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Bodacious - Il gatto pastore
Bodacious - Il gatto pastore
Bodacious - Il gatto pastore
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Bodacious - Il gatto pastore

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About this ebook

Il racconto tenero e divertente di Bodacious e della sia vita alla Black Sheep Farm.
Scritto dal punto di vista del gatto Bodacious, questo libro è un bellissimo memoir della sua vita in fattoria: splendide albe, duro lavoro, animali divertenti, cibo delizioso, persone gentili e un paesaggio idilliaco. La sua padrona gli racconta spesso la sua storia preferita, di quando è uscita a comprare un nastro rosso per avvolgere un regalo, ed è invece tornata a casa con un regalo per sé: un gatto audace, deciso e ambizioso in cerca di una casa. E si è resa conto di aver bisogno di Bodacious quanto lui aveva bisogno di lei. Appena arrivato, il gatto si aggira per la fattoria e decide che lui è il capo, il Top Cat, e fa presto amicizia con un altro gatto, chiamato Oscar, e con tutti gli altri animali del posto.
Con umorismo e acuta osservazione, Bodacious ci racconta la vita alla Black Sheep Farm, accompagnandoci nell’atmosfera della casa, dei frutteti e dei campi.
LanguageItaliano
Release dateNov 21, 2019
ISBN9788830505605
Bodacious - Il gatto pastore
Author

Suzanna Crampton

"BODACIOUS: IL GATTO STAR I video di Bodacious su YouTube hanno raggiunto 430.378 visualizzazioni. Il suo video in cui lavora nei campi ha ottenuto da solo 80.000 visualizzazioni. Bodacious ha un sito web dedicato dove i fan possono ac- quistare gadget, come cartoline, calendari e coperte per gatti. Bodacious è apparso su numerose riviste e si è guadagna- to grande interesse da parte dei media online. “Io sono Bodacious, il gatto pastore, e questa è la mia storia. Non mi sono sempre chiamato Bodacious. Devo aver avuto qualche altro nome nella vicina cittadina di Kilkenny, ma è un po’ un mistero per la mia padrona. Per quanto riguarda lei, sono apparso un giorno e non me ne sono più andato.”"

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    Book preview

    Bodacious - Il gatto pastore - Suzanna Crampton

    Leopold

    INTRODUZIONE

    Mi chiamo Bodacious, il gatto pastore, e questa è la mia storia. Non è sempre stato questo, il mio nome: quand’ero un micino, nella vicina città di Kilkenny, dovevo chiamarmi in qualche altro modo, ma per la mia umana è rimasto un po’ un mistero: per quanto ne sa lei, sono spuntato un giorno dal nulla e non me ne sono più andato. Ed è un segreto che intendo mantenere.

    La Pastorella mi ha raccontato talmente tante volte la storia di come mi ha trovato, infiorettandola più che poteva, che ormai è diventata quasi una leggenda miaovolosa. Un giorno andò da un fioraio di Kilkenny a comprare del nastro rosso per il regalo di compleanno di un’amica, delle erbe presentate in una coppa di vetro soffiato a mano. Me l’ha descritta con dovizia di particolari: il verde delle erbe, il marrone del terriccio e il rosso intenso del nastro (la Pastorella si emoziona molto per questo tipo di cose). Il fioraio aveva un nome romantico, Lamber de Bie, e il negozietto era nascosto in un vicolo acciottolato vicino al castello di Kilkenny. La signora che ci lavorava, Jaszia, disse alla Pastorella di aver finito il nastro rosso, visto che c’era appena stato San Valentino; in compenso, aveva un gatto.

    «Magari le interessa» disse Jaszia, che conosceva fin troppo bene la Pastorella. «Ha presente il negozio che vende quei nuovi copriwater, ai piedi della collina del castello? Be’, un gatto randagio che vagava per la strada si è intrufolato lì. Purtroppo la proprietaria non può tenerlo perché a casa ha già tre cani.»

