Motorizzazione era riuscita a cogliere.

    «Hai seguito la vicenda?» chiese Bella.

    Sara scosse la testa. Gli occhi le si riempirono di lacrime indesiderate. Suo marito era stato ucciso cinque anni prima. L’unica cosa a suo parere peggiore di perdere una persona cara era non sapere se fosse morta o no.

    «Io dico che è stato un omicidio su commissione. Di solito salta fuori che è così. La moglie l’ha scambiata con un modello più nuovo e si è sbarazzata di quello vecchio.»

    Sara avrebbe dovuto lasciar perdere perché Cathy si stava irritando. Ma proprio perché si stava irritando disse a Bella: «Non lo so. Sua figlia era presente quand’è successo. Ha visto caricare a forza sua madre su un furgone. Probabilmente è ingenuo da parte mia, ma non penso che l’altra madre avrebbe fatto una cosa del genere a quella bambina».

    «Fred Tokars ha sparato alla moglie davanti ai figli.»

    «Lui lo aveva fatto per l’assicurazione sulla vita, no? Inoltre non aveva un’attività losca e non c’era di mezzo un legame con la mafia?»

    «Ed è un uomo. Le donne in genere non uccidono con le proprie mani?»

    «Per amor del cielo.» Cathy alla fine esplose. «Possiamo per favore non parlare di omicidi nel giorno del Signore? E tu in particolare, Sorella, dovresti evitare ogni commento sui coniugi fedifraghi.»

    Bella fece tintinnare il ghiaccio nel bicchiere vuoto. «Non ci starebbe bene un mojito con questo caldo?»

    Cathy batté le mani dopo aver finito di pulire i fagiolini. «Non sei d’aiuto» aggiunse.

    «Oh, Sorella, non bisognerebbe mai cercare aiuto da Bella.»

    Sara attese che Cathy le voltasse le spalle per asciugarsi gli occhi. A Bella non erano sfuggite le sue lacrime improvvise, quindi appena fosse uscita dalla cucina, avrebbero iniziato a discutere del fatto che stava per mettersi a piangere perché… già, perché? Sara non sapeva come spiegare la sua propensione al pianto. Negli ultimi tempi qualsiasi cosa, da una pubblicità triste a una canzone d’amore alla radio, poteva provocarglielo.

    Prese il quotidiano e finse di leggere la notizia. Non c’erano aggiornamenti sulla scomparsa di Michelle. Un mese era troppo. Anche sua moglie aveva smesso di pregare che tornasse a casa sana e salva e stava supplicando chiunque l’avesse sequestrata che le dicesse almeno dove trovare il corpo.

    Tirò su con il naso. Aveva iniziato a colarle. Invece di prendere un tovagliolino di carta dalla pila usò il dorso della mano.

    Non conosceva Michelle Spivey ma l’anno prima aveva incontrato brevemente sua moglie, Theresa Lee, a una festa di ex allievi della Emory Medical School. Lee era un ortopedico e insegnava alla Emory. Michelle era epidemiologa al CDC. Secondo l’articolo si erano sposate nel 2015, dunque con molta probabilità avevano fatto il grande passo appena ne erano state legalmente in grado. Stavano insieme da quindici anni. Sara suppose che dopo due decenni avessero ben chiare le due cause più comuni di divorzio: a che temperatura impostare il termostato e quanto grave fosse ignorare che c’era la lavastoviglie da scaricare.

    Ma in fondo non era lei l’esperta di matrimoni in quella stanza.

    «Sara?» Cathy era appoggiata al banco con le braccia conserte. «Sarò schietta.»

    Bella sogghignò. «Dai, provaci.»

    «È giusto che tu vada avanti» affermò Cathy. «Che ti costruisca una nuova vita con Will. Se sei veramente felice, allora sii felice e basta. Altrimenti che diavolo aspetti?»

    Sara piegò con cura il giornale. Il suo sguardo tornò sull’orologio.

    Le 13.43.

    «A me Jeffrey piaceva proprio, pace all’anima sua» disse Bella. «Aveva quell’aria spavalda. Ma Will è così dolce. E ti ama, tesoro.» Le picchiettò la mano. «Ti ama davvero.»