    «Farò un salto a dare un’occhiata» rispose la Pastorella. Ovvio che lo avrebbe fatto: ama gli animali e nella sua fattoria c’è un intero serraglio; ma su questo tornerò più avanti. Mi ha raccontato che, entrando nel negozio, mi vide gironzolare tra tutte quelle tavolette di plastica trasparente dai colori vivaci. Erano piene di cose strane – come filo spinato, paglia, perfino barriere coralline e pesci tropicali. Naturalmente pensò che quel posto fosse mio, ma io ero lì solo da tre giorni. Impertinente! Come se una rivendita di copriwater fosse adatta a un micio come me. Mi ha detto anche che quando mi trovarono indossavo un collarino rosa decorato con una fila di topolini azzurri che si rincorrevano: chiaramente a qualcuno doveva essere sembrato divertente, ma quanto meno dimostrava che anche qualcun altro, un tempo, mi aveva voluto bene.

    La proprietaria del negozio aveva fatto tutto il possibile per trovare il mio padrone, e non c’era abitante di Kilkenny che non avesse sentito i suoi appelli alla radio, ma nessuno si era fatto avanti. Il pensiero di per sé potrebbe rattristarmi, ma non è così, perché se qualche giorno prima non fossi entrato in quel negozio non avrei mai incontrato la Pastorella. Non avrei mai avuto la mia vita alla fattoria Pecora Nera, con i verdi, piccoli campi che si affacciano sul fiume Nore. La famiglia della Pastorella possiede quella terra da molte generazioni, perciò ogni campo o edificio ha un nome e una storia tramandati a voce, come per esempio il campo Caricavento, dove un tempo si ergeva un mulino a vento che negli anni Quaranta, girando, generava elettricità per la fattoria.

    All’inizio la Pastorella mi tenne al chiuso, nel timore che sparissi di nuovo, almeno finché non avessi riconosciuto quel posto come casa mia. È stato premuroso da parte sua: quello che non sapeva, tuttavia, è che l’ho considerato tale fin dal primo momento in cui ci ho messo zampa. Comunque, per due settimane me ne sono rimasto raggomitolato vicino alla cucina Aga, oppure a osservare dalla finestra gli enormi ippocastani con le montagne alle spalle, che erano piuttosto belli. Feci anche conoscenza con gli altri membri della mia famiglia, il che fu utile per definire il mio ruolo di, praticamente, capogatto.

    A addestrarmi alla vita della fattoria è stato Oscar, scomparso ormai da tempo. Era un felino dall’aspetto bizzarro, con ampie macchie tigrate sul pelo bianchissimo, orecchie tigrate così come la coda, che sembrava essere stata dipinta e appiccicata al corpo come per un ripensamento. In seguito arrivò Miss Marley, i cui padroni, emigrati in Nuova Zelanda, non avevano potuto permettersi il costoso periodo di quarantena. È una gatta timida e senza pretese, che ama il suo lavoro di controllore della lana. Le concedo di svolgere questo importante incarico anche se lei si limita a testarne la morbidezza dormendo raggomitolata sui mucchi di lana grezza, oppure, a volte, perfino sulle coperte tessute con la lana della pregiata razza Zwartbles, appena prima che vengano spedite in qualche remoto angolo di mondo.

    Guantodaforno, il mio Gatto da Pastore apprendista, è stato un altro arrivo tardivo, il che è una fortuna, perché, onestamente, ha un sacco da imparare… ed è un pigrone. Si è guadagnato il suo nome appena portato alla fattoria. La madre della Pastorella aveva aperto uno sportello della cucina Aga, allungando la mano per prendere quello che credeva fosse un guanto da forno per tirare fuori un pollo arrosto. Quando la mano le finì sul nuovo arrivato ancora senza nome, commentò: «Oh, credevo fossi un guanto da forno». E venne battezzato così. Il suo obiettivo nella vita è passare più tempo possibile a stiracchiare il suo corpo tigrato, grigio e nero, contro l’Aga o in una grande ciotola in cima all’alta pressa da cucina, bello comodo per il calore che sale dall’Aga. Uno dei suoi sport preferiti è mettercela tutta per dare fastidio a Miss Marley. Ultimamente, il suo giocattolo preferito, con mio grande disgusto, è il nuovo cane Pozzanghera (di lei parlerò meglio più avanti), che è a malapena più grande di un ratto.