    Sara si morsicò il labbro. Il suo pomeriggio domenicale non si sarebbe trasformato in una seduta terapeutica improvvisata. Non aveva bisogno di analizzare i suoi sentimenti. Era alle prese con il problema inverso di qualsiasi commedia romantica: si era già innamorata di Will, solo che non sapeva come amarlo.

    Riusciva a sopportare l’inettitudine sociale di Will, ma la sua incapacità di comunicare li aveva quasi portati alla rottura. Non un paio di volte, in più occasioni. All’inizio Sara si era convinta che cercasse di mostrare il suo lato migliore. Era normale. Aveva lasciato passare sei mesi prima di indossare il suo vero pigiama a letto.

    Era tuttavia passato un anno e lui teneva ancora le cose per sé. Cose stupide, senza importanza, come non avvisarla che avrebbe dovuto lavorare fino a tardi, che la partita di basket andava per le lunghe, che gli si era rotta la bici a metà giro, che si era offerto di aiutare un amico a traslocare nel fine settimana. Aveva sempre un’aria sconvolta quando lei si infuriava perché non la informava di queste cose. Non voleva controllarlo. Voleva sapere cosa ordinare per cena.

    Per quanto fastidiose fossero queste interazioni, c’erano altre cose più rilevanti. Will non mentiva, trovava piuttosto modi astuti per non dirle la verità, che si trattasse di una situazione lavorativa pericolosa, di un particolare terribile della sua infanzia o peggio, di qualche atrocità commessa di recente da quella stronza, narcisista e perfida della sua ex moglie.

    Sara capiva la genesi del suo comportamento. Aveva trascorso l’infanzia in strutture di affidamento dove, se non veniva trascurato, veniva abusato. La sua ex aveva usato i suoi sentimenti come arma contro di lui. Will non aveva mai avuto una relazione veramente sana. C’erano diversi brutti scheletri nel suo passato. Forse in quel modo credeva di proteggere Sara. Forse credeva di proteggere se stesso. Il punto era che lei non aveva assolutamente idea di quale fosse delle due perché non era disposto ad ammettere l’esistenza del problema.

    «Sara, tesoro» esclamò Bella. «Volevo dirtelo: l’altro giorno stavo pensando a quando vivevi qui, a quando studiavi. Te lo ricordi, cara?»

    Sara sorrise al ricordo degli anni del college ma gli angoli della sua bocca si contrassero quando colse l’occhiata che si scambiarono sua zia e sua madre.

    Stava per cadere la mannaia.

    L’avevano attirata là con la promessa del pollo fritto.

    «Piccola, sarò onesta. Questa vecchia casa è troppo per la tua dolce zia Bella. Che ne pensi di tornare a vivere qui?»

    Sara scoppiò a ridere, poi però si accorse che diceva sul serio.

    «Potresti rimetterla a posto, farla tua.»

    Sara sentì la bocca muoversi ma non aveva parole.

    «Tesoro.» Bella continuò a tenerle la mano. «Avevo sempre avuto intenzione di lasciartela nel testamento, ma il mio commercialista dice che avrei un vantaggio fiscale se la trasferissi a te ora mediante un fondo fiduciario. Ho già dato una caparra per un appartamento in centro. Tu e Will potreste entrarci per Natale. Nell’atrio ci starebbe un albero di sei metri e c’è parecchio spazio per…»

    Sara perse momentaneamente l’udito.

    Aveva sempre amato la sontuosa e grande villa georgiana, costruita poco prima della Grande depressione. Sei camere da letto, cinque bagni, la ex rimessa per le carrozze con due stanze, un capanno rinnovato, più di un ettaro di terreno in una delle zone più benestanti dello stato. Il centro era a dieci minuti di macchina. Il campus della Emory University a dieci minuti a piedi. La sistemazione del quartiere era stata uno degli ultimi incarichi ricevuti da Frederick Law Olmstead prima che morisse, e i parchi e gli alberi si integravano a meraviglia con la Fernbank Forest.

    Era un’offerta allettante finché non iniziarono a scorrerle in testa i numeri.

    Bella non aveva sostituito niente dagli anni Ottanta. Il riscaldamento e il condizionamento centralizzati. Le tubature. L’impianto elettrico. Le riparazioni dell’intonaco. Finestre nuove. Tetto nuovo. Grondaie. Le discussioni con la Società storica per i più piccoli dettagli architettonici. Per non parlare del tempo che avrebbero perso perché Will avrebbe voluto fare tutti i lavori di persona; le poche sere libere di Sara e i lunghi weekend d’ozio sarebbero trascorsi all’insegna delle liti per i colori delle vernici e i soldi.

    I soldi.

    Quelli erano il vero ostacolo. Sara ne aveva molti di più di Will. Nel suo matrimonio si era verificato lo stesso. Non si sarebbe mai scordata l’espressione di Jeffrey la prima volta che aveva visto il saldo del suo conto. Sara aveva sentito i suoi testicoli ritrarsi con un risucchio. C’era voluto un bel po’ per estrarglieli di nuovo.

    «Ovviamente posso aiutarti con le tasse ma…» stava dicendo Bella.

    «Grazie.» Sara cercò di intervenire. «Sei molto generosa ma…»

    «Potrebbe essere un regalo di nozze.» Cathy sorrise dolcemente sedendosi al tavolo. «Non sarebbe bello?»

    Sara scosse la testa, ma non a sua madre. Cosa le prendeva? Perché temeva la reazione di Will? Non sapeva quanti soldi avesse. Pagava tutto in contanti. Che fosse perché non credeva nelle carte di credito o perché non aveva credito, be’, quello era un altro discorso che non avrebbero affrontato.

    «Cos’è stato?» Bella aveva la testa piegata di lato. «Avete sentito qualcosa? Sembravano petardi o qualcosa del genere?»

    Cathy la ignorò. «Tu e Will potete farne la vostra casa. E tua sorella può prendere l’appartamento sopra il garage.»

    Sara vide la mannaia sferrare il colpo finale. Sua madre non stava solo cercando di controllare la sua vita: per maggior sicurezza voleva aggiungere anche Tessa.

    «Non credo che Tess voglia vivere sopra un altro garage» osservò.

    «Ma adesso non sta in una capanna di fango?» fece Bella.

    «Zitta, Sorellina. Hai parlato con Tessa dell’idea che torni a casa?» chiese Cathy a Sara.

    «Non proprio» mentì lei. Il matrimonio di sua sorella minore stava andando in pezzi. La sentiva via Skype almeno due volte al giorno anche se viveva in Sudafrica. «Mamma, devi lasciar perdere. Non siamo negli anni Cinquanta. Sono in grado di mantenermi. Avrò una pensione. Non devo essere ufficialmente legata a un uomo. So badare a me stessa.»

    L’espressione di Cathy abbassò la temperatura nella stanza. «Se pensi che il matrimonio sia questo, allora non ho altro da dire.» Si tirò su dal tavolo e tornò ai fornelli. «Di’ a Will di lavarsi, è quasi pronto.»

    Sara chiuse gli occhi per non alzarli al cielo.

    Uscì dalla cucina.

    I suoi passi echeggiarono nell’ampio soggiorno mentre rasentava l’antico tappeto orientale. Si fermò davanti alla prima portafinestra. Premette la fronte contro il vetro. Will stava mettendo felice il tosaerba nel capanno. Il giardino era spettacolare. Aveva persino potato i bossi trasformandoli in rettangoli perfetti. Le bordure denotavano una precisione chirurgica.

    Che cosa avrebbe detto di una casa da due milioni e mezzo da risistemare?

    Sara non era neppure sicura di volere una responsabilità così grande. Aveva passato i primi anni di matrimonio a rinnovare la sua minuscola villetta in stile craftsman con Jeffrey. Ricordava perfettamente lo sfinimento di quando aveva staccato la carta da parati e dipinto le colonnine delle scale, unito all’atroce consapevolezza che avrebbe potuto compilare un assegno e lasciare che lo facesse qualcun altro. Suo marito tuttavia era un uomo molto, molto caparbio.