    Alla fattoria Pecora Nera ho conosciuto anche il mio migliore amico canino: un incrocio di Border Collie e Fox Terrier di nome Pepe; un gran bel tipo, con il mantello nero e ispido e la barba leggermente spruzzata di grigio. Con gli anni ho visto il suo pelo diventare di un bel sale e pepe su tutto il corpo. Molti umani lo chiamano l’Einstein a quattro zampe, scherzando sul fatto che se fosse un uomo probabilmente sarebbe un barbuto autore di saggi accademici che fuma la pipa. Ma la cosa più importante è che è un tenace cacciatore di ratti, scoiattoli grigi e conigli, che alla fattoria abbondano. Se qualcuno di voi ha il cuore tenero potrebbe considerarla una terribile crudeltà, io invece ho imparato moltissimo sulla natura da quando conduco la mia vita agreste qui. I roditori distruggerebbero tutto se li lasciassimo moltiplicarsi: mangiano fieno e granaglie, li rovinano con i loro escrementi e rosicchiano perfino i fili elettrici, col rischio di provocare incendi. Se la loro popolazione aumenta troppo, i conigli possono contrarre un tremendo virus, la mixomatosi: a quel punto diminuirebbero bruscamente, e volpi e poiane farebbero la fame. Gli scoiattoli grigi uccidono quelli rossi, nativi dell’isola, e strappano la corteccia degli alberi giovani, uccidendoli o bloccandone la crescita. La Pastorella ama moltissimo i suoi alberi e quando ne trova uno con la corteccia rovinata dagli scoiattoli si arrabbia molto.

    La Pastorella ha adottato Pepe in un centro di soccorso per cuccioli. Qualcuno ce lo aveva portato dopo averlo trovato con i suoi fratellini in un sacchetto di carta abbandonato lungo una strada trafficata, non lontano dalla fattoria Pecora Nera. In cambio del piccolo, la gentile signora che gestiva il rifugio non volle soldi e nemmeno cibo per i cani del centro. Chiese invece un piccolo cestino di fichi: si ricordava che, molti anni prima, era stata alla fattoria e il nonno della Pastorella le aveva regalato uno squisito fico appena colto. (Molto tempo fa, la trisnonna della Pastorella piantò mezza dozzina di alberi di fico che fiorirono a ridosso delle mura in pietra del giardino, e ogni estate quelle piante producono ancora frutti deliziosi.) La Pastorella spiegò che ci sarebbero voluti ancora alcuni mesi prima di poter cogliere i fichi, dato che maturano in agosto. La gentile signora disse che non c’erano problemi: avrebbe aspettato, e volentieri, perché la delizia di quei frutti era indimenticabile.

    Mesi dopo, come promesso, la Pastorella le portò un cestino colmo di fichi freschi e maturi. Portò anche Pepe con sé, perché la donna vedesse come era cresciuto bene, diventando un cane adorabile. Ma quando, una volta al centro di soccorso, la portiera dell’auto si aprì, Pepe annusò l’aria e si rifiutò categoricamente di scendere dalla macchina, come mi raccontò lui stesso: il poverino pensava che la Pastorella volesse restituirlo. Rimase accucciato e tremante sul fondo del veicolo, terrorizzato per ciò che sarebbe potuto accadere; così la Pastorella lo rassicurò e lo lasciò in macchina mentre andava a consegnare il cestino di fichi. La signora ne fu felicissima, mi disse in seguito Pepe, anche perché si era completamente dimenticata di quel baratto.