    Suo marito.

    Era il campo minato in cui sua madre si era addentrata prima, in cucina: Sara amava Will come aveva amato Jeffrey, e in tal caso perché non lo sposava, e se non lo sposava, perché perdeva tempo?

    Tutte buone domande, ma Sara era presa nella stessa spirale di promesse che si faceva Rossella O’Hara: ci avrebbe pensato domani.

    Aprì la porta con una spallata e si ritrovò davanti a un muro di caldo. L’aria sembrava sudare tanta era l’umidità. Ciò nonostante si tolse l’elastico dai capelli. Quell’ulteriore strato sulla nuca ebbe l’effetto di un guanto bollente da forno. Se non fosse stato per l’odore d’erba fresca, le sarebbe parso di camminare in un bagno turco. Arrancò su per la collina. Le sue sneaker scivolarono sui sassi. Gli insetti le ronzavano attorno alla faccia. Li scacciò con la mano andando verso quello che Bella chiamava il capanno e che in realtà era un granaio trasformato con un pavimento di ardesia grigia e spazio sufficiente per due cavalli e una carrozza.

    La porta era aperta. Will era al centro del locale. Teneva i palmi premuti sul banco da lavoro mentre guardava fuori. Era così immobile che Sara si chiese se disturbarlo. Da un paio di mesi qualcosa lo turbava. Lo sentiva insinuarsi in quasi ogni aspetto della loro vita. Gli aveva fatto domande. Gli aveva lasciato spazio per riflettere. Aveva cercato di toglierglielo dalla mente con il sesso. Lui aveva continuato a ripetere che stava bene, poi però lo sorprendeva a fare quello che stava facendo ora: guardare afflitto da una finestra.

    Sara si schiarì la voce.

    Will si girò. Si era cambiato la maglietta ma il caldo gliela aveva già appiccicata al petto. Aveva pezzetti d’erba attaccati alle gambe muscolose. Era lungo e magro, e il sorriso che le rivolse la indusse a scordarsi per un attimo di tutti i problemi che aveva con lui.

    «È ora di pranzo?» chiese.

    Lei guardò l’orologio. «Sono le tredici e quarantasei. Abbiamo esattamente quattordici minuti di calma prima della tempesta.»

    Il suo sorriso si allargò. «Hai visto il capanno? Voglio dire, visto veramente?»

    Sara lo considerava semplicemente un capanno, invece Will ne era entusiasta.

    Indicò una zona con un divisorio nell’angolo. «C’è un orinatoio laggiù. Un orinatoio vero, funzionante. Non è forte?»

    «Fantastico» borbottò lei con un tono ben poco euforico.

    «Guarda come sono robuste queste travi.» Will era alto un metro e novantadue, abbastanza da afferrarne una e fare alcune trazioni. «E guarda là. Quel televisore è vecchio ma funziona ancora. E laggiù, dove penso stessero i cavalli, ci sono un frigorifero a doppia porta e un microonde.»

    Dove penso stessero i cavalli. Lei sentì le labbra piegarsi in un sorriso. Era un tipo così cittadino che non sapeva che si chiamassero stalle.

    «Il sofà ha un vago odore di muffa ma è proprio comodo.» Si buttò sul divano di cuoio spaccato tirandola giù con lui. «È magnifico qui, vero?»

    Sara tossì per la polvere che aveva sollevato. Cercò di non collegare la pila dei vecchi Playboy di suo zio al divano scricchiolante.

    «Possiamo trasferirci qui? Scherzo solo in parte» chiese Will.

    Sara si morse il labbro. Non voleva che scherzasse. Voleva che le dicesse che cosa desiderava.

    «Guarda, una chitarra.» La prese e regolò la tensione delle corde. Qualche strimpellata, e stava già emettendo suoni riconoscibili che poco dopo trasformò in una canzone.

    Sara sentì un fremito improvviso, come sempre quando scopriva qualcosa di nuovo di lui.

    Will canticchiò le prime parole di I’m on Fire di Bruce Springsteen.

    Smise di suonare. «Fa un po’ ridere, vero? Hey little girl is your daddy home?»

    «Che mi dici di Girl, You’ll Be a Woman Soon? O di Don’t Stand So Close to Me? O dell’inizio di Sara Smile

    «Accidenti.» Pizzicò le corde della chitarra. «Anche Hall and Oates?»

    «Di Panic! At the Disco esiste una versione migliore.» Sara guardò le sue lunghe dita muoversi sulle corde. Amava le sue mani. «Quando hai imparato a suonare?»

    «Alle superiori. Da autodidatta.» La guardò imbarazzato. «Pensa a qualsiasi stupidaggine che un sedicenne farebbe per colpire una coetanea, be’, io so come farla.»

    Rise perché non era difficile da credere. «Avevi un taglio fade?»

    «Ovvio.» Continuò a strimpellare. «Parlavo come Pee-Wee Herman. Sapevo fare il kickflip con lo skateboard. Conoscevo tutte le parole di Thriller. Avresti dovuto vedermi con i jeans scoloriti e il giubbotto Nember’s Only.»

    «Nember?»

    «Un marchio economico. Non ho detto che ero milionario.» Sollevò lo sguardo dalla chitarra, contento che si stesse divertendo. Poi però indicò con un cenno la sua testa e chiese: «Cosa succede lì?».

    A Sara venne di nuovo da piangere. L’amore la sopraffaceva. Will era così in sintonia con i suoi sentimenti. E desiderava disperatamente che lui accettasse che per lei fosse altrettanto.

    Will posò la chitarra. Le toccò il viso sfregandole la fronte con il pollice per scacciare la preoccupazione. «Ora va meglio.»

    Sara gli diede un bacio, un bacio vero. Quella parte era sempre facile. Gli passò le dita tra i capelli sudati. Lui le baciò il collo, poi scese più in basso. Sara si inarcò contro di lui. Chiuse gli occhi e lasciò che la sua bocca e le sue mani spazzassero tutti i dubbi.

    Smisero solo perché il divano sussultò d’un tratto con violenza.

    «Che diavolo è stato?» esclamò Sara.

    Will non fece l’ovvia battuta sulla sua capacità di far tremare la terra. Guardò sotto il divano. Si alzò. Controllò le travi in alto e batté le nocche sul legno pietrificato. «Ricordi quel terremoto in Alabama qualche anno fa? È stato simile ma più forte.»

    Sara si sistemò i vestiti. «Il country club fa i fuochi d’artificio. Forse stanno facendo le prove di un nuovo spettacolo?»

    «In pieno giorno?» Will era scettico. Trovò il telefono sul banco da lavoro. «Non ci sono allerte.» Controllò i messaggi, poi fece una chiamata. Poi un’altra ancora. Compose un terzo numero. Sara attese in ansia ma lui finì per scuotere la testa. Sollevò il cellulare perché sentisse il messaggio registrato che diceva che tutte le linee erano occupate.

    Sara notò l’ora nell’angolo dello schermo.

    Le 13.51.

    Disse a Will: «La Emory ha una sirena d’emergenza. Scatta quando c’è un disastro nat…».

    Boom!

    La terra tremò ancora con violenza. Sara dovette reggersi al divano prima di poter seguire Will in giardino.

    Lui stava guardando il cielo. Un pennacchio di fumo scuro salì arricciandosi dietro la linea degli alberi. Sara conosceva molto bene il campus della Emory University.

    Quindicimila studenti.

    Seimila tra docenti e membri del personale.

    Due esplosioni che avevano fatto tremare la terra.

    «Andiamo.» Will si affrettò verso l’auto. Era un agente speciale del Georgia Bureau of Investigation. Sara era un medico. Non c’era bisogno di discutere di ciò dovevano fare.

    «Sara!» gridò Cathy dalla porta posteriore. «Hai sentito?»