    Quando giunsi qui alla fattoria Pecora Nera, la matriarca dei cani era Tassie. Anche lei era stata adottata dalla Pastorella al rifugio della signora gentile. Era una Jack Russell Terrier testarda dal pelo ruvido e bianchissimo, terrorizzata da quasi tutto per via dei maltrattamenti subiti nella sua casa precedente, ma la sua più grande passione, quando non stava appiccicata alla Pastorella come un’ombra, era dare la caccia ai ratti. E lo faceva alla grande, addirittura per inseguirli si arrampicava su alberi e muri. Tassie era così veloce ed efficace a fare fuori i ratti che spesso la gente telefonava alla Pastorella per chiederle di portarla a casa loro quando aveva stanato un topo.

    Da quanto ho capito, il Gigante arrivò che era un cuccioletto nero che stava in un sacchetto della spesa. È un grosso Pastore Tedesco nero e simile a un lupo. Quando, appena arrivato, lo sentii abbaiare per la prima volta, quasi schizzai fuori dal pelo per la paura. Ti rompeva davvero i timpani! Ma adesso so che dietro quel vocione si nasconde un cuore tenero come un marshmallow.

    Poi c’è il capriccioso Orso, unitosi a noi più di recente: era un cucciolino minuscolo, perciò lo chiamavamo Pozzanghera… È un nome perfetto per i cani giovani, visto che sembrano capaci solo di lasciare pozzanghere su tutto il pavimento della cucina, costringendoci a fare lo slalom finché qualcuno non le asciuga. Orso è un meticcio dal naso fino quanto un Beagle, il pelo soffice e lucido di un King Charles Spaniel, la tenacia di un Jack Russell Terrier e la slealtà di un Labrador. Le zampe, tozze e rivolte in fuori, lo fanno assomigliare a un Corgi piuttosto bizzarro. Sua madre era una trovatella, rimasta incinta per sbaglio. I suoi padroni scoprirono che aspettava un cucciolo quando la portarono dal veterinario per la sterilizzazione.

    Orso lo sopporto a fatica, ma la nuova Pozzanghera, be’… è piccola, con il pelo nero-marrone, orecchie di gran lunga troppo grosse che fanno pensare a un pipistrello della frutta, e la codina ritta che secondo alcuni umani è carina. Per quanto mi riguarda, Pozzanghera è una scocciatura, con quel suo sofisticato nome peruviano poi… Inca! Quando imparerà a comportarsi e a rispettare l’autorità sarà sempre troppo tardi. Nel frattempo, sono piuttosto felice di contribuire alla sua educazione con zampate a unghie scoperte quando è il caso e mi torna comodo.

    La Pastorella adora il muso da pipistrello della frutta di Pozzanghera, le ricorda il Borneo, quando, molti anni fa, lavorava per un’organizzazione benefica che si occupava di salvaguardare la fauna selvatica. Una volta fece un viaggio in battello tra le mangrovie della foresta pluviale soggetta alle maree, per osservare nel loro ambiente naturale le nasiche. Sono scimmie con buffi nasi lunghi e piatti che sporgono dal muso e grandi pance tonde. Dopo aver costeggiato isole coperte dalla giungla di mangrovie ed essere riusciti a vedere quei primati, il battello si diresse di nuovo verso Bandar Seri Begawan. Con il calare del sole, l’aria si riempì di un brusio dovuto al frusciare delle ali di migliaia e migliaia di volpi volanti che si accingevano ad andare a caccia di frutta. Sono grossi pipistrelli con il muso da volpe e orecchie appuntite molto simili a quelle della nostra nuova Pozzanghera.

    Quando arrivai alla fattoria non avevo nemmeno un nome. Mi chiamavano semplicemente miciottissimo oppure miciottino carino, il che è un po’ umiliante, soprattutto considerato che sono così bello. Spesso la gente chiede che cosa sono, con i miei grandi occhi verdi, le orecchie a punta e il soffice pelo marrone-nero. Che domanda stupida: sono un gatto, ovvio. Non un Maine Coon o un Norvegese delle Foreste, bensì un gatto di Kilkenny.