    «Viene dalla Emory.» Sara corse in casa in cerca delle chiavi. Sentiva la sua mente precipitare nel terrore. Il campus urbano si estendeva su due ettari e mezzo. L’Emory University Hospital. L’Egleston Children’s Hospital. I Centri per il controllo delle malattie. L’Istituto nazionale di sanità pubblica. Lo Yerkes National Primate Research Center. Il Winship Cancer Institute. I laboratori governativi. Agenti patogeni. Virus. Era un attacco terroristico? Qualcuno aveva aperto il fuoco? Uno sparatore solitario?

    «Potrebbe essere la banca?» domandò Cathy. «C’erano quei rapinatori che avevano cercato di far saltare in aria il carcere.»

    Martin Novak. Sara sapeva che in centro si stava svolgendo un incontro importante, ma il prigioniero era nascosto in una casa sicura, ben lontano dalla città.

    «Qualsiasi cosa sia, non è ancora arrivata ai telegiornali» commentò Bella. Aveva acceso il televisore in cucina. «Ho il vecchio fucile di Buddy qui, da qualche parte.»

    Sara trovò le chiavi in borsa. «State dentro.» Afferrò la mano della madre e gliela strinse forte. «Chiama papà e Tessa, informali che state bene.»

    Si raccolse i capelli avviandosi verso la porta. Si bloccò prima di raggiungerla.

    Si erano bloccati tutti dov’erano.

    Il gemito fondo, lamentoso della sirena d’emergenza pervase l’aria.

    2

    Domenica 4 agosto, 13.33

    Will Trent tolse la mano dal tagliaerba per asciugarsi il sudore sugli occhi. Non era una procedura semplice. Prima doveva scrollarselo dalla mano, poi sfregarsi le dita sull’interno della maglietta per togliersi il terriccio. Solo allora poteva passarsi il pugno sulle sopracciglia. Sfruttò quella tregua momentanea dalla semicecità per controllare l’ora.

    Le 13.33.

    Quale idiota tagliava più di un ettaro di terreno collinoso a metà pomeriggio d’agosto? Quello che aveva passato la mattina a letto con la sua fidanzata, suppose. Per quanto dolce fosse stato, sarebbe voluto tornare indietro nel tempo per spiegare a se stesso quanto maledettamente infelice sarebbe stato di lì a poco.

    Svoltò l’angolo mettendo il tosaerba di traverso per superare un avvallamento nel terreno irregolare. Gli si incastrò un piede in una tana di citello. Nugoli di moscerini gli ronzarono attorno al viso. Il sole lo colpì sulla nuca come una cinghiata. L’unica ragione per cui non gli si erano staccate le palle era che uno spesso strato di terra, erba tagliata e sudore gliele teneva incollate al corpo.

    Guardò la casa facendo un altro passaggio. Non riusciva a smettere di pensare a quanto fosse imponente. I timpani in pratica grondavano soldi. Sul progetto architettonico esisteva addirittura un libro che Bella gli aveva prestato. Il vetro colorato della tromba delle scale era stato creato da Louis Comfort Tiffany. Le modanature in gesso erano state realizzate da artigiani chiamati dall’Italia. Pavimenti di quercia intarsiata, soffitti a cassettoni, una fontana interna, una libreria rivestita di mogano piena di volumi antichi. Boiserie di cedro in ogni stanzino, oro vero sui lampadari vistosi, un gabinetto per la servitù nel seminterrato che risaliva a Jim Crow. C’era persino un’enorme cassaforte dietro un pannello nella dispensa, concepita per conservare l’argenteria di famiglia.

    Ogni volta che risaliva il vialetto d’accesso, Will si sentiva come Jethro Bodine.

    Grugnì spingendo con le spalle per farsi strada in un ciuffo di unghia di gatto più grande di un gatto stesso.

    Quando aveva conosciuto Sara, aveva capito piuttosto in fretta che era benestante. Non che si comportasse o parlasse in modo diverso, ma Will era un detective. Un osservatore esperto. Osservazione numero uno: il suo appartamento era l’attico di un piccolo condominio di lusso. Osservazione numero due: guidava una BMW. Osservazione numero tre: era un medico, quindi non servivano in realtà le sue capacità di detective per capire che aveva parecchi soldi in banca.