    Comunque, quando finalmente la Pastorella mi permise di allontanarmi dall’accogliente tepore dell’Aga, le andai dietro: dopotutto, era un tipo piuttosto interessante, con quella chioma lunga e grigia e quella voce forte, perfetta per raggiungere i confini dei campi quando richiama le nostre amate pecore.

    All’epoca del mio arrivo, le stalle che ospitavano i cavalli si trovavano in un piccolo cortile esterno, con alcuni edifici e bassi recinti in pietra. Quella mattina, la Pastorella attraversò di buon passo le stalle, dalle cui mezze porte si affacciavano a sbirciare i due cavalli. Mise loro le capezze e aprì entrambe le porte della stalla, ordinando agli equini «Fermi!» con voce decisa; loro non si mossero e rimasero immobili come statue, cosa che mi colpì parecchio. Per osservarli meglio, avanzai tra loro: erano senza dubbio molto alti, con mantelli lucenti, uno baio e uno grigio, e criniere setose; piuttosto belli, per essere cavalli. È risaputo che gli equini non sono così intelligenti, la maggior parte delle volte (l’eccezione è Marco Polo – del quale vi parlerò meglio più avanti).

    «Sciocco d’un gatto» disse la Pastorella quando mi notò lì per terra. Mi spinse con lo stivale per levarmi di mezzo, dato che stava per condurre avanti i cavalli; immagino lo abbia fatto per evitare che finissi sotto i loro grossi zoccoli mentre camminavano sull’acciottolato del cortile. Svettavano su di me con i loro enormi corpi muscolosi. La Pastorella pensò che avessi paura, ma si sbagliava: io non conosco la paura. Continuai a camminarle accanto, in mezzo ai due cavalli, per nulla turbato dalla loro mole o dal suono metallico dei loro ferri sui ciottoli che portavano al cancello del campo.

    «Oh Signore!» esclamò la Pastorella, vedendo che non mi spostavo. «Sei davvero audace, sai?» E così divenni l’Audace, in inglese Bodacious.

    Da allora la Pastorella mi ha ripetuto fino alla noia che si tratta di un termine cajun, che viene dai bayou della Louisiana. A quanto pare significa grande, audace, bellissimo, ribelle, una descrizione piuttosto accurata, suppongo. Sembra che le ricordi quando, molto tempo fa in anni felini, viveva a New York, era un giovane spirito libero e gli altri la apostrofavano così. Anche se la fattoria Pecora Nera appartiene alla famiglia della Pastorella da duecento anni, una parte del suo parentado proviene dall’America.

    Tutto questo successe molto tempo fa – nove o dieci anni – e io decisi di rimanere. C’era qualcosa in quella casa, in quel frutteto, in quei campi che mi faceva desiderare di essere parte di quella vita, e non per i soliti motivi – cibo e roditori in abbondanza – ma perché lì, a prendere il sole in un angolo del giardino che dà su una fattoria di un caldo rosa sbiadito, o a curiosare nel frutteto, mi sentivo a casa. E poi, sapevo che la Pastorella aveva bisogno di me. Prima che arrivassi io se la cavava a stento, anche se Pepe ce la metteva tutta.

    Una volta presa la decisione di restare, dovevo trovarmi un ruolo nella famiglia di animali della Pastorella. Pedinai Oscar, il gatto bianco a macchie tigrate: sembrava lui il capo, per cui semplicemente seguii il suo esempio. Se c’erano degli agnelli sotto la lampada termica rossa, Oscar li raggiungeva e si raggomitolava sotto la luce perché stessero più al caldo. Non c’è bisogno di specificare che lui non ci guadagnava affatto.

    Oscar è morto nel 2013, e devo dire che mi manca. Non ho nessuno con cui condividere il fardello di essere il Gatto da Pastore Capo e le responsabilità che questo ruolo comporta. E sono tante: per dire, do ordini, sorveglio e tengo compagnia alla Pastorella durante i lunghi parti delle pecore. Controllo i campi mentre lei percorre l’erba alta dei pascoli. Aiuto a portare il fieno, controllo il bestiame quando mangia, aiuto a prestare le prime cure agli agnellini appena nati.