    Ed era qui che le cose si complicavano: Sara gli aveva detto che suo padre era idraulico. Il che era vero. Quello che aveva tralasciato di aggiungere era che Eddie Linton era anche un investitore immobiliare, che aveva introdotto Sara all’attività di famiglia e che lei aveva guadagnato bene affittando e vendendo case, restituendo così i prestiti ottenuti per studiare medicina. In più, aveva venduto il suo ambulatorio pediatrico nella contea di Grant prima di trasferirsi ad Atlanta e aveva i soldi della polizza assicurativa del marito defunto e la sua pensione. Essendo la vedova di un agente di polizia era esentata dal pagamento delle tasse statali, perciò finanziariamente parlando Sara era zio Phil nei confronti del suo molto meno affascinante Principe di Bel Air.

    Cosa che in fondo gli andava bene.

    Will aveva diciotto anni quando per la prima volta gli avevano messo dei soldi in tasca, ed era stato perché si comperasse il biglietto dell’autobus per il ricovero per senzatetto, perché non aveva più l’età per essere seguito dal sistema di affidamento. Era riuscito a ottenere una borsa di studio statale per il college e aveva finito per lavorare per quello stesso stato che lo aveva cresciuto. Era di solito il più povero dei colleghi e quello che aveva maggiori probabilità di vedersi sparare in faccia svolgendo il suo lavoro.

    Quindi la vera domanda era: a Sara andava bene?

    Tossì per eliminare un po’ di terriccio partito come un Trident dalla ruota posteriore del tagliaerba e arrivato dritto sulla sua faccia. Sputò per terra. Al pensiero del pranzo gli brontolò lo stomaco.

    La villa di Bella lo turbava. Per via di quello che rappresentava, di quello che indicava in relazione alla disparità tra lui e Sara: il posto dove Will aveva vissuto mentre frequentava il college era stato dichiarato inagibile a causa dell’asbesto, non inserito nel registro nazionale delle dimore storiche.

    La zia di Sara nuotava nell’oro, e a tutt’altro livello. Dall’odore del suo tè ghiacciato Will intuiva che le piaceva bere di giorno. Da quel che sapeva si era arricchita sposando uomini sempre più facoltosi, il che non era stato affar suo finché la sua incredibile generosità non aveva cambiato le cose.

    La settimana precedente gli aveva regalato un decespugliatore che valeva almeno duecento dollari. La settimana prima ancora lo aveva visto ammirare le collezioni di dischi di uno dei suoi mariti e, mentre stava uscendo, gliene aveva data una scatola.

    L’originale di A Night at the Opera dei Queen, Parallel Lines dei Blondie. Il maxi singolo da dodici pollici di Imagine di John Lennon con la mela verde integra sull’etichetta.

    Will avrebbe potuto tagliare quel maledetto prato per i prossimi duecento anni senza riuscire neanche lontanamente a ripagarla.

    Si fermò ad asciugarsi la fronte con il braccio finendo per aggiungere sudore a sudore. Fece un profondo respiro e inalò un moscerino.

    Le 13.37.

    Non avrebbe neppure dovuto essere là.

    In quel preciso momento era in corso un grande incontro di pezzi grossi in centro. Nell’ultimo mese si erano susseguite diverse riunioni simili, e prima ancora ne avevano tenute due al mese. Il GBI si stava coordinando con il Marshals Service, l’ATF e l’FBI per trasferire un rapinatore di banche giudicato colpevole. Martin Novak si trovava in una casa sicura segreta mentre attendeva la sentenza del Russell Federal Building. La ragione per cui non aspettava in carcere era che i suoi complici avevano cercato di creare con l’esplosivo, in un lato dell’edificio, un buco delle sue dimensioni. Il tentativo era fallito ma nessuno intendeva correre rischi.

    Novak non era il tipico detenuto. Era un autentico genio criminale a capo di una banda ben addestrata. Uccidevano indiscriminatamente civili, addetti alla sicurezza, poliziotti. Non importava chi ci fosse dall’altra parte delle armi quando premevano il grilletto. Agivano nelle banche che prendevano di mira con la precisione di un orologio. Tutto faceva supporre che non avrebbero lasciato morire il loro capo nelle viscere di una prigione federale.

    Da poliziotto, Will disprezzava i criminali di quel genere – non c’era niente di peggio, o di più raro, di un delinquente davvero in gamba – ma da essere umano desiderava partecipare all’azione. Aveva accettato ormai da molto tempo che l’aspetto del suo lavoro che lo attirava di più era la caccia. Non avrebbe mai potuto sparare a un animale ma l’idea di stare disteso, in attesa, con il fucile puntato al baricentro di un criminale e il dito che gli prudeva dalla voglia di eliminare quegli esseri ignobili dal mondo, lo eccitava in modo incredibile.

    Non lo avrebbe mai rivelato a Sara. Sapeva da fonte certa che anche suo marito era stato così, che la passione per la caccia era stata con molta probabilità ciò che aveva ucciso Jeffrey Tolliver. La reazione del «combatti o fuggi» di Will era analogamente bloccata sul «combatti». Non voleva che Sara vivesse nel terrore ogni volta che usciva di casa.

    Guardò di nuovo la casa tagliando la striscia d’erba seguente.

    Vecchie zie ubriacone a parte, aveva la sensazione che le cose stessero andando bene con lei. Avevano instaurato una routine. Avevano imparato ad accettare i reciproci difetti o almeno a sorvolare sui peggiori. Per dirne due: l’assoluto disinteresse a rifare il letto ogni mattina come qualsiasi persona responsabile e l’ostinata riluttanza a conservare un barattolo di maionese anche quando sul fondo ce n’era abbastanza da preparare mezzo sandwich.

    Dal canto suo Will stava cercando di essere più aperto con lei in relazione ai sentimenti. Era più facile di quanto avesse creduto. Aveva appena annotato sul calendario di raccontarle ogni lunedì qualcosa che lo preoccupava.

    Una delle sue più grandi paure era svanita prima di una di quelle confessioni del lunedì. Si era sentito davvero molto teso quando Sara aveva iniziato a lavorare con lui al Georgia Bureau of Investigation. La situazione si era appianata soprattutto perché era stata lei ad appianarla. Erano rimasti ciascuno nel proprio settore. Sara era un dottore e un medico legale, faceva lo stesso lavoro che aveva svolto nella contea di Grant. Suo marito era stato capo della polizia, perciò sapeva come comportarsi con i poliziotti. Come Will, Jeffrey Tolliver non era destinato a ottenere promozioni. Ma in fondo che promozione poteva ottenere un uomo quand’era già in cima alla piramide?

    Will scacciò quella considerazione dalla mente perché, per quanto cupi fossero i suoi pensieri, lasciarli sconfinare in quell’ambito sarebbe stato molto insidioso.

    Sembrava almeno che la madre di Sara stesse cambiando idea. La sera precedente Cathy aveva passato mezz’ora a raccontargli dei primi anni del suo matrimonio. Will doveva presumere che fosse un progresso. La prima volta che l’aveva incontrata, Cathy aveva in sostanza sputato veleno. Forse il suo sforzo di Sisifo per domare il prato della sorella ubriacona l’aveva convinta che non fosse poi tanto male. O forse aveva visto quanto amasse sua figlia. Quello doveva pur contare qualcosa.

    Incespicò quando il tagliaerba si incastrò in un’altra tana di citello. Alzò lo sguardo scoprendo con sgomento di avere quasi finito. Controllò l’ora.

    Le 13.44.

    Se si fosse sbrigato, avrebbe avuto qualche minuto per lavarsi con la canna nel capanno, riposarsi e aspettare il campanello del pranzo.

    Affrontò l’ultima lunga striscia d’erba e tornò di corsa al capanno. Lasciò il tosaerba a raffreddarsi sul pavimento di pietra. Avrebbe preso a calci quella vecchia macchina, ma aveva le gambe molli come gelatina.

    Si tolse la maglietta. Andò al lavandino e cacciò la testa sotto il flusso gelido dell’acqua. Si lavò tutte le zone importanti

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