    Non sono la Little Bo-Peep della filastrocca che perde una pecora, anche se qualche volta anche a noi è capitato di smarrirne una, scappata da un buco nel recinto o finita nei campi dei vicini per un vecchio muretto di pietra crollato. Ho imparato a fare i conti con una vita che alterna momenti buoni e momenti cattivi, contemplando a volte anche la morte.

    Occuparsi delle pecore è un lavoro duro. La mia Pastorella crede nell’agricoltura sostenibile, perciò dobbiamo usare concimi naturali per coltivare varietà sane di erba, trifoglio, piantine e fiori di campo selvatici. Tutte quelle piante danno da mangiare alle nostre pecore, che poi producono lana da tosare, ripulire, filare e tessere per realizzare splendide, calde coperte (disegnate dalla Pastorella) nel locale lanificio Cushendale, nel delizioso paesino di Graiguenamanagh. Le coperte vengono poi spedite in tutto il mondo: perfino il presidente irlandese ne ha una – ma ve lo racconterò meglio più avanti.

    In questo libro le pecore non mancano di certo. Ci sono quelle allevate per la carne, altre invece vengono vendute ad altre fattorie per la riproduzione. Il mio gregge è piccolo, se paragonato a quelli australiani o neozelandesi, che contano molte migliaia di pecore dalla lana bianca. Io ne ho tra le sessanta e le ottanta, la maggior parte sono Zwartbles, una razza piuttosto rara. Sono di grossa taglia, con il manto color cioccolato, una lunga fiamma bianca sul muso, la punta della coda bianca e un paio di calzini al ginocchio bianchi anch’essi sulle zampe posteriori. Sono un po’ ottuse, ma piuttosto semplici da curare. Producono moltissimo latte, da cui si possono ottenere un delizioso formaggio o lo squisito gelato che fa la Pastorella, talmente buono da leccarsi i baffi. Il vello è di un’intensa e pregiata sfumatura di marrone, tipo caffè espresso.

    Di tanto in tanto mi capita di dovermi prendere cura anche della Pastorella. Come ho detto prima, molto tempo fa lavorava per un’organizzazione benefica a salvaguardia della fauna selvatica del Sudest asiatico. Raccogliendo e catalogando informazioni di carattere veterinario e zootecnico per conto del suo datore di lavoro londinese, fece amicizia con molti animali selvatici ed esotici. Questo prima che le risposte a quelle domande tecniche fossero rintracciabili digitandole su Google. Mentre si trovava là, contrasse una malattia tropicale che la costrinse a letto per tre anni. Ora la malattia è latente, e la Pastorella se la cava egregiamente con il mio aiuto e ama il lavoro alla fattoria, ma devo ancora farle da infermiere ogni volta che ha una ricaduta. Mi sdraio su di lei per costringerla a stare ferma, così può riposare. È una vita difficile.

    Come se non bastasse, do istruzioni quando la Pastorella cucina e mi assicuro che tutte le uova delle mie ovaiole vengano raccolte. Loro sono convinte di averle nascoste bene, ma io so dove le vanno a ficcare, dietro balle di paglia e infilate in mezzo al fieno. Tengo sotto controllo anche gli altri animali e se serve non mi faccio problemi a mollare loro uno scappellotto a unghie scoperte. Quando la Pastorella lavora in giardino, sto attento che il pettirosso non mangi tutti i vermi, in modo che ne rimanga qualcuno per fertilizzare in maniera naturale il terreno: è piuttosto semplice, in realtà, mi basta scacciarlo dalla cima del forcone. Di Miss Marley non mi preoccupo, ma devo sempre tenere d’occhio Guantodaforno perché gli sia chiaro chi è il Gatto da Pastore che comanda.

    Di lavoro per me ce n’è sempre, ma di solito la mia giornata comincia quando mi va. A volte inizia quando si apre la porta del retrocucina e io entro per fare colazione sgranocchiando croccantini per gatti. Altre volte comincia

